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Quivi con le sorelle canterai I miei pensieri per letizia folli, Perchè i desiri miei fatti ha satolli Quest' aristarco, e me tratta di guai.

Ed al gran Castelvetro in atto umíle Dirai Se 'l ciel mi dà tanto valore Degno di voi, ed al gran merto eguale, Che posto avrai mai sempre e linguae

stile

In celebrar questo chiaro splendore, Onde mi farai forse anco immortale.

LEONORA FALLETTI,

DA SAVONA.

(1559.)

SONETTO.

PARI non ebbe mai fede alla mia
La Greca che vent' anni Ulisse attese;
Ne a più bel fin, nè più lodato intese
La chiara Evadne, o la fedele Argia.

Quant'io che dove avvien che tu non sia,
Parmi non solo aver l' ore mal spese,
Ma che mi sian tutte l'insidie tese,
E ch' io provi ogni stella ingrata e ria;

Torna sposo fedel, torna mia vita, Che se non vieni a me, vedrai tu quello Che forse non pensaro i due vivendo.

Morrò prima di te, ch 'a tal m'invita Il tuo cor verso me troppo rubello, Ch'ognor bramosa un simil fine attendo.

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Darvi umilmente nelle mani il freno,
Che al piacer vostro, come vento foglia,
La volgeste in un punto, in un baleno;
Ma trassi ancor me stessa dalla soglia
Della memoria, e a voi la posi in seno;
V' ebbi voi sempre, e me posi in obblio,
E con me insieme ancor uomini e Dio.

Cosi conversa in voi, mio lume, intanto,
E fattovi di me tempio ed altare,
Preso di riverenza il sacro manto,
Onde fosser mic preci a voi più care,
V' offersi umile i sensi, e l'alma, e quanto
Per me mai si potesse o dire o fare.
Non arrivai (ben sollo) al vostro merto;
Più non potetti: io ben di ciò v'accerto.

Tutti i tormenti allor, tutte le pene Mi furo a sopportar lieti e soavi; Che essendo cara a voi, dolce mio bene, Che tenevate del mio cuor le chiavi, Con dolce rimembrar, con bella speme, Mitigava i pensier nojosi e gravi; I pensier che di tenebre e d'orrore Empion sovente il bel regno d' Amore. Ma or che voler vostro, o mia fortuna, Privata a torto m'ha d'ogni contento, E che le mie preghiere ad una ad una, Quante ne porgo, se le porta il vento, Non vive alcun mortal sotto la luna Che senta al par di me doglia e tormento; Al par di me la cui perdita eccede [de. Ogn'altra di gran lunga, e ogn'uom sel veViappiù che neve ho sempre il cuor gelaChe perde al tutto il natural calore, [to, Quando da voi sentissi abbandonato, E del duol fatto preda, e del timore: Perchè ogni spirto allor si tristo stato Avendo oltre misura in grave orrore Dietro a voi, vita sua, mosse le piante, Ond' io, lassa, restai fredda e tremante. L'anima ancor non ben certa e sicura Di poter senza voi viver un giorno, Per far men grave la sua pena dura, Segui de' bei vostr' occhi il lume adorno : Quinci nascostamente or questo fura, Ed or quel guardo, mentre a lor d' intorno Errando vanne desiosa e intenta, Ne par che del mio male affanno senta.

Poco dappoi fuggissi anco la speme Che molle fe' parermi ogni durezza: Fuggi ella non sol, ma seco insieme Ogni gioja, ogni pace, ogni dolcezza: Che senza lei sempre sospira e geme Un' alma innamorata, e nulla apprezza: Di nulla cura, e sol la morte chiama,

Cosi sperando di venir men grama. [to,

Credo che anch'io me stessa avrei tradiE venutane allor cogli altri in schiera, Se non fosse il desio stato impedito Dal non esser con essi si leggera. Non potei dunque, e sentone infinito Dolor, che se ben grata a voi non era, Avrebbe almen scemato il mio martire L'esservi appresso e innanzi a voi morire.

Cosi senz'alma e senza spirti, fuore D'ogni speranza e d'ogni bene io vivo; Che vivo dissi? anzi pur no, che il core Al partir vostro fu di vita privo; E se ben serbo il natural calore, E giorno e notte penso, e piango, escrive, È miracol d'amor, che spesso in vita Tiene un benchè sia l' anima partita.

In tal maniera i giorni vo menando, Pensosa sempre e pallida in aspetto, Pallida pel vigor che consumando

Si viene a poco a poco dentro il petto.
Sospiro e gemo, e posto al tutto ho in ban-
Ogni riso, ogni canto, ogni diletto; (do
E ciò che veggo o sento mi dispiace,
E sol nel lagrimar ho qualche pace.

Nè però accuso voi, occhi lucenti,
Che non mio merto, ma bontà natia
Vi fece già ver me pietosi e intenti,
Quando il vostro splendor ferimmi pria.
Onde, se avete or quegli affetti spenti,
Nè più vi cal dell' alta piaga mia,
Or dee più che vi piaccia il vostro dona
Legarvi? Tenuta io di quel vi sone.

Tenuta sonvi, e mentre adorno il cielo Andrà di luminose e vaghe stelle, E squarciando il notturno umido velo Scoprirà il sole or queste parti or quelle: Mentre sia caldo il fuoco, e freddo il gelə, E d'amor nido l' alme pure e belle, Terrò di ciò memoria in sempiterno E sarò vostra ancor giù nell'inferno.

L. ALBANI AVOGADRO,

DA BERGAMO.

(1560.)

IN MORTE D'IRENE DI SPILIMBERGO.

SONETTO.

QUELLA che contemplando al ciel solea Poggiar si spesso con la mente altera, Onde a noi col pennel mostro quant' era Di perfetta beltà nella sua idea;

E col cantar, pura celeste dea

Sembrando, facea fede della vera Angelica armonia, che 'n l'altra spera Si cria, membrando il bel che l'alme bea:

Poscia che le dolcezze ebbe gustato Ben mille volte dell' eterno Amante, Quanto più gustar puote alma ben nata, Disse sdegnando: A che più la beata Sede lascio per gir nel mondo errante? Cosi fermossi in quel felice stato.

OLIMPIA MALIPIERO,

DA VENEZIA.

(1560.)

SONETTO.

SE ratta da noi fugge ogni bellezza, E passa ogni piacere, ogni contento, E se qual balenar in un momento Nasce e sparisce quanto qui s' apprezza,

Se nostra verde etade alla vecchiezza Giugne in un punto, e come polve al vento Volano i giorni e gli anni, onde tormento Sol resta all' alma che 'l ben far disprezza,

Che fia di noi, se coll' orribil vista Morte grave dolor de' mal spesi anni Sveglierà al fin, che talor poco giova? Leva dunque, intelletto, e ai nostri danni

Provvediam, mentre ancor pietà si trova, Che il ciel per vanità mai non s' acquista.

IL DI DELLE CENERI.

SONETTO.

Del sommo eterno Re la fida sposa, Deposta ogni letizia, e canti, e feste, Umile oggi si mostra in brune veste, E ver noi dice con voce pietosa :

Mirate, figli miei, come ogni cosa Passa, quasi ombra, e più non si riveste, Abbiate al ciel le voglie attente e preste, Ove ogni vero ben ferma e riposa.

Ne v'inganni mortal gloria caduca, Non regni, non tesor, pompa o bellezza, O finti, brevi, fuggitivi onori.

A levarvi da terra omai v' induca, Che in questa si risolve ogni grandezza, Ch'io segno in fronte, e voi segnate i cori.

LAURA BATTIFERRO DEGLI AMMANNATI,

DA URBINO.

(1560.)

SONETTO.

COME padre pietoso che l'amato Figlio vagando d'uno in altro errore Gir vede pur del cammin dritto fuore Ch' ei lungo tempo già gli abbia segnato,

Ch'or con volto benigno, or con turbato, Or lo minaccia, or prega a tutte l'ore, Per ritornarlo al più vero e migliore Sentier nel primo suo felice stato ;

Cosi Tu vero, e più d'ogn' altro pio, Supremo Padre, me tua figlia errante, Che a tua viva sembianza in ciel creasti,

Perché quest'alma torni ond'ella uscio, Con dolci ed amarissimi contrasti Tenti ridurla alle tue leggi sante.

SONETTO.

Come chi da mortal, certo periglio Si vede oppresso, sbigottito e smorto, In tempestoso mar, lungi dal porto, Alza divoto a Dio la mente e ciglio,

E se ridotto mai dal grave esiglio [to) L'ha il ciel (poichè non fu dall'onde assorAl caro albergo, più che prima accorto, Cerca del viver suo novo consiglio;

Si nel fallace mar del mondo infido, Fra l'onde incerte di pensier non saggi, Da Dio lontana e con la morte appresso

Mi trovo, ahi lassa, e giorno e notte griSignor deh! drizza i miei torti viaggi, [do : Ma il lito ancor veder non m' è concesso.

AD ANNIBAL CARO.

SONETTO.

Caro, se il basso stile e 'l gran desio Fosser conformi, e la materia e l'arte, Del vostro nome ornate le mie carte Unqua non temerian di Lete il rio;

Ma veggio ben che'l pigro ingegno mio, A cui si rari doni Apol comparte, Tanto più scende in odiosa parte Quanto più verso il ciel l' ergo ed invio.

E di Fetonte audace il caso strano E d' Icaro sovvienmi, ond' ardo e tremo Sentendo al mio valor tarpate l'ale;

Pur, voi seguendo, e forse non invano, Salgo ov' io spero, oltr' al mio giorno

estremo

Viver per voi, per voi farmi immortale.

ALLA LUNA.

SONETTO.

Santa luce immortal che il primo cielo Movi, e ristoro al mondo e vita spiri, A te rivolgo i miei gravi sospiri, E scopro l'alta doglia che mal celo.

Or che i costumi ho varïati e il pelo, Mercè dell' aspre cure e dei martiri Che il tempo apporta, accogli i miei desiri Alla dolce ombra del tuo casto velo.

Ti priego, o dea, per le tue bianche

corna

E per colui che il suo splendor ti dona Che a me cara ti mostri alma sorella.

Cosi Clori, di gigli ampia corona Tessendo, a Cintia disse: or te ne adorna Sicché invidia te n'abbia ogn' altra stella.

OTTAVE.

Quando dagli alti monti umida e bruna, Da noi partendo il sol, l'ombra discende, E che l'umane cure ad una ad una Sgombra chi i petti altrui tranquilli rende, Di nojosi pensier morte e fortuna M'empie, e riposo al cor lasso contende, Onde dentro col cor per gli occhi fuore Piangendo spendo le mie notti e l'ore.

Nel tempo poi che l' alte stelle erranti Sparir fa il sol che in Oriente appare Cinto il crin d'or de' suoi bei raggi santi, Sicchè la terra si rallegra e il mare, E gli augei per le frondi alte e tremanti S'odon dolce garrir, dolce cantare, Sola al mondo son' io che piango allora, Che mie tenebre mai non sgombra aurora.

Che mi val, lassa, se l' aurate corna Scalda del Tauro il gran pianeta ardente,

E quinci e quindi di bel verde adorna
Fa la terra fiorir, gioir la gente,
E la schiera pennuta, quando aggiorna,
Dolci note d'amor cantar sovente,
Se la mia speme morta unqua non sorge,
Nè la nova stagion gioja mi porge?

S'io miro, oime! di fior, di frutti piene
Di copia il corno aver le fide amiche,
Cerere e Flora, l' una carca il seno
Di rose e l'altra di mature spiche,
E il villanel che dal colto terreno
Riporta il premio delle sue fatiche,
Dico cogli occhi molli : or danno e lutto
Dunque del mio ben far sempre fia il frutto?

E perchè nel parlar mi sfogo alquanto, Veggo Febo da noi farsi lontano, E le frondi cangiar colori e intanto Farsi del cader lor più carco il piano; Misera, ch'or più allargo il freno al pianto; Al pianto che mai sempre spargo, e invaChe del seme di mia speme non coglio [no, Altro frutto che lagrime e cordoglio.

Quando si veggon le campagne intorne, In vece d'erba e di fior bianchi e gialli, Sparse di brina, e tempestoso il giorno Girsene e breve, e che nell' ime valli La neve e il ghiaccio fa lungo soggiorno, E s'indurano i liquidi cristalli, Sento in me fare un freddo, umido verno, Nebbia di duol, pioggia di pianto eterno,

SALMO.

Ricordati, Signor, di quel che a noi Miseri avvenne e guarda e vedi 'l grave Obbrobrio nostro coi santi occhi tuoi. La nostra eredità cara e soave È rivoltata a gente strana, ed hanno Di casa nostra i forestier la chiave.

Pupilli tutti siam con pianto e danny Privi de' nostri genitori, e attorno Quai vedov' erbe le pie madri vanno. r

L'acqua stessa del nostro almo soggior Con la pecunia abbiam bevuto, quando Le legne nostre si vendean per scorns. Sopra de' colli nostri il miserando E duro giogo abbiam, lasse, portato, D'ogni riposo e d'ogni pace in bando.

All' Egitto, all' Assirio abbiam portate, Per aver pan da saziarci, onde privi Eravam, la man nostra e aita dato.

I nostri padri hanno peccato, e vivi Non sono, e noi delle iniquità loro

Portiam le pene, al mondo odiosi e schivi.
Signoreggiati n' han quei che già foro
Nostri soggetti, e non fu chi porgesse
La mano a trarci da si gran martoro.

Con periglio di vita andammo spesse. Volte per lo coltello del deserto, Portando il pan che Dio già ne concesse.

Or se fame e se sete abbiam sofferto, Dicanlo pur per noi le nostre oscure Carni, che sembran nero forno e aperto.

Stanno afflitte le donne mal sicure In Sionne e le vergini di Giuda Provarono le strane e rie venture.

I principi da man di pietà nuda Fur sospesi nel legno, e a vecchi stanchi Non diero onor, qual gente alpestra e cruda.

Quei che la fresca età rendea più franchi In cattiv' uso furo oprati, e quelli In cui saldo giudicio par che manchi.

Semplicetti fanciulli e tenerelli Inciamparon nel legno e tosto allora Cessaro i canti giovanili e belli.

Ei vecchi della porta usciro fuora : Del cor nostro mancata è l'allegrezza, E il bello in pianto volto ognor n'accora. La corona real ch' alta bellezza Porgeva al capo nostro oggi è per terra, E noi caduti in infima bassezza.

Miseri noi che solo affanno e guerra Procacciato ne abbiam peccando tanto Che grave angoscia e duol ne preme e

atterra.

E però gli occhi nostri, usati al pianto, Sono a perpetue tenebre dannati, E perchè desolato è il monte santo

Di Sion, hanno i fraudolenti agguati Posto le volpi in quello, e tu, Signore, Nel secol rimarrai fra più lodati.

Il raggio tuo d'infinito valore Sarà di giorno in giorno, ognor più chiaro Perchè ti scorderai del nostro amore? [ro

Dunque per lunghi giorni in pianto amaNe lascierai? Deh! a te, Signor clemente, Fa che conversi siamo, e ne fia caro

Di convertirci e a te venir sovente; Rinnova i giorni nostri amari e rei, Siccome dal principio dolcemente.

Ma tu provando quattro volte e sei N'andasti, e sempre a noi crebbe malizia; Talche con gran ragione irato sei,

Signor, contro la nostra empia nequizia.

VIRGINIA SALVI,

DA SIENA.

(1561.)

CANZONE.

DOLCI sdegni e dolc' ire, Soavi tregue e paci,

Che dolce fate ogni aspro e rio martire:
O d' Amor liete faci,

Che ad ambo il petto ardete
Con così grato foco,

Che m'è caro il penar, la morte gioco.
Frutto raro, che miete

Un breve sdegno: o più d' altro beato,
Se mai fin non avesse un tale stato!
Se in sogno ciò sentire,
Dolce cor mio, mi fate,
E moro senza mai di vita uscire;
Ditemi, se in' amate,
Qual pena esser potria,
Che fuor del sonno poi

Agguagliar si potesse a questa mia?
Deh! non vi piaccia,dacchè io moro in voi,
Darmi la morte, e ne' bei vostri lumi
Dolcemente lasciar ch' io mi consumi.

CANZONE.

Mentre che'l mio pensier da' santi lumi Prendea fido riposo,

Ben non vidio ch'al mio ben fosse uguale.
Or che'l ciel vuol che'n pianto io mi consu-
E a forza tenga ascoso
[mi,

Il troppo acerbo e doloroso male,
Piacciavi darmi l'ale

Cosi veloci a ritrovarvi, poi
Che sempre vivo in voi,

E ne piglio cotanta e tal dolcezza, [za.
Che'l mio cor, lasso! ogn'altra vista sprez-
M'è a noja ove ch'io miro, se sembianza
Di voi, ben mio, non veggio;
E se di chiari spirti ho sempre intorno
Vago drappel, l' acerba lontananza
Fa che col duol vaneggio,

Ne gioja nè piacer fa in me soggiorno,
Tal ch'a voi sempre torno,
Ch'ivi è la mia ricchezza e 'l mio tesoro,
Ivi le gemme e l'oro

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