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V. GAMBARA CORREGGIO,

DA BRESCIA.

(1540.)

SOPRA LA VANITA

DE' BENI TERRENI.

OTTAVE.

QUANDO miro la terra ornata e bella Di mille vaghi ed odorati fiori, E che, come nel ciel luce ogni stella, Cosi splendono in lei vari colori, Ed ogni fiera solitaria e snella, Mossa da natural istinto, fuori

De' boschi uscendo e dell' antiche grotte, Va cercando il compagno e giorno e notte:

E quando miro le vestite piante Pur di bei fiori e di novelle fronde, E degli augelli le diverse e tante Odo voci cantar dolci e gioconde, E con grato rumore ogni sonante Fiume bagnar le sue fiorite sponde, Talchè di sè invaghita la natura Gode in mirar la bella sua fattura: [ve Dico frame pensando: ahi quanto è breQuesta nostra mortal, misera vita! Pur dianzi tutta piena era di neve Questa piaggia or si verde e si fiorita; E da un aer turbato, oscuro e greve La bellezza del cielo era impedita, E queste fiere vaghe ed amorose Stavan sole fra monti e boschi ascose.

Ne s'udivan cantar dolci concenti Per le tenere piante i vaghi augelli, Che dal soffiar de' più rabbiosi venti Fatt' eran secche queste, e muti quelli; E si vedean fermati i più correnti Fiumi dal ghiaccio e i piccoli ruscelli, E quanto ora si mostra e bello e allegro Era per la stagion languido ed egro.

Cosi si fugge il tempo e col fuggire Ne porta gli anni e 'l viver nostro insieme, Che a noi, voler del ciel, di più fiorire Come queste faran, manca la speme, Certi non d'altro mai, che di morire O d'alto sangue nati, o di vil seme; Né quanto può donar felice sorte Farà verso di noi pietosa morte. Anzi questa crudele ha per usanza I più famosi e trionfanti regi,

Allor ch'anno di viver più speranza,
Privar di vita e degli ornati fregi;
Ne lor giova la regia alta possanza,
Ne gli avuti trofei, nè i fatti egregi,
Che tutti uguali in suo poter n' andiamo,
Ne poi di più tornar speranza abbiamo.

E pur con tutto ciò miseri e stolti,
Del nostro ben nemici e di noi stessi,
In questo grave error fermi e sepolti [si;
Cerchiamo il nostro male e i danni espres-
E con molte fatiche e affanni molti
Rari avendo piaceri e i dolor spessi,
Procacciamo di far nojosa e greve
La vita, che pur troppo è inferma e breve.
Questi per aver fama in ogni parte,
Nella sua più fiorita e verde etade,
Seguendo il periglioso e fiero Marte,
Or fra mille saette e mille spade
Animoso si caccia; e con quest' arte,
Mentre spera di farsi alle contrade
Più remote da noi alto immortale,
Casca assai più che un fragil vetro frale.

Quell' altro ingordo d' acquistar tesori Si commette al poter del mare infido, E di paura pieno e di dolori Trapassa or questo ed or quell' altro lido, E spesso dell' irate onde i romori Lo fan mercè chiamar con alto grido: E, quando ha d'arricchir più certa speme, La vita perde e la speranza insieme.

Altri nelle gran corti consumando
Il più bel fior de' suoi giovenili anni,
Mentre ch' utile e onor vanno cercando,
Odio trovano, invidia, oltraggio e danni,
Mercè d'ingrati principi che in bando
Post' hanno ogni virtute, e sol d' inganni
E di brutt' avarizia han pieno il core,
Pubblico danno al mondo e disonore.

Altri poi vaghi sol d'esser pregiati
E di tener fra tutti il primo loco,
E per vestirsi d'oro e andar ornati
Delle più care gemme, a poco a poco
Tiranni della patria, odiosi e ingrati
Si fanno ora col ferro, ora col foco :
Ma alfin di vita indegni e di memoria
Son morti, e col morir more la gloria.

Quanti son poi che divenuti amanti
Di duo begli occhi e d' un leggiadro viso
Si pascon sol di dolorosi pianti,

Da sè stessi tenendo il cor diviso !
Ne gioja, nè piacer sono bastanti
Trar lor del petto se non finto riso;
E se lieti talor si mostran fuori
Hanno per un piacer mille dolori.

Chi vive senza mai sentir riposo Lontano dalla dolce amata vista : Chi a sé stesso divien grave e nojoso Sol per un guardo o una parola trista : Chi da un novo rival fatto geloso Quasi a par del morir si dole e attrista, Chi si consuma in altre varie pene Più spesse assai delle minute arene.

E così, senza mai stringere il freno
Con la ragione a questi van desiri,
Dietro al senso correndo il viver pieno
Facciamo d'infiniti empi martiri,
Che tranquillo saria puro e sereno,
Se senza passion, senza sospiri
Lieti godendo quel che 'l ciel n' ha dato
Si vivesse in modesto ed umil stato.

Come nella felice antiqua etate,
Quando di bianco latte e verdi ghiande
Si pascevan quell' anime ben nate,
Contente sol di povere vivande,
E non s'udiva tra le genti armate
Delle sonore trombe il romor grande,
Nè per far i ciclopi l'arme ignudi
Battendo risonar facean l'incudi.

Ne gli porgeva la speranza ardire
Di poter acquistar fama ed onore;
Nè di perderli poi grave martire
Con dubbiosi pensier dava il timore;
Ne per mutarsi i regni o per desire
Di soggiogare altrui gioja o dolore
Sentivano giammai, sciolti da queste
Umane passion gravi e moleste.

Ma senz' altro pensier stavan contenti
Con l'aratro a voltar la dura terra,
Ed a mirare i suoi più cari armenti
Pascendo insieme far piacevol guerra;
Or con allegri e boscherecci accenti
Scacciavano il dolor, che spesso atterra
Chi'n se l'accoglie, fra l' erbette e i fiori
Cantando or colle ninfe or co' pastori.

E spesso a pie d'un olmo ovver d'un pino Era una meta o termine appoggiato, E chi col dardo al segno più vicino Veloce andava, era di fronde ornato: A Cerer poi le spiche, a Bacco il vino Offerivan devoti, e in tale stato Passando i giorni suoi, serena e chiara Questa vita facean misera e amara.

Quest' è la vita che cotanto piacque Al gran padre Saturno, e che seguita Fu da' posteri suoi mentre che giacque Nelle lor menti l'ambizion sopita. Ma come poi questa ria peste nacque, Nacque l'invidia con lei sempre unita,

E misero divenne a un tratto il mondo,
Prima cosi felice e si giocondo.

Perchè più dolce assai era fra l'erba Sotto l'ombre dormir queto e securo, Che nei dorati letti e di superba Porpora ornati ; e forse più ogni oscuro Pensier discaccia ed ogni doglia acerba Udir col cor tranquillo, allegro e puro Nell' apparir del sol mugghiar gli armenti, Che l'armonia de' più soavi accenti.

Beato dunque, se beato lice Chiamar mentre che vive uomo mortale, E, se vivendo si può dir felice, Parmi esser quel che vive in vita tale; Ma chi esser poi disia qual la fenice, E cerca di mortal farsi immortale, Ami quella che l'uomo eterno serba Dolce nel fine e nel principio acerba.

La virtù dico, che volando al cielo Cinto di bella e inestinguibil luce, Sebben vestito è del corporeo velo, Con le forti ale sue porta e conduce Chi l'ama e segue, ne di morte il telo Teme giammai; che questo invitto duce Sprezzando il tempo e suo' infiniti danti Fa viver tal ch'è morto già mille anni.

Di cosi bel desio l'anima accende Questa felice e gloriosa scorta, Che alle cose celesti spesso ascende E l'intelletto nostro seco porta; Talche del cielo e di natura intende Gli alti secreti, onde poi fatta accorta Quant' ogn' altro piacer men bello sia, Sol segue quella, e tutti gli altri obblia.

Quanti principi grandi amati e cari Insieme con la vita han perso il nome, Quanti poi vivon gloriosi e chiari, Poveri nati, sol perché le chiome Di sacri lauri, alteri doni e rari S' adornaro felici, ed ora come Chiare stelle fra noi splendon beati, Mentre il mondo sarà, sempre onorati. Molti esempi potrei venir contando De' quali piene son tutte le carte, Che il ciel produtti ha in ogni tempe. ornando

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Non sempre avaro or questa or quella par Ma, quanti ne fur mai dietro lasciando, E quanti oggi ne son posti da parte, Un ne dirò che tal fra gli altri luce Qual tra ogn' altro splendor del sol la lace.

Dico di voi (1), o dell' altera pianta (1) Cosimo 1, gran duca di Toscana, al quale mandò la poetessa queste stanze.

Felice ramo del ben nato Lauro (1),
In cui mirando sol si vede quanta
Virtù risplende dal mar indo al mauro :
E sotto l'ombra gloriosa e santa
Non s'impara apprezzar le gemme o l'auro,
Ma le grandezze ornar con la virtute,
Cosa da far tutte le lingue mute.

Dietro all' orme di voi dunque venendo,
Ogni basso pensier posto in obblio,
Seguirò la virtù, sempre credendo
Esser se non quest' un dolce disio
Fallace ogn' altro; e così, non temendo
O nemica fortuna o destin rio,

Starò con questa, ogn'altro ben lasciando, L'anima e lei, mentre ch'io viva, amando.

SONETTO.

Nella secreta e più profonda parte Del cor, là dove in schiera armata stanno I pensieri e i desiri, e guerra fanno Si rea, che la ragion spesso si parte,

L'uomo interno ragiona, ed usa ogni arPer rivocarla e farle noto il danno; [te Ma dietro all' altro esterno i sensi vanno, Senz' al spirto di lor punto far parte.

Di carne sono, e però infermi e gravi Capir non ponno i belli alti concetti, Che manda il spirto a chi di spirto vive.

Guida dunque, Signor, pria che s'aggraD' error più l' alma, alle sacrate rive [vi I miei senza il tuo ajuto iniqui affetti.

Ma il timor sol di non andar in parte Troppo lontana a quella ove il bel viso Risplende sopra ogni lucente stella,

Mitigato ha il furor, (che ingegno od arte Far nol potea) sperando in paradiso L'alma vedere oltre le belle bella.

IN MORTE DEL BEMBO.

SONETTO.

Riser gli spirti angelici e celesti, E più luce mostrò ciascuna stella, Quando dal grave incarco, anima bella, Sciolta dinanzi al tuo Fattor giungesti.

E tutta umile, ecco, Signor, dicesti, La tua devota ubbediente ancella Ti rende, al tuo voler non mai rubella, Doppj i talenti tuoi, che già le desti.

Ed ei rispose: O mia fedele e cara, Entra a godere il mio beato regno, Anzi che il mondo fosse, a te promesso.

Tal ebbe fin la gloriosa e chiara Tua vita, o Bembo, e sì com' eri degno Ti fu pregio immortal là su concesso.

mminn

GASPARA STAMPA,

DA PADOVA.

(1548.)

DUOLSI DELLA MORTE

DI SUO MARITO.

SONETTO.

Quel nodo in cui la mia beata sorte, Per ordine del ciel, legommi e strinse, Con mio grave dolor sciolse e discinse Quella crudel che il mondo chiama morte.

E fu l' affanno si gravoso e forte, Che i miei piacer tutti in un punto estinse, E se non che ragione alfin pur vinse, Fatte avrei mie giornate assai più corte;

(1) Lorenzo de' Medici, padre delle Muse, avolo di Cosimo.

SONETTO.

POMMI ove il mar irato geme e frange, Ov' ha l'acqua più queta e più tranquilla; Pommi ove il sol più arde e più sfavilla, O dove il ghiaccio altrui trafigge ed ange.

Pommi al Tanai gelato, al freddo Gange, Ove dolce rugiada e manna stilla, Ove per l'aria empio velen scintilla, O dove per amor si ride e piange:

Pommi ove il crudo Scita ed empio fere, O dove è queta gente e riposata, O dove tosto o tardi uom vive e pere:

Vivrò qual vissi, e sarò qual son stata; Pur che le fide mie due luci vere Non rivolgan da me la luce usata.

SONETTO.

Ch' il crederia ? felice era il mio stato, Quando a vicenda or doglia ed or diletto, Or tema, or speme m' ingombrava'l petto, E m' era il cielo or chiaro ed or turbato.

Perchè questo d' amor fiorito prato Non è, a mio giudicio, appien perfetto, Se non è misto di contrario effetto Quando la noja fa il piacer più grato.

Ma or l' ha pieno sì di spine, e sterpi Chi lo può fare, e svelti i fiori e l'erba, Che sol v' albergan velenosi serpi.

O se cangiata, o mia fortuna acerba, Tu le speranze mie recidi e sterpi; La cagion dentro al petto mio si serba.

RITRATTO DI COLLATINO,

CONTE DI COLLALTO.

SONETTO.

Un intelletto angelico e divino,
Una real natura, ed un valore,
Un desio vago di fama e d' onore,
Un parlar saggio, grave e pellegrino.
Un sangue illustre ad alti re vicino,
Una fortuna a poche altre minore,
Un' età nel suo proprio e vero fiore,
Un atto onesto, mansueto e chino:

Un riso più che 'l sol lucente e chiaro,
Ove bellezza e grazia Amor rinserra
In non mai più vedute o udite tempre.

Fur le catene che già mi legaro, E mi fan dolce ed onorata guerra, Oh! pur piaccia ad Amor che stringan

sempre.

CHE COSA SIA AMORE.

TERZINE.

Donne, voi che fin qui libere e sciolte Degli amorosi lacci vi trovate, Onde son io, e son tant' altre avvolte,

Se di saper, che cosa sia bramate Questo Amor, che signore ha fatto e dio Non pur la nostra, ma l'antica etate:

È un affetto ardente, un van desio D' ombre fallaci, un volontario inganno, Un por sè stesso, e il suo bene in obblio.

Un cercar suo malgrado con affanno Quel che mai non si trova, o se purviene, Avuto arreca penitenza e danno.

Un nutrir la sua vita sol di pene, Un aver sempre mai pensieri e voglie Di fredda gelosia, di dubbi piene.

Un laccio che s'allaccia, e non siscioglie Quando altrui piace, un gir spargendo

seme

Di cui buon frutto mai non si raccoglie.

Una cura mordace che il cor preme, Un la sua libertate, e la sua gioja, E la sua pace andar perdendo insieme.

Un morir, nè sentir perche si moja, Un arder dentro d' un vivace ardore, Un esser mesta e non sentir la noja.

Un mostrar quel ch' uom chiude dentro

e fuore,

Un esser sempre pallido e tremante, Un errar sempre, e non veder l'errore

Un avvilirsi al viso amato innante, Un esser fuor di lui franca ed ardita, Un non saper tener ferme le piante.

Un aver spesso in odio la sua vita, Ed amar più l' altrui, un esser spesso Or mesta e fosca, or lieta e colorita.

Un ogni studio in non cale aver messo Un fuggir il commercio delle genti, Un esser da sè lunge, ed altrui presso.

Un far seco ragioni, ed argomenti, E disegni, ed immagini che poi Tutte qual polve via portano i venti.

Un non dormire appieno i sonni suoi, Un destarsi sdegnosa, ed un sognarsi Sempre cosa contraria a quel che vuoi.

Un aver doglia, e non voler lagnarsi Di chi n' offende, anzi rivolger l'ira Contra sé stesso e sol seco sdegnarsi.

Un veder solo un viso ove si mira; Un in esso affissarsi, benchè lunge; Un gioir l'alma, quando si sospira;

E finalmente un mal che unge e punge.

EPIGRAMMA.

L'empio tuo strale, Amore,
È più crudo e più forte
Assai, che quel di morte :

Che per morte una volta sol si more,
E tu col tuo colpire

Uccidi mille, e non si può morire :
Dunque, Amore, è men male
La morte che il tuo strale.

EPIGRAMMA.

Se il cibo, onde i suoi servi nudre Amore È il dolore e il martire,

Come poss' io morire

Nodrita dal dolore?

Il semplicetto pesce,

Che solo nell' umor vive e respira,
In un momento spira

Tosto che dell'acqua esce:

E l'animal che vive in fiamma e in foco Muor, come cangia loco.

Or, se tu vuoi, ch'io moja,

Amor, trammi di guai e pommi in gioja,
Perchè col pianto mio, cibo vitale,
Tu non mi puoi far male.

A DIO.

SONETTO.

Mesta e pentita de' miei gravi errori, E del mio vaneggiar tanto e si lieve, E d'aver speso questo tempo breve De la vita fugace in vani amori,

A te, Signor, che intenerisci i cori, E rendi calda la gelata neve, E fai soave un aspro peso e greve A chiunque accendi de' tuoi santi ardori,

Ricorro, e prego che mi porga mano A trarmi fuor del pelago, onde uscire, S'io tentassi da me, sarebbe vano.

Tu volesti per noi, Signor, morire, Tu ricomprasti tutto il seme umano ; Dolce Signor, non mi lasciar perire!

Sappi che per più grave e acerbo

affanno

La mia madre crudele e i rei parenti [no. Ordiscono al ben nostro un doppio ingan

Mi cercano condur fra strane genti, Da te lontan; però, se mai mi amasti, Non far che i miei martir restin scontenti.

E se ardir e valor già mai mostrasti, Or il dimostra, che ne fa mestieri, Che a te serbo mia vita e i pensier casti.

In altri fuor di te non è ch'io speri, Però m' ajuta e non lasciar ch'io vada Là dove eternamente io mi disperi.

Fa che ben punga e tagli la tua spada, Che pur ch' io teco sia, mi sarà lieve Ogni insolito mal che ad altri accada. Più non ti scrivo, perchè il tempo è breve

E la debil mia man più non si muove,
Ne lo consente il dolor aspro e greve.

S'io non ti veggio, per le prime nuove Aspetta udir di me strage empia e cruda; Che forza alfin sarà ch'il ferro io prove.

E s'io resto di spirto e d'alma ignuda, Fa che ti dolga almen della mia sorte, E che tarda pietà nel cor tu chiuda.

E per mercè dell' esser giunta a morte, Sopra dell' urna mia fa almen, ti prego, Da tutti sian queste parole scorte :

Qui amando corse quella, a cui fe riego Sorte ed amor del desiato amante, [go. Ch' udir di lei non volle unqua alcun pre

E per esser fedel troppo e costante Giunse anzi tempo a fin si miseranda, Però in amor non fia chi più si vante.

Questo solo voglio di me si spanda : Del resto, se a te par, di me ti doglia; Così con pianto a te si raccomanda

Colei che ha di morir sol sete e voglia.

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