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In quanto a me non vo' rompermi il colPer andare in Parnaso, o per la strada Faticosa, per bere a quel rampollo.

Leggeteli così, se pur v' aggrada, Che altrimenti non voglio astrologare Per cibarvi di nettare o rugiada.

Io vi so dir ch' avrei troppo da fare Se col parlare in punta di forchetta Volessi sulle dita calcolare.

Già tengo dalla Musa una ricetta, Di non mutar un verso che risuona, Ne toglier allo stil na paroletta.

La Musa mia che si chiama Simona, Non figlia di Minerva, nè di Giove, Ma guardiana del bosco d'Elicona;

Ella è astrologa, e dice, quando piove, Che vuol guastarsi il tempo, e se vien sole, Dice, ch' è concio, e fa dell' altre prove.

Ella si stà da sè, e lascia sole
Clio, Euterpe, Erato e Melpomene,
Ne con esse ella mai conversar vuole.

Il sussiego spagnuolo non mantiene, Come Polinia, Urania e Terpsicore, Nè con grave parlare alcun trattiene;

Se di Calliope poi sente l'odore, Le fugge dall' aspetto e si rinselva; Che di starle a martello non ha core.

Nella faccia é pelosa come belva; Non perche gusti con lingua francese Parlar con quei poeti in quella selva.

È magra, che non ha le buone spese
Da chi tien la sua cura tutelare,
Che il vitto sol le dà di mese in mese.
Ha buone piume, ma non può volare,
Non perché fosse con quel Pireneo
Coll' altre muse fatta rinserrare;

Ma per voler amar un semideo
Le fur tarpate così corte l'ale,
Che non vola più alto d'un pigmeo.
E se potesse gir saria men male,
Ma se l'incontra qualche creditore,
La saluta col libro del giornale.

E se non si trovasse un buon priore D'animo fiero e core rubicondo,

Da Parnaso saria cacciata fuore.

E forse le faria per altro mondo
Andar cercando nova cortesia,
Da poter star con l'animo giocondo.

Chè star lassù, con tal malinconia
È cosa che non può troppo durare,
Ch' è viver d'una cagna, o d'una arpia.

Or non voglio più star a contrastare, Voglio cantar d'Amor casi seguiti, E in Parnaso vi stia chi vi vuol stare.

I miei versi son schietti e mal vestiti, Ricchi d' errori e poveri di merto, Di rozzo stile e poco ripoliti.

Ma sia che vuole, appresi in un deserto A dispor con le rime i miei pensieri, Nè mai libro per studio tenni aperto.

Vi dico ben che canto casi veri, E non empio li fogli d'impostura, Ne rubo versi e dico vituperi.

Donna son io, che sol per scacciar cura Mi diletto spiegare in queste rime In varie forme l'amorosa arsura.

Ne fia che mai poeta alcun mi stime, Mentre per scherzo mi diletto anch'io Far versi che han bisogno delle lime.

Con la Musa farommi il fatto mio, Ne delli fatti altrui prenderò cura, Né dirò contro il mondo o contre Die.

Canterò dunque senza aver paura. Che il mondo, il ciel, l'inferno, oifati rei Facciano contro me mala congiura.

Ma so che vi saranno più di sei E le dozzine intere che diranno Che se i versi son buoni non son miel.

Ed io che dal principio al fin dell'anno Tengo lesta la musa e sulle dita e. Ho il verseggiar, non me ne prendo allar

Ed or che la chitarra ho gia finita, Darò principio a un suono di liuto Con più voce sonora e più gradita.

Questa senz' arte e faticoso ajute, Sol perchè ciascun veda ch'io son viva Di dar fuora alla luce ho risoluto.

E tanto più, che v' è chi mi tien priva Con la sua mala lingua del cervello, Vo far veder che il mio cervel ravviva.

E se non ho poetico pennello, Mi basta che non sieno le mie rime Di stile stiracchiato un paralello.

Ogni poca virtù gli errori opprime In donna, anzi ch'è dono di Natura, S'altro che d'esser bella fia che stime.

Ond'io, che alla beltà mai posi cura, Mi diedi volontieri con le Muse

E se non ho poetica figura,
L'esser donna con voi faccia mie scuse.

L. F. GHIRARDELLI. (1675.)

SONETTO.

O BELLE donne, o voi che incauto il piede Su la pania d' Amor ponete ognora, Cercate di ritrarlo, oimè, che fuora Trar non si può, se Amorl' invesca e fiede. Presso al suo trono è del dolor la sede, E col dolce di lui l'aspro dimora, Per un breve piacer l' anime accora, Quanto colmo d' ardor, privo di fede.

Fuggite dunque, e con Amor fuggite Chi vi esorta ad amar, che troppo è corto Quel van piacer che si vi rende ardite.

Non troverete amando alcun diporto, E specialmente essendo ad uomo unite Di capo acuto, e ciò non dico a torto.

ANNA ROSALIA CARUSO. (1685.)

VIENNA DIFESA CONTRO GLI OTTOMANI.

SONETTO.

CESARE, tu vincesti, omai dappresso Fuggi il campo Agareno e più non torna; Trema la luna, e l'argentate corna D' orrori avvolge all' oriente appresso.

Il superbo visir vinto ed oppresso Del Bosforo alle sponde ecco ritorna, Ma la gloria maggior che in te soggiorna È tra le glorie tue vincer te stesso. T'opprime il tradimento, e allor che

morta

La tua pietà credea l'Unghero rio, Di cristiana virtù segui la scorta;

E per serbarti il titolo di pio, L'aquila tua real s' innalza e porta A te gli allori e le saette a Dio.

m

E. BALLATI ORLANDINI,

DA SIENA.

(1716.)

SONETTO.

LINCO, l'innamorarsi è gran follia, Si stringe l'onda, e si va dietro al vento. Ah Linco, Linco, se m'ascolti attento, Ti dirò quest' amor che cosa sia.

Figurati un pastor ch'oggi ti dia L'agnel più caro del suo fido armento, Cui di cane rabbioso un morso lento Avesse infusa già la peste ria:

Tu lo prendi, lo baci e stringi al seno, Ti rende all' amor tuo segni d'amore Fino al di che sta occulto il suo veleno

Ma poi che quel si scopre, ira e furo Divien l'affetto, e nel ferir vien meno; Così arrabbiato ognun di voi si muore.

F. DEGLI AZZI FORLI,

DA AREZZO.

(1716.)

SONETTO.

PIANGI, Sion, le tue perdute glorie
Ne' tuoi perduti figli ognor dinoti,
Fatta materia a lagrimose storie,
Il fallo enorme e gli esecrandi moti.

Misera, dove son le gran memorie? E le grandezze immense e le gran doti, Regi, palme, trionfi, alte vittorie, Profeti, duci, e tempio, e sacerdoti?

Ingrata, invece a chi di latte e miele La messe diede al popol tuo promessa, Rendesti, sconoscente, amaro fiele.

Giusta del tuo fallir, dunque confessa, L'ira del ciel; sì, sì piangi, crudele, Con l'eccidio d'un Dio quel di te stessa.

ERACLITO E DEMOCRITO,

DIALOGO.

SONETTO.

Il mondo che cos'è?- Gabbia di stolti. Quali son le lor vie? - Son fatte a scale.

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VIRGINIA BAZZANI,

DA MODENA.

(1720.)

SONETTO.

An dolce libertà, come tu m' hai, Partendoti da me, lasciata in pene! Pur mi è si caro il loco ove tu stai, Che di cercarti a me voglia non viene.

Un parlar dolce e due vezzosi rai Mi t'involaro, e Amor colà ti tiene, Ed io invaghita son si de' miei guai, Che fo decoro mio le mie catene,

Chè tanta è la beltà che dammi affanno, Che fa che dell' ardor che in me si annida Adori la cagion, nè pensi al danno.

Amor in altra parte non mi guida, E gli occhi altrove volgersi non sanno, Tanto ell' è bella, e tanto ho l'alma fida.

A. SANSEVERINO GAETANI,

DA SAPONARA. (1725.)

SONETTO.

CHE fai, alma, che pensi? Avrà mai pace De' tuoi stanchi pensier l' acerba guerra, Che in dubbia lance il viver mio rinserra Tra gelo ardente e tra gelata face?

S'io miro al ben, che si mi alletta e piace, Dice, chi più di me felice è in terra? Ma il geloso tormento, che mi atterra Ogni mia gioja poi turba e disface.

Così muovon talor fiera tempesta Contrarj venti, e 'l misero nocchiero S'aggira indarno in quella parte e in questa.

Lasso! e ben calco io pur dubbio sen tiero,

E la speme or s'affretta ed or s'arresta, E mi attrista egualmente e il falso e il vero.

SONETTO.

Poveri fior! destra crudel vi coglie, V'espone al foco, e in un cristal vi chiude. Chi può veder le violette ignude Disfarsi in onda, e incenerir le foglie ?

Al giglio e all' amaranto il crin si toglie Per compiacer voglie superbe e crude, E giunto appena aprile in gioventude, In lagrime odorose altrui si scioglie.

Al tormento gentil di fiamma lieve, Lasciando va nel distillato argento La rosa il foco, il gelsomin la neve.

Oh! di lusso crudel rio pensamento! Per far lascivo un crin, vuoi far più breve Quella vita che dura un sol momento.

SONETTO.

Sfoga pur contra me, cielo adirato, Quanto più sai, tuo crudo, aspro furore, Che indarno tenti di fierezza armato Spegner favilla al mio cocente ardore.

Puoi ben tormi ch' io possa in sull'amato Volto nutrir quest' affannato core, Ma sveller non puoi già dal manco lato Il dolce stral con cui ferimmi Amore.

Siami pur softe rea ognor più infesta, Viva pur l'alma in pianto ed in cordoglio, Che il mio fermo desir ciò non arresta.

Io son di vera fede immobil scoglio, Cui di continuo il vento e 'l mar tempesta, Ma non si frange al lor feroce orgoglio.

ELENA RICCOBONI,

DA FERRARA.

(1725.)

SONETTO.

Di sdegnoso furor tutto ripieno Stavasi Amor dal mio dispregio offeso, Bramò vendetta, e per ferirmi il seno Sin' or più d'un agguato al cor mi ha teso Ma invano uscía lo stral dall' arco teso, Che spuntato cadea sovra il terreno : L'arcier vedendo il suo bersaglio illeso, Più fiero allor provò d'ira il veleno.

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Ove l'ombra d'un alto annoso pino
Ad arrestare il piè porgeva invito.

Quivi mi assido, e lo sguardo rapito
Dalle bell' opre del Fattor divino,
Un prato scorro e un bel fonte vicino,
E di colli una scena intorno un lito.

Quindi dal cielo in me raggio discende, Onde il pensier si leva e chiaro vede Quel che, fra sè ristretto, non comprende:

Che se in questa prigion tanto concede Il buon padre ad un reo che ognor l'offende,

Quale agli amici in ciel darà mercede?

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F. MARATTI ZAPPI,

DA ROMA.

(1726.)

VETTURIA.

SONETTO.

PRESE per vendicar l' onta e l'esiglio Marzio de' vinti Volsci il sommo impero, E impaziente, inesorabil, fero Cinse la patria di fatal periglio.

E ben potea sotto l'irato ciglio Servo mirar lo stuol de' padri intero; Ma si oppose Vetturia al rio pensiero, E andò sola ed inerme incontro al figlie.

Quando a baciarla ei corse, allor costei: Ferma, che figlio tu di rupi alpine, E non di Roma o di Vetturia, sei.

Egli allor rese pace al Campidoglio, E quel che non potean l'armi latine Fe' d' una donna il glorioso orgoglio.

LUCREZIA.

SONETTO.

Poichè narrò la mal sofferta offesa Lucrezia al fido stuol ch' avea d'intorno, E col suo sangue di bell' ira accesa, Lavò la non sua colpa e il proprio scorno;

Sorse vendetta, e nella gran contesa Fugó i superbi dal regal soggiorno, E il giorno, o Roma, di sì bell'impresa Fu di tua servitù l'ultimo giorno.

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