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cui ha dato occasione questo maraviglioso poema, e della influenza che ha esercitato sull' italiana letteratura nelle sue diverse epoche. Questo rapido abbozzo dell'istoria letteraria di Dante, mi gioverà per darvi una idea dello scopo e dei motivi di questo corso.

Son più di cinquecento anni che Dante è morto; e in questo lungo volger di tempo, in cui tante glorie letterarie hanno perduto in tutto o in parte il loro splendore, quella di Dante è divenuta sempre più illustre. Io seguirò per qualche istante le tracce di questa meravigliosa fama poetica nei secoli che ha percorso senza cessar di salire a più grande altezza.

L'epoca stessa di Dante, cioè l'intervallo dal 1300 al 1321, che fu quello della pubblicazione successiva delle varie parti della Divina Commedia, quest'epoca, io dico, è forse quella in cui è più difficile il discoprir qualche cosa del sentimento, col quale fu accoito questo poema, e dell'idea che se ne formarono i suoi primi lettori.

Nei tempi di cui si tratta, la poesia italiana altro non era, come il vedremo in appresso, che un elegante divagamento per le alte classi della società; nessuno la reputava un' occupazione importante, o un mezzo sicuro di gloria e di fama. Per aspirare agli onori ed al rispetto dovuti alla scienza ed all'ingegno era d'uopo scrivere in latino. Mercè di composizioni latine ciascuno era sicuro di lusingare le vanità municipali e di ottenere dalle repubbliche o dai signori del paese gli onori, allor sì frequenti, del trionfo poetico. Gli uomini che aspiravano a questo trionfo, e con più ragione coloro che lo avevano ottenuto, riguardavansi siccome eredi e continuatori di Virgilio e di Orazio, e sprezzavano quei disgraziati poeti volgari, ridotti a contentarsi dell'ammirazion delle donne e degli uomini illetterati.

Dante, uno di questi poeti, era dunque, esposto alla cattiva accoglienza dei dotti, di quei letterati si orgogliosi di

poter bene o male scrivere in una lingua più non compresa dal popolo. Però i versi della Divina Commedia eran sì belli, e di una si schietta e sì viva bellezza, che era impossibile ad orecchie italiane non esserne più o men dilettate.. Gli stessi latinisti ne meravigliarono, nè poterono ristarsi dall'ammirarli, ma persistettero nella loro opinione; anzi questa ammirazion passeggiera, destata in loro, quasi senza avvedersene, da un poema italiano, gl' indusse a rendere un nuovo omaggio alla loro erudita poesia. Quanto più i versi italiani di Dante sembravan loro leggiadri, tanto più loro incresceva che latini non fossero ai loro occhi l'autore della Divina Commedia avea commesso una specie di sagrilegio verso la lingua morta e sacra, dicendo sì belle e sì grandi cose nel vivente e comune idioma.

Uomini che pensavano e sentivano in siffatta guisa non avean per fermo quelle doti di animo e d'ingegno che avrebbero dovuto possedere per comprendere il poema di Dante e per apprezzarne le bellezze.

Secondo le tradizioni che risalgono a' tempi vicini a Dante, la Divina Commedia era stata più favorevolmente accolta dal popolo che dai dotti gli artigiani e i contadini ne cantavano nelle botteghe e per le vie alcuni tratti, in modo da formarne veri canti popolari, siccome avean fatto pei romanzi di cavalleria, di cui si sa che cantavano isolati frammenti. Franco Sacchetti racconta intorno a questo soggetto curiose storielle, da lui certo non inventate, e che a' suoi tempi, cioè nella seconda metà del secolo XIV, circolavano in Firenze. Ma queste storielle sono in vero sospette, e ben considerando la cosa, non può credersi che in alcun luogo d'Italia il popolo abbia mai cantato tratti della Divina Commedia; conciossiachè nei tratti stessi ov'è più semplice ed ingenua, la poesia di Dante mai non si abbassi ai modi di quella del popolo, nè mai ne prenda le forme; ma serbi sem

pre l'impronta di un'arte troppo severa ed elevata per poter essere popolare. Solo perchè disprezzavano o difettavano di altri canti i contadini di Toscana e gli artigiani di Firenze potevan toglierne alcuni dalla Divina Commedia, atti a commuoverli ò a rallegrarli.

Le classi elevate della società italiana, classi non erudite, ma culte e dotate di un senso poetico più esercitato e più vero di quello dei dotti, furono certamente quelle fra le quali ebbe principio la fama di Dante. Nè pe' suoi pregi artistici e poetici potè in sulle prime la gran composizione di Dante colpire i di lui contemporanei. Gli avvenimenti posti in iscena dal poeta erano troppo vicini per non destare passioni ancor vive. Molti di coloro che avean partecipato a questi avvenimenti, vivevano ancora; rimanevano i figli di coloro che erano estinti. Or per essi Dante era piuttosto un panegirista, un satirico, un istorico, anzichè un poeta; e nella Divina Commedia dovean vedere piuttosto il quadro vivente di un mondo politico troppo reale, anzichè la pittura ideale di un mondo soprannaturale. In una parola, le impressioni della poesia dantesca non potevano agire che in parte su quelle immaginazioni ancora preoccupate e signoreggiate dagli interessi e dalle passioni dell'epoca dipinta da Dante.

Ma a misura che quei tempi si facean più remoti, gl' Italiani si avvezzavano a poco a poco a vedere nella Divina Commedia un'opera d'arte e d'immaginazione, che ammirarono sempre più e della quale bene e male imitarono il linguaggio, le forme e le idee. Verso la metà del secolo XIV Fazio degli Uberti, imitando il fantastico quadro della Divina Commedia, componeva il suo preteso poema, intitolato il Dittamondo, che non è altro che un lungo trattato di storia e di geografia; e probabilmente verso la medesima epoca, o poco più tardi l'autore o il traduttore ignoto del romanzo popolare di Guerino il meschino trasportava in quel romanzo

una descrizione dell' Inferno, evidentemente tolta e talvolta copiata tratto per tratto da quella di Dante. Il Quadriregio di Federico Frezzi, vescovo di Fuligno, gran poema allegorico sulle fasi del destino morale dell'uomo, è un'altra produzione del XIV secolo, nella quale si manifesta del pari l'influenza delle finzioni poetiche di Dante.

Queste imitazioni provanò abbastanza che nel mezzo del secolo XIV la Divina Commedia era molto in voga, ma non che fosse ancora degnamente apprezzata. I due uomini che primi manifestaron per Dante una meditata ammirazione, presentimento e pegno di quella dell'avvenire, furon Petrarca e Boccaccio. Quest'ultimo soprattutto si accese per la Divina Commedia di un entusiasmo di cui sembrava appena capace. Persuaso, non so per quali motivi, che il suo amico Petrarca non era del suo stesso avviso, gli scrisse rimproverandolo di esser geloso di Dante e di non rendergli giustizia.

La lettera di Boccaccio è perduta; ma si ha la risposta del Petrarca, la quale è una profession di fede distinta ed interessante del poeta di Laura verso quello di Beatrice. Petrarca respinge vivamente il rimprovero di aver mai sentito la minima gelosia della gloria di Dante, pel genio del quale professa la più grande ammirazione. Tuttavia confessa non aver letto che tardi la Divina Commedia, avendosene lungamente interdetta la lettura; ma spiega questa condotta in modo del pari onorevole per lui e pel suo grande antecessore. Ei dice che risoluto a scriver poesie in lingua volgare, aveva aspirato ad essere originale e a mostrarsi unicamente e pienamente qual era; e per non esporsi, secondo afferma, all' influenza di sì potente genio qual era Dante, aveva in sulle prime divisato di non percorrerne le opere; ma trascorso il tempo in cui questa precauzione avrebbe potuto giovargli, avea letto e riletto le di lui opere e sempre con ammirazione.

Secondo queste asserzioni letteralmente prese, il Petrarca avrebbe scritto i suoi Trionfi pria di aver letto la Divina Commedia. Ma la cosa è difficile a credersi : tutto induce a presumere che componendo queste visioni che intitold Trionf; Petrarcà non solo avesse letto il poema di Dante, ma ceduto, leggendolo, alla pericolosa tentazione di provarsi in un componimento del medesimo genere.

L'ammirazione che Boccaccio e Petrarca manifestarono per Dante accrebbe la di lui rinomanza, e forse ancora contribuì al nuovo genere di omaggio che gli fu tributato al loro tempo intendo parlar delle cattedre istituite per la spiega della Divina Commedia.

La prima fu quella creata in Firenze nel 1373. Boccaccio vi fu chiamato e l'occupò finchè visse. Pisa non tardo ad imitar l'esempio di Firenze, ed ebbe pure professori per ispiegar Dante, fra i quali primo e più distinto fu Francesco da Buti. Bologna, che avea ragioni particolari di onorar la memoria del poeta fiorentino, aprì anche con questo intento una scuola in cui professò Benvenuto da Imola, uno dei discepoli del Boccaccio e dei più dotti uomini del suo tempo. Fino ai più rudi signori di Milano, fino al Visconti, non vi fu chi non si piccasse d'imitar lo zelo col quale le più dotte città della Toscana cercavano di render popolare il loro poeta. Nel 1398, Galeazzo Visconti istituì in Piacenza una di queste cattedre in cui dovevano essere spiegate, le bellezze e i passi difficili della Divina Commedia.

Nè questo nuovo insegnamento fu dispensato nelle scuole ordinarie, allora in gran parte confinate nel silenzio e nella oscurità dei chiostri; nella sua istituzione vi fu qualche cosa di più solenne, di più popolare, di più analogo al genio dell'epoca; perciocchè ebbe luogo nelle chiese, per quanto era possibile nei giorni delle grandi feste cristiane, é in presenza di numeroso popolo, dapprima disposto alle emozioni della sublime poesia da quelle della religione.

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