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La dignità dell' animo gentile.
Nuoce talor l'ingegno e si fa vile
Per mal obietto che dai più si brama;
In chi virtù non ama,

Che vale il senno e l'abito dell' arte,

Se piega a terra la più nobil parte? La mala invidia e la calunnia e il bando Da via di verità Michel non torse, Nè mai l'animo altiero ebbe venduto. Ma la patria magnanimo soccorse Del divo ingegno multiforme; e quando Piangea Fiorenza il suo splendor caduto, Non vide per virtù del gran rifiuto « La mano che obbedisce all'intelletto »> Di nuovi gioghi a tirannia ministra. Perchè volga fortuna equa o sinistra, Abbia la patria intero il nostro affetto. O iniquo o maledetto

Il parricida che di quella a oltraggio, L'armi rivolse o della mente il raggio. Voi cui dall' Alpe al bel Trinacrio lito

Questa misera terra, immensa copia
Manda di messi e d'armenti lanosi,
Ecco, in preda ai tiranni ed all' inopia
Restano i sacri genii, e voi l'avito
Censo sperdete in turpi ozii fastosi;
Tornate in voi; guardate i sospettosi
Signor che v' hanno derubati e scemi,
Gioir di vostra oscura e lenta morte
risorte

Novellamente si sgomenti e tremi.
Che tutti spenti i semi

In voi non sono, ma negletti e sparsi

Ponno volendo ancor rinnovellarsi.

Qual è fra voi che di private glorie

E di nomi e d'imprese e di sventure
Ampia e negletta eredità non tenga?
Ritogliete alla polve ed alle oscure
Arche i papiri e l'armi, e delle istorie
Domestiche, perdio! vi risovvenga.
A voi grida l'Italia: Ah! non si spenga
Questa favilla nell' oblío degli anni,
Ma per voi si palesi e s'alimenti.
Alzate il velo, e l' universe genti

Sapran per quante vie d' odii e d' inganni,
I miei mille tiranni

M'abbian condotto a miserando fine,

E svelto il fior delle virtù latine.
Di questo gli archi e i piedistalli gravi
E istorïati i vasi e le pareti

Tolgano il loco al vizio e alla menzogna.
Susciterà dell' alma entro i segreti
La veneranda immagine degli avi,
A vostra inutil vita acre rampogna.
Forse, quando che sia, potrà vergogna
Inanimarvi ad opre alte e leggiadre;
Quel che l' onore e il debito non puote.
Ecco le membra, il senno, ogni mia dote
In man di genti mercenarie e ladre,
Nè la dolente madre

Nessun de' figli toglierà dal fango?

Cinque secoli son che aspetto e piango!

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GITA DA FIRENZE A MONTECATINI.

LETTERA A GIUSEPPE VASELLI.

[1846.]

Sai che l'uomo propone e Dio dispone,
Come dice il proverbio (uno de' mille
Che il popolo non sa d'avere in bocca ;
E li regala a noi, gente d' accatto,
Pronta a farsene bella): avea promesso
Venire a Siena da Firenze, e teco
Chiudermi in villa, a succhiellar l'ottobre
Tranquillamente. Che ne dici? All' ergo
D' incamminarmi per Porta Romana,
Mi prese un dirizzone e venni a casa.
Se me ne chiedi la cagione, è detta
In due parole: Son figliuolo! ho visto,
Tutte le volte che di qua mi parto,
Pianger mia madre e mio padre, e lagnarsi
Di rimanere a tavola a quattr' occhi;
Mentre Ildegarde, la sorella mia,
Si maritò lontana ottanta miglia,
E me, puntello della casa Giusti,
Principe nato a ereditare il trono
Delle noie domestiche e de' saldi,

O l' uggia, o gl' intestini, o il mal de' nervi
Spingono in giro, come un arcolaio,

Nove, un anno per l'altro, e dieci mesi.

Solita fine de' nostri e di noi!

Essi ci danno la vita, ci danno

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