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CENNI INTORNO ALLA VITA DI CELESTINO CHITI.

nità s' onori di sè stessa, ed abbia di che consolarsi in tanto difetto di gloria.

Mi sembra poi che raggiunga la possibile umana perfezione chi, nella difficoltà e turpitudine dei tempi procedendo illibato e sicuro, fa che si possa scrivere di lui < nacque, visse e morì libero. »

Celestino Chiti nacque a Pescia nel 1760 di onesta famiglia cittadina; fu ammaestrato nelle scuole del Seminario di Lucca; prese laurea di legge a Pisa; passò a Firenze per l'avvocatura. Suo padre trafficante di seta, lo avrebbe voluto avviare al commercio; ma egli o si sentisse alieno o si credesse inabile alla mercatura, o fosse contento di quel poco che aveva, non potè piegarcisi mai. Anzi appena gli mancò il padre, allontano da casa sua ogni segno della passata condizione, e si diè all' esercizio del Foro e alla cura delle cose familiari. Nel tempo che studiava a Firenze, promettendo bene di sè, attrasse gli occhi sempre vigilanti di Leopoldo. Con la veduta di celeri avanzamenti, cercato e persuaso dal Principe medesimo a prender posto fra i collaboratori alla compilazione del codice, accettava per esercizio di mente, non per esperimento di fortuna.

Questo dissi non perchè io creda argomento di lode o di merito vedersi cercare da' Principi; ma parendo in quel tempo ai Principi medesimi l'abiezione dei popoli loro increscesse, dall' essere in buona vista di essi, come oggi per avventura verrebbe biasimo, acquistavasi allora onore e considerazione. Ma o fosse

cara al Chiti la quiete domestica e una vita libera affatto, o dalle pubbliche brighe aborrisse, o non fidasse gran cosa nelle larghe promesse del Principe, ritraevasi dall' accettare più oltre, cercando scuse nella vecchiezza del padre e nell' obbligo che avea di prestargli l'opera sua nelle aziende di casa. Difatto, non appena sciolto da queste sollecitazioni, univasi, persuadendolo i genitori, a Marta Bertini dalla quale ebbe sole due figlie.

Da quel momento datosi alle cure de' suoi e a quelle del Foro, quanto fu marito e padre amoroso e discreto, altrettanto chi gli affidò le cose proprie lo trovò illuminato ed integro. Se avesse mirato ad avvantaggiarsi, le occasioni non gli sarebbero mancate; ma più che al lucro, intese all'utile altrui e al decoro della professione e di sè.

La sua vita nei principii fu quale è comunemente quella dell' uomo dabbene, che nella domestica tranquillità non ha luogo di esercitare se non le modeste e solitarie virtù, non lasciandosi dietro nessuno strepito di gloria, benedetto e ammirato soltanto dai pochi che lo conobbero e da quelli che gli furono dati compagni in questo breve e dubitoso cammino. Ma le cose cangiarono, e venne stagione nella quale la tempera o buona o cattiva dell'animo apparve in pienissima luce. Gli iniqui ne trassero utile e vergogna, i buoni laude e dolore: ma per non anticipare sui tempi, dirò della persona di lui e dell' indole.

Fu alto di statura, di membra sane e forti, ma sottili. Bello d'aspetto, di quella bellezza aperta e solenne che ispira affetto, fiducia, reverenza. Togli

l'austerità e il colore dei capelli, il volto, la persona rammentavano Vittorio Alfieri col quale ebbe dimestichezza. Affabile, giocondo, schiettissimo, compagnevole cogli amici; propenso più a schivare dispregiando, che a placare o affrontare e molto meno a insidiare gli avversi. Nettezza e decoro negli abiti; dignità, cortesia di modi; terribile nell' ira. L'ingegno non ebbe straordinario, l'animo grandissimo. Seppe più degli uomini che dei libri; più atto a fare che a dettare, pure facondo e sentenzioso nel discorso. I più e i migliori lo amavano e lo tennero in gran conto per efficacia di consiglio: da alcuni o invidi o di corta estimativa, gli venía taccia d' assoluto e di dommatico. Ma il volgo chiama superbia quella nobile alterezza che deriva all' animo dal sentirsi intemerato ; nausea o calpesta con stupido fasto ciò che non sa apprezzare, è se taluno lo schiva, non al pudore, non al rispetto che ognuno debbe alla propria fama, non infine alla sua stessa imbecillità lo attribuisce, ma alla boria dei titoli o del sapere, la quale non cape negli intelletti alti e gentili. Simile anco in questo ai tiranni, odia, invidia e spegne talora chi non s' abbassa a lui, ignorando ai magnanimi rincrescer meno perdere la vita che contaminarla.

Tale trovarono Celestino Chiti le opinioni che fino dall' ottantanove passavano in Italia dalla Francia, levatasi allora in subite speranze di nuove cose. Portava la fama l' adunarsi degli Stati generali; il nome dell' Assemblea Costituente; la virtù di quegli uomini ; i tumulti del popolo parigino; le ultime inutili brighe di quella Corte debole e lasciva. Poi, con incredibile

continuità di vicende, le prime vittorie dei Francesi sopra gli Alleati; il frenato dispotismo, la tentata fuga, l'arresto della famiglia reale, poi altre forme di governo, altri nomi ; le sanguinose giornate d'agosto e di settembre; la prigionia, la morte di Luigi, altri nomi altre morti ancora; e subito l'armi inviate alla volta delle Alpi ; i disastri di Tolone; Buonaparte infine e le sue meraviglie di Parigi e d'Italia.

Sbigottivano i partigiani degli antichi governi ; le cose nuove fortemente negli animi forti s'imprimevano. Alle grida alle armi avverse a libertà, dall'Alpi a Lilibèo si mischiavano mille ardenti sospiri mandati a quell' unico bene e al forestiere che prometteva parteciparnelo.

Non è a dire di quali si fosse Celestino. La lettura degli Enciclopedisti, l'impulso dato agli spiriti da Leopoldo e da Scipione Ricci, e l'indole propria lo avevano disposto per tempo a sentire molto liberamente in fatto di governo e di religione. Nè era da credere che, venutogliene il destro, ei non si manifestasse per gli ordini nuovi e per un vivere più largo quale chiedevano i tempi, che nella perpetua vicenda del bene e del male risorgevano.

Abbracciò le promesse di Francia come le abbraccia l'uomo che non spera e non teme: non invase cioè con cupide brame gli onori e l'erario dello Stato; non si allegrò sentendo venuto il tempo di esercitare astii e vendette; d'opprimere insomma e di farsi ricco in nome della libertà. Fu amore di principii, non accettazione di persona; fu desiderio, fu speranza d' animo buono e leale, non cal

colo di demagogo che mira a inalzarsi parteggiando. Raccoglieva con gioia i proclami, i trionfi di Buonaparte minaccioso sulle Alpi: godeva poi dell' occupato Piemonte; di Wurmser, d' Alvinzi disfatti; della nuova Cisalpina repubblica costituita ; dei potentati della inferiore Italia fiacchi e tremanti. Sperava coinpita per le armi repubblicane la riforma incominciata da Leopoldo, libero il pensiero e la parola; utile, inviolato il patrimonio dell' intelletto; la vana superbia dei nobili, l'iattanza del clero represse; civile eguaglianza; certi e stabili i diritti, i doveri del cittadino: dall' infiammare pertanto la cieca incerta moltitudine, saggio e temperato, astenevasi.

Forse gli increbbe vedere Buonaparte arrestarsi: pure la presenza di uno stato libero in Italia, e la circospetta trepidazione degli antichi signori, confortavanlo di più lieto avvenire. Chi allora fra i previdentissimi avrebbe sospettato nel generale repubblicano non che l'Imperatore e Re, ma il Consolo? Fu Celestino uno dei tanti che fidarono nelle promesse francesi, sempre mendaci e credute sempre. Ma chi di noi vorrà muoverne rimprovero ai padri nostri non esperti della fallacia forestiera, di noi che espertissimi e consapevoli cademmo e cadremo, se Dio non ci dà lume, in un laccio medesimo? Tutto promessero e prometteranno, e tutto pure, come fecero allora, prenderanno per sè; e bene sta, chè non merita esser libero chi tale non sa farsi da sè.

Ripassò le Alpi Buonaparte e seco la fortuna delle armi francesi in Italia.

Rianimavasi l'idra tedesca, ripullulava il seme

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