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Oltre alle spieghe, ai commentari per così dire ufficiali, cui diè luogo nel secolo XIV l'insegnamento pubblico della Divina Commedia, questo poema fu oggetto di solitari e spontanei lavori, da cui risultarono altre spieghe ed altri commenti che concorsero coi primi, facilitando lo studio di Dante, ad accrescerne la fama.

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La fine del secolo XIV annunziava abbastanza qual dovea essere il seguente secolo sotto il rapporto della letteratura e delle arti; ma i fatti superaron gl' indizi. Il secolo XV fu per l'Italia un periodo di morale e politico degradamento. Da per tutto era già cessato o cessava la lunga e viva lotta della democrazia contro le signorie assolute; queste ultime avean trionfato od erano per trionfare, e sotto di esse erasi da per tutto arrestato quell' energico movimento d'ingegni e di caratteri che si era manifestato nelle grandi creazioni del secolo XIV, che sono ancora i capolavori della letteratura italiana.

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Il gusto delle lettere e degli studi non si perdeva nel secolo XV; diveniva anche più generale di quanto lo era stato dianzi. Ma ogni originalità ed ogni nazionalità disparve dalla letteratura; l'attività degl' ingegni esclusivamente si rivolse verso l'erudizione, lo studio delle lingue dotte, e le opere scritte in quelle lingue. Non bastando il latino per occupare quel gusto sempre più acceso per le antiche lettere, vi si aggiunse la cultura del greco. Leonardo Bruni d'Arezzo, Francesco Filelfo e parecchi altri coltivarono con successo la gréca letteratura nella prima metà del secolo XV ed ebbero numerosi discepoli: Cosi quando i dotti di Costantinopoli, scacciati dai Turchi, vennero a cercar rifugio in Italia, vi trovárono già molto diffuso lo studio della loro lingua, e non fecero che daré un più forte impulso a quello studio. Allora la letteratura italiana, invece di una sola rivale, avuta sino a quel punto, ne ebbe due; nè sarebbe agevol cosa il dire

quale di entrambe fosse per essa più intollerante e sprezza

trice.

Il secolo XV ebbe tuttavia i suoi poeti volgari come i due secoli precedenti. Parecchi anche di questi poeti potrebbero dirsi originali nel senso che non imitarono alcuno e non espressero nei loro versi alcuna idea dominante, alcun sentimento convenuto; ma mancarono totalmente di genio, e la loro dizione fu sì rude ed incolta, che, se non si conoscesse positivamente la loro epoca, si crederebbero più di un secolo anteriori al Petrarca.

Alcuni fra loro, come Giusto dei Conti e Bona corso di Montemagno, mostrarono nelle loro composizioni e nel loro stile un gusto più puro e più artistico, ma furono imitatori servili e monotoni non di altri poeti, ma d'un solo, adottato allora siccome tipo e modello ideale della poesia italiana, e questo poeta non era Dante, ma Petrarca.

Sarebbe non difficile ma lungo lo spiegar le ragioni di questa preferenza; è un punto sul quale avrò molte occasioni di ritornare; mi limiterò pel momento ad alcune rapide osservazioni.

La preferenza data a Petrarca su Dante dal secolo XV non era si assoluta quanto sembra a prima vista. Io l'ho già detto, il secolo XV non era un secolo poetico, sibbene un secolo di curiosità erudita. Or vi erano nella Divina Commedia parti secondarie ed accessorie che per ingegni disposti siccome quelli del XV secolo esser dovevano principali. L'opera era piena di allusioni istoriche e mitolo giche, abbondava di allegorie o di tratti che si prestavano ad una mistica o filosofica interpretazione. Ora il riguardar Dante sotto questo aspetto era, secondo la opinione e le idee dell'epoca, il tributargli il più grande onore che fosse possibile; cra, a dispetto della lingua volgare che si era degnato di porre in uso, l'innalzarlo al grado dei felici geni

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di Grecia e di Roma, i quali erano maggiormente ammirati per essere estinti i loro idiomi.

Che che ne fosse, il secolo XV non si occupò della Divina Commedia, che per ispiegarla, illustrarla, commentaria, e continuò e condusse a termine l'opera cominciata verso la fine del precedente.

Le cattedre allora istituite dai governi per la spiega della Divina Commedia furono l'una dopo l'altra soppresse nel secolo XV; ma quello che gli eruditi avean fatto dapprima come professori pubblici, continuarono a farlo come professori liberi e privati, e probabilmente con questo ultimo titolo G. Maria e Francesco Filelfo esposero alcune parti della Divina Commedia, il primo in Verona e il secondo in Fi

renze.

Quanto ai commentatori di Dante che lavoravano piuttosto per leggitori, anzichè per uditori, furon eglino ancor plù numerosi nel secolo XV che nel precedente. Avrò appresso occasione di parlare di tutti questi commentatori, di citarli, e di lamentarmi di tutto che vi manchi, di tutto che vi ha di superfluo o di peggio che superfluo nei loro enormi lavori ; qui non gli accenno che per riconoscere i servigi da loro resi alla italiana letteratura.

-Gli eruditi pedanti, latinisti o grecisti, furono ancor più numerosi nel XV che nel XIV secolo. Più istruiti e più eleganti, si credettero più in dritto di sprezzare la poesia volgare e particolarmente quella di Dante. La Divina Commedia non era, secondo loro, che un repertorio di trivialità, monacali, che un libro da involgergli droghe e pesce salato, un libro da sarti e da ciabattini. »

Era questa, come si vede, una continuazione ed anche un raddoppiamento di quella specie di lotta stabilita nel secolo XIII tra la letteratura morta e la vivente, tra il latino e Fitaliano. Or, i commentatori, gl'interpreti della Divina

Commedia, coloro che la spiegavano in pubblico, contribui rono certamente a mantenere la nazionalità letteraria d'Italia, e tutto quello che essi fecero per la gloria di Dante, fu una specie di protesta più o meno diretta in favore della poesia italiana, contro gli eruditi convinti che non poteva esservi poesia che in greco o in latino.

Del resto, considerati in sè stessi e nei loro risultati gli scritti di questi commentatori e di questi professori, hanno un merito, che bisogna saper riconoscere sotto le ingrate forme di un'erudizione da lungo tempo in disuso. Essi contengono un gran numero di nozioni e di tradizioni preziose sulla vita di Dante, sulle particolari avventure e gli avvenimenti nazionali cui egli ha fatto allusione nel suo poema, e sui costumi privati o pubblici degli Italiani. Vi sono nella Divina Commedia gran numero di tratti che più non s'intenderebbero se essi fornito non ne avessero i dati indispensabili per intenderli. Infine, eglino non fecer, meno per Dante di quanto i commentatori greci per Omero, nè la loro fatica fu men utile..

Il gusto della classica erudizione, che avea formato nel XV secolo il carattere dominante dell'italiana letteratura, continuò nel XVI non però colla perniciosa influenza che aveva esercitato sulla parte nazionale e vivente di questa letteratura. In quel luminoso periodo la poesia e l'eloquenza italiana meravigliosamente svilupparonsi e si arricchirono di tutti i generi di cui pativan difetto. Trasportate in quel pe riodo la fama e le composizioni di Dante vi rinvennero un mondo novello, in contatto con rinomanze e con idee novelle, di cui doveano subir la prova, che minacciava di esser terribile.

Nella poesia, e particolarmente nella lirica, Petrarca coutinuava a dominare come l'ideale della perfezione, come un modello assoluto che escludeva tutti gli altri e Dante stesso,

il quale non potè avere imitatori propriamente detti. Se si studio ancora fu sotto il rapporto della linguâ, in ciò che riguarda lo stile e l'espressione poetica. Alcun non penso di imitare nè l'idea nè le forme del suo gran poema. Eransi sviluppate, nel corso del secolo, opinioni opposte a quelle forme e a quell'idea, e la letteratura italiana avea progredito purificandosi sotto le influenze dell'antichità greca e latina. Si eran formate teorie letterarie su tutti i generi di componimenti; e queste teorie eran tutte fondate sulle poetiche di Aristotele e di Orazio, delle quali si eran fatte gran numero di parafrasi, di traduzioni e di commenti.

Esistendo queste teorie, non se ne fece soltanto la regola delle opere da comporre, ma una legge assoluta, cui si riferirono tutte le produzioni anteriori. Era impossibile che que→ sta legge non fosse applicata alla Divina Commedia, ed era difficile che l'applicazione non traesse seco contese; era questo un altro incidente, una novella fase tra la letteratura classica e la nazionale.

La lotta cominciò nel 1570. Uno dei grammatici e dei letterati celebri di quel tempo, Benedetto Varchi, pubblicò in quell'anno il suo Ercolano, operà in forma di dialoghi sulla lingua italiana. Siccome era ben naturale, vi parlava molto di Dante e sempre colla più grande ammirazione, fino a proclamarlo formalmente in più di un luogo superiore a Virgilio e ad Omero. II Varchi era un ingegno secco, mediocre, leggiero; non conosceva l'antichità, e sarebbe stato molto imbarazzato ad addurre, non dico ragioni plausibili, ma ragioni qual che si siano di questa preferenza che accordava a Dante su di Omero e Virgilio. La sua asserzione non eccitò men sorpresa che scandalo, e attirò al povero Dante avversari, che senza di questo non avrebbe forse avuto, o almeno non sarebbero stati sì violenti.

Un ignoto personaggio, che si nascose sotto il nome di

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