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Son, che cotanto l'alma onora e prezza; Che 'l mio cor, lasso! ogn' altra vista sprezza.

Muovo talor le piante ove 'l bel piede Premendo se ne gía

Le tenerelle erbette e' vaghi fiori,
Per veder se orma almen di quel si vede.
Ma l'alta speme mia

Nulla ritrova fuor che i suoi dolori;

E se ninfe o pastori

Veggio, domando pur, se del sol mio
San nulla; mentre un rio

Fan gli occhi mesti : e sono a tale avvezza
Che'l mio cor, lasso! ogn'altra vista sprez-
Ma che sper' io trovar in altri mai [za.
Di voi sembianza vera,

Se l'alma bella e 'l valoroso velo
Fè senza eguale il ciel per più miei guai?
Che dunque il cor più spera [lo,
Temprar, senza voi stesso, il caldo e'l gie-
Che con grave duol celo

Tra finto riso e simulato volto?

E dove ch' io mi volto,

Non potendo veder vostra bellezza,

Il mio cor, lasso! ogn' altra vista sprezza. Se pur alto desio d' eterno onore

Di più lodate imprese

Vi face star da me, cor mio, lontano,
Benchè mi doglio, pur sento il valore
Vostro con l'ale stesse

[no.

Girsen poggiando ognor per monte e piaVeggio la bella mano

Far con la spada al reo nemico danno,
E con tema ed affanno

Farlo cattivo, onde sua forza spezza
Il mio cor, lasso! e ogn'altra vista sprezza.
Canzon mia, passa i monti,

E ratta vanne al chiaro mio bel sole,
E di' queste parole:

Cinzia vive a te lungi in tant' asprezza [za.
Che 'l suo cor, lasso ! ogn'altra vista sprez-

DIANORA SANSEVERINO,

DA CREMA.

(1562.)

SONETTO.

NE il ciel sereno mai girando intorno Stella si vaga e di bei raggi ardente Mostronne, e Cinzia mai così lucente, Quando congiunto ha l'un coll'altro corno.

Nè mai si lieto avventuroso giorno Dalle beate contrade d' Oriente N'aperse il sol, poichè d' umana gente Questo globo terren far vide adorno;

Come spuntando a noi questa divina Luce d' Irene, che col dolce canto Dolce partia dal corpo a ciascun l'alma

Ma che? tal gioja in tristo amaro pianto Cangiato ha morte, e di sì chiara ed alma Luce anzi tempo ha fatto empia rapina.

mmmm

F. MALASPINA SODERINI,

DA FIRENZE.

(1562.)

ALL' AMICA LONTANA.

FEBO nell' Ocean tuffato avendo Il biondo crine e i bei raggi lucenti, Mesta sen giva, lacrimando e ardende, Filli lungo 'l chiar Arno in foschi accenti. E gli umid' occhi al vago ciel vogliendo; Or che taccion, dicea, tutti i viventi Dal basso cerchio tuo, Cinzia serena, Degnati d'ascoltar l'alta mia pena.

Mentre che intorno le più ardenti stelle T'inchinan riverenti e fan corona, E che per te quest' onde chiare e belle Splendon più che pel sol fra l'alba e nona; E se per Endimion vive fiammelle T'arsero il cor, siccome si ragiona, Pietosa ferma il luminoso viso Finchè in te gli occhi lamentando affiso.

Or che in te queste luci oscure e meste Volgo, o del ciel maggior lampa notturna, E ch'io più spargo lagrime per queste Rive, che d' Arno onde non versa l' urna, Deh! fa che il mio lamento impresso reste Nella tua fronte lucida ed eburna,

Sicchè la donna, onor del mar Tirreno, Scorga lontan da lei qual foco ho in sene.

Mostra nel volto tuo, candida luna, Al mio bel sol che, poichè il suo splendore A questi occhi contese empia fortuna, Altro non scorser mai ch'ombra ed orrore, E che, dacche il di nasce a ch'ei s'imbruna, Sempre ov' ella il piè volga io volgo il core: Il cor che sol con lei da lei disgiunto Non fu per altro cor trafitto e punto.

Ma com'è ch'ogni accento, ogni parols, Più della lingua il cor pronunzia, e dice,

S' ei meco non alberga, e s' ella sola L' ha servo, e tiensi libero e felice? Miracolo è d'Amor che da lui invola [ce; Quel ch' ei dir brama e in me per me il ridiCosi dimostra a chi mi ascolta e mira Com' ei fa che senz' alma un'alma spira. Così pare ad Amor, ch' io viva assente Dalla mia vita (ahi dura lontananza!) Senz' alma e senza cor? Martir possente, Che quando altri ha più di morir speranza, Quando mie luci esser dovriano spente, Da viver troppo e da penar gli avanza : Questa ben dir si dee dogliosa vita, Viver sempre in dolor senza aver vita. Ma sia che può, quel che ad Amor più aggrada, [go; Segua, ch' io 'l soffro umile e me ne appaE s'ei vuol che senza cor io pera e cada, Viviamo in guai, facciam degli occhi lago; Purchè per chi convien che lungi vada, Per chi sol l'alma e il cor servire è vago, Che il mio pensier figura ovunque io guardo,

Non geli sciolta or ch'io più legata ardo.

Non possa tanta terra e tanto cielo Che s'interpon fra noi, Virginia bella, Spegner quel che mostrasti ardente zelo, Mentre teco mi strinse amica stella. Io pria che te non ami esser di gelo Vedrassi il foco, e Amor senza quadrella, L'edra dritta e spedita, e torto il pino, E caso uman frenar voler divino.

Crederò io che il suon delle querele Meste che io spargo qui fra morta e viva, Aggiunga al seno illustre e alla fedele Orecchia tua che già grata m'udiva? Deh! si, ch' esser non può desir crudele Dove somma virtù nasce e deriva; Renditi dunque tanto spazio mia, Quanto il ciel fa che da te lungi io stia: Che come a tua beltà farmi vicina Mi si concede, e dir mio duol profondo, Se di rigido cerro in piaggia alpina, O d'elce nata in cupo ombroso fondo Fosti, o di scoglio in seno alla marina, D' impetrar non tem' io viver giocondo Da te, che gli angosciosi miei tormenti Ponno pietose far tigri e serpenti.

Sovvengati del di che le ostinate Mie luci non sapean da te partire, Delle mie guance pallide e bagnate, Di me che volli e non potei morire, Di quelle brevi parolette grate Che pur scemano alquanto il mio martire;

Va, Filli, che restando io vengo teco... O di che sempre alla memoria arreco!

0

Ma deh! perchè si tosto i bianchi rai, Dopo l'alpestre Golfolina ascondi, O sorella del sol, mentre i miei guai Narrando all' ombra vo di queste frondi? Ciò forse avvien per la pietade che hai, Che un petto sol tanto martir circondi, pur, da' lunghi mici lamenti offesa, Sei più veloce oltre quei monti scesa ? Vattene ornata d'argentato arnese Più queta parte e più lieta illustrando; E il tuo drappel d'eterne fiamme accese Teco sen venga, e me qui lasci in bando, Quest' alma lasci, oimè, lassa, che scese Qui sol per gir miseramente amando: Che chi vive com' io senza il suo bene Mal fa se un sol momento è senza pene.

I. BRAMBATTI GRUMELLI,

DA BERGAМО.

(1570.)

CANZONE.

AVEA già sparsi all'aria i bei crin d'oro La vaga Aurora, e con spedito corso In verso il ciel salia l' aurato Apollo, Seguendo nel suo antico alto lavoro, Quando allor che la mente in sè ritorna, Sciolta d'ogni terreno uman discorso, Donna vidio, fuor che il bel viso e il collo, Tutta di vari fior cinta ed adorna, Cui cantando facean lieta corona Ninfe leggiadre e pargoletti amori, Tra quei soavi fiori, Come l'api volando : ogni persona Empia di non usato, alto diletto L'abito vago in mille guise, e schietto. Vaga d'udir.sua condizion qual era Oltra mi trassi, e di veder s' alcuna Riconoscessi della bella schiera, D'amoroso piacer non mai digiuna; Ma poco ancor del suo divin comprese Il mio mortal, cui troppo lume ollese.

Cosi di desir colma e di dolcezza, Volgo dal proprio fin gl' incerti passi, Ove il mio bel piacer mi sprona e inchina. Indi costei, la cui vaga bellezza Or tien l'uman voler cieco ed oppresso, Or lo solleva al ciel da pensier bassi, Dissemi in voce angelica e divina :

Tu che seguendo il ben che è qui da presso,

Onde il mortal affetto ignudo e infermo
Cerchi 'l principio e il fin della mia sorte,
Sotto mie fide scorte

Segui l'erto sentier solingo ed ermo [ria.
Ch' uom scorge al vero fin d' ogni sua glo-
E perchè forse a te sarà gran noja
Il consumar molt' anni, e giorni, ed ore
Dietro a' miei passi, questi sagri vanni,
Che di Dedalo fur, con alto core
Spiega felice, che a si dolci aflanni
Te favor chiama di benigna stella,
Disposta a farti ancor heata e bella.

Come il timido augel che il primo volo
Tenta, dubbioso ancor del proprio peso,
Scossi le nuove piume e il corso presi,
Che dietro al sol tra l'uno e l'altro polo
Tenea questa gentil donna, che sciolse
Vêr me nuovo parlar da pochi inteso.
Prima che il sol girasse e gli anni e imesi,
In ombra oscura, come il Fattor volse,
Ignuda nacqui e di bellezze priva;
Ma desiando il bel raggio divino,
Seguendo il mio destino,
Mi volsi, e la sua luce altiera e diva
Impresse nel mio sen la varia forma,
Che il concavo del ciel dipinge e informa.
Questo è del vero ben la minor parte:
Vedrailo appien, se le vestigie sante
Di quelle, a cui n'andiam, tu segui e l'arte.
Cosi dicendo, i termini d' Atlante
Lasciamo addietro, i novi regni e il Gange,
Scendendo u' l'Ipocren mormora, e
frange.

Poscia che del Monton l'aurata spoglia
Da Colchi riportò il superbo legno,
Tral' Idra e il maggior Can di stelle adorno
L'affisse Giove in cielo. Alla sol voglia
Delle Muse or si muove. Ivi entro allora
Pellegrina m' accolser nel lor regno,
Preste a condurmi al bell' alto soggiorno,
U'l'alma in sè giojendo s'innamora.
Quivi obbliando la primiera scorza,
Poggiamo verso il ciel con lunghi giri,
E alzando i miei desiri,

Cosi del proprio ben la mente accorta
Feron con divin canto e con parole
Le Dive, cui Parnaso onora e cole :
E riguardando dall' ardente giro
Il picciol globo u'il sol si chiude, e serra
Terrena gloria e folle uman desiro,
Il lungo affaticar sdegnai che in terra
Ne afligge, e dove è il sol più freddo e basso

Si mostra, entrammo in ciel con lieto pas-
Mentre che presa d'alta meraviglia [so.
Miro gli eccelsi lumi, e dal suo moto
Raro e divin concento uscir m'accorgo,
A cui nullo mortal canto somiglia,
D'una delle mie nobili compagne
Udii: Qui non s' arresti il tuo devoto
Desio di gir al ben ov' io ti scorgo,
Ma amando il lor Fattor nell' opre magne
Con noi sino al supremo giro aspira.
Così di cerchio in cerchio il ciel salende
Lo spirto mio, perdendo
Giva i terreni affetti, ond' or si adira
Contro l'impeto lor superbo e fiero :
Indi scorrendo l'alto magistero
Del calle obliquo onde cadeo Fetonte
Per l'orribil' aspetto de' suoi mostri,
E donde Apol comparte, o salga, o smonte,
A più lontani ed a' paesi nostri
Eguali i raggi suoi, per tutto sparsi,
Stupida sopra il ciel m' alzai, ed arsi.

Or voi stillate in me, cortesi dive,
L'almo liquor, che già il destriero alato
Trasse dal monte avventuroso e santo;
Acciò dell' alto obbietto che prescrive
Il saper nostro quella parte io canti
Che già compresi, mentre in quello stato
Vidi, vostra mercè, l'eterno manto
Di lui che infonde in voi concetti santi.
Nove cerchi di vive fiamme ardenti
Cingean qual proprio cerchio, qual gran
lume,

Che come fonte o fiume

Senza arrestarsi mai, chiari e lucenti
Rotando i raggi suoi tra' spirti eletti,
Rischiara il lume loro onde perfetti
Scorgon nel proprio fin la bella stampa
Dell'ineffabil Re che solo é eterno:
Al cui possente sguardo, ch'anco avvamp
Nel mio pensiero, ogni vigor interne
Si sciolse, e mi cadei, bramando sempre
Starmi in si care e si felici tempre.

Canzon, che al santo obbietto umasi

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INCERTA.

(1576.)

SONETTO.

PACE che si converte in aspra guerra, Ardor, falso sperar, timor e ghiaccio Dona a' suoi servi Amor, finchè sotterra Li vede estinti e a crudel morte in braccio.

Misero è ben chi in tal prigion si serra, E inavvedutamente è preso al laccio; Che senza suo gran danno non si sferra, Anzi la propria vita gli è d' impaccio.

Or pensando a me stessa io taccio e
grido:

Ma indarno già gridai chiedendo vita,
Quando ogni mio voler posi in altrui :
Che mi lusinghi Amor? di te mi rido,
Poichè malgrado tuo mi trovo in vita,
nè sarò più come già fui.

Nè son,

SONETTO.

« La gola e il sonno e l'ozïose piume » (1) Tanto han dal mondo ogni virtù sbandita, Che nel suo corso timida e smarrita Va l'alma nostra vinta dal costume.

E se non fosse quel benigno lume Del ciel che pur n'informa a vera vita, Come la stessa prova a dir m' invita, Forse indarno s' andrebbe al sacro fiume.

In favole s'adopra il lauro e il mirto,
Mancando va l'alta filosofia,
Cosi la turba a vil guadagno è intesa.

O felice chi lascia ogni altra via,
E volge al suo Fattor l'acceso spirto!
Questa è la vera e necessaria impresa.

SONETTO.

Solo sperando, i suoi fecondi campi Solca l'agricoltore a passi lenti, E gli occhi fermi tien, mirando intenti, Come l'aratro suo la terra stampi :

(1) Imitazione e rime del sonetto del Petrarca che principia come questo.

Cosi del mio bel Sole (1) i chiari lampi Miro, bench' io mi trovi tra le genti, E tanto sono i miei sensi contenti, Che il cor d'un dolce foco par che avvampi.

Onde per tal diletto e monti, e piaggie, E fiumi, e selve, e le più chiare tempre Seguir mi piace e quanto sprezza altrui.

E quelle vie stimate aspre e selvaggie, Soavi e piane mi si mostran sempre, Che il mio lume stia meco ed io con Lui.

LUCREZIA MARCELLO,

DA VENEZIA.

(1578.)

CANZONE.

ERA tranquillo il mare e l' aere chiaro,
E Zefiro spirava e, di viole
Carca più che non suole,

Sorgea l' Aurora, e frutti e frondi e fiori
Produceva la terra, ed era il sole
Nel suo cammino del Leone a paro,
Ne fea nube riparo

Al volto suo, quando tra verdi allori
Coronata di palma apparve fuori
Questa franc' Orsa che col vago lume [de
De' suoi begli occhi ogni uman core accen-
D' onesta fiamma, e tende

Si cari lacci, e in si gentil costume,
Che chiunque è da lei arso e legato,
Stima il foco soave e 'l giogo grato.

Tal valor piove in noi dalla sua luce, Benchè sempre saette avventi e strali, Che sgombra tutti i mali

Dai nostri petti, se talor si mostra
A noi benigna, ond' è ch' oggi i mortali
Non curan morte, fin che nostro duce
È il lume che conduce

A sommo onore i suoi seguaci : o nostra
Propizia stella, o s'io la virtù vostra
Ridir potessi, come dentro al core
La porto impressa, o pur ergermi a volo,
Sicchè al contrario polo

Per me s'udisse il vostro altero onore,
Tal fora all' ali mie baldanza nova
Data, che oserei star coi cigni a prova.

Ma sebbene al mio vol son tronchi ivan E le sue grazie mal meco comparte [ni, Febo e l'ingegno e l'arte

(1) Dio.

Lunge assai van da si gradita impresa,
Certo il desio fia almen laudato in parte
Cui vien che con si dolci e novi inganni
Nebbia d'Amore appanni,

Voi bella e vaga e d' onestade accesa
Fera gentil, se pur venite offesa
Dall' ardir mio, non vi movete a sdegno,
Che gran belta ragion non tiene a freno :
Come è chiaro e sereno

Il vostro lume e più d'ogni altro degno,
Cosi maggior d' ogn' altro è l'ardor mio,
Ne costrastar mi lice al gran desio. [gia,

Dunque se il mio pensier tant' alta pog-
Non vien in lui da sua virtù tal lena,
Ma sol dalla serena

Vostra luce ch' ogn' aitra cura a vile
Tener mi face, e solo a lei mi mena.
Occhi beati in cui splendor alloggia
Talche, se strali o pioggia
Giove minaccia, e che voi in atto umile
A lui volgiate il bel raggio gentile,
Egli abbagliato dal divino lampo,
Già tutto acceso il cor d' onesto foco
A voi tremante e fioco

S'inchina, e scaccia dal celeste campo
Folgori e tuoni, e già d' orgoglio e d' ira
Voto in vostra beltà si specchia e mira.

Nè punto a gelosia Giunon si move, La qual ben sa che vil pensier non puote Nascere ove percuote

De' bei vostr' occhi la gentil facella,
Ed al vostro saper son tutte note

Le fraudi ch' egli usò, le indegne prove.
Già sotto forme nove

Luce, per cui riman l'antica stella
Tenebrosa, nè più lucente e bella
Si mostra, come pria, che il vivo raggio
Vostro lo suo splendor vince d'assai :
A lei ricopre i rai

Poca nebbia, ed a voi non face oltraggio
O nube, o notte, e sempre a mille a mille
Lampeggian vostre angeliche faville. [ro

Canzon, vanne a quell' Orsa che l'impeHa di vera virtute e di beltate, E con quella umiltà che a lei si deve, In parlar dolce e breve,

Le di': siccome ella è di nostra etate Gloria e splendor, così seco mia voglia Amor lego, nè fia ch'indi mi scioglia.

M. DAL POZZO ZORZI,

DA VENEZIA.

(1580.)

SONETTO.

LIBERO cor nel petto mio soggiorna, Non servo alcun, nè d' altri son che mia, Pascomi di modestia e cortesia, Virtù m' esalta, e castità m' adorna.

Quest'alma a Dio sol cede, e a lui ritorna, Benchè nel velo uman s'avvolga e stia, E sprezza il mondo e sua perfidia ria Che le semplici menti inganna e scorna.

Bellezza, gioventù, piaceri e pompe, Nulla stimo, se non che i pensier puri Son trofeo per mia voglia, e non per sorte. Cosi negli anni verdi e nei maturi, Poichè fallacia d' uom non m'interrompe, Fama e gloria n'attendo in vita e in morte.

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