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Bruto ebbe allora eccelse lodi e grate; Ma più si denno alla femminea gonna Per la grand' opra inusitata e nuova.

Che il ferro acquistator di libertate Fu la prima a snudar l'inclita donna Col farne in sè la memorabil prova.

PORZIA.

SONETTO.

Per non veder del vincitor la sorte Caton squarciossi il già trafitto lato; Gli piacque di morir libero e forte Della romana libertà col fato.

E Porzia, allor che Bruto il fier consorte Il fio pago del suo misfatto ingrato, Inghiotti 'l fuoco e riunissi in morte Col cener freddo del consorte amato. Or chi dovrà destar più meraviglia Col suo crudel, ma glorioso scempio, L'atroce padre, o l' amorosa figlia?

La figlia più. Prese Catone allora Da molti e a molti diede il forte esempio ; Ma la morte di Porzia è sola ancora.

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E giorno e notte in tuo gentil linguaggio Ridir ti ascolto con soavi accenti,

Se il mio duol tu sapessi e i miei tormenti,

Come le Driadi il sanno e il Dio selvaggio, Lieve ti fora dell' antico oltraggio L'aspra cagion che si noiosa or senti;

Che non vi ha speco ed antro in selva o rio,

Che stanchi di ridir mia doglia acerba, Non si lagnin con meco al fato mio.

Tu piangi, ma talor tra i fiori e l' erba Gradito pasci 'l dolce tuo desio, Io piango, e in vita odio e dolor mi serba.

M. E. STROZZI ODALDI,

DA FIRENZE.

(1726.)

SONETTO.

QUAL breve rosa o qual caduco fiore Che ratto in bel giardino o in prato ameno Va fastoso di fronde, e appena il seno Rispiega a' rai del sol che manca, e more;

Tal di beltate il pregio, ed il valore Cede al corso degli anni e ne vien meno; Ahi di quante sciagure il mondo è pieno, Per oscurarle il bel natio splendore!

Non già così virtù che ha tal baldanza Di sovrastar al tempo, e la rea sorte Non ha di superarla unqua possanza;

Che se tenta d' opprimerla, più forte D' Anteo risorge, e vince sua costanza I rigori del fato e della morte.

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Come al nascer del di tutto riluce Di novi raggi e s'abbellisce il cielo, E sgombrato alla terra il pigro velo, Il primiero vigor vi riconduce;

Cosi, dappoi che sull' eterna luce Discese l'alma tua nel suo bel velo, Tolto ogni cieco orror, di santo zelo Si vesti il mondo ed ebbe guida e duce.

Risorse allor virtude, e bella e cara Si fe' la vita, che il vil senso e frale Gravata aveva, ahi, di che indegne some!

Onde tu sovr' a ogn' altra e bella o chiara Ne andrai, e ne' suoi voti ogni mortale Invocherà divoto il tuo gran nome.

LUISA BERGALLI,

DA VENEZIA.

(1726.)

NEL PRENDER L'ABITO MONACALE LA N. D. CONTARINI ZORZI.

SONETTO.

SON miei, diceva Amor, quei lumi e quella

Neve del viso, e quelle chiome, e quanto Di grazia e di beltade altero vanto Trasse un giorno costei dalla sua stella.

Ei fregi di quel sangue illustre ond' ella Sua gloria e sua virtute alza cotanto, Son miei, dicea, d' Adria felice e bella L'eccelso Genio all' altro amore accanto.

Ella in faccia ad entrambi 'I bel desio Non piega ai fasti, e sotto umile e abbietta Spoglia sua beltà cuopre e corre a Dio.

Spezzo sdegnato Amore ogni saetta, E disse l'altro: Anima bella, addio · Celesti fregj ora il tuo sangue aspetta.

P. GABRIELLI CAPIZUCCHI,

DA ROMA.

(1726)

EGLOGA.

SELVE incognite al sol, torbide fonti, Limosi stagni, antri profondi, oscuri, Fiere balze, erme rupi, alpestri monti.

Fidi ricetti sol d'angui, e sicuri Nidi di belve, in voi mi riposo e spero Che in breve il giorno agli occhi mie s' oscuri,

Più non alberghi in me lieto pensiero Di lusinghiera, ingannatrice spene, Ma larve che il mio duol faccian più fiero:

Che d' Ission, di Tantalo le pene Son ombra in paragon di fè tradita, E d'un' alma che perda il caro bene.

Miglior sorte mi fora uscir di vita Che vivendo ed ognor sentirmi al core D'amor, di gelosia doppia ferita.

Ma neppur morte può tormi al dolore, Che nel doppio sentier l'alma confusa Non sa donde dal seno uscirsi fuore.

Lasso! al dolce parlar mia fe delusa Rimase, ed al celeste almo sembiante Che una Dea non credeva a tradir usa.

Ben fu pietà d' Amor farla incostante, Che se tanto n' avvampo, e m'e rubelia Qual saria l'ardor mio, se fosse amaate ?

Pur t'incolpo, o tenor d'iniqua stella: Perché farla gentil, quand'è stingrata Perchè farla infedel, quand' è si bella?

Ma pari al suo fallir la dispietata Prova martir : che se nega il gioire A me che l'amo, altrui ama ingannata. E mentre empia ella gode al m martire,

Schernita si rimane la sua incostanza; Che pena è il fallo stesso al suo fallire.

Amor, se sei tu giusto, a mia costanza Or devi il premio, e se non puoi far Clon Fida, togli al mio cor la sua sembianza. Ah no solo al mio duol pene maggior Aggiungi e fiamme all' avvampato petto Ella lieta sen viva ai novi amori.

:

Poichè del mio penar gradito effetto

Almen trarrò, s'alla tiranna mia
È ministro il mio duol del suo diletto.
Forse avverrà ch'un di, resa più pia,
Fedel ritorni, e sgombri dal mio seno
Col sol degli occhi il gel di gelosia,

Onde sanato da mortal veleno,
Famelico e digiun lo sguardo torni
Il cibo a tor del volto suo sereno. [giorni
Allor.... ma, speme vana, ancor sog-
Nel petto e lusingar tenti il cor mio,
Perchè bersaglio all' onte sue ritorni?
Andranno i monti, e starà il fiume e il
rio,

Pria ch' io niri quel volto. Ah troppo amai, Troppo intesi e soffrii, troppo vidio;

Anzi, occhi miei, se v' incontraste mai In quella menzognera, e al rio splendore Pur vi fissaste de' suoi crudi rai, Viricuopra in quel punto eterno orrore.

GAETANA PASSERINI,

DA SPELLO.

(1730.)

AL PRINCIPE EUGENIO DI SAVOIA,

PER LA VITTORIA OTTENUTA CONTRA I TURCHI AL TIBISCO.

SONETTO.

SIGNOR, che nella destra, orror del
Trace,

Delia fortuna d' Asia il crin tenete,
E con voi la vittoria, ove a voi piace,
Compagna indivisibile traete:

Dove di Costantin languendo giace
L'alta real città, l' armi volgete :
Cola scorta vi fia l' ombra fugace
Dell' inimico re che vinto avete.

Ivi il mostro crudel pallido e afflitto Che torvo mira le sue piaghe spesse Cada per voi nel seggio suo trafitto.

Allor vedransi in mille marmi impresse Queste note d' onore : Al Duce invitto Ch' un impero sostenne e l' altro oppresse.

CHI AMA NON È IN SICURTA.

SONETTO.

Qual cervetta gentil, ch' ora il desio La chiama al monte, ora l'appella al prato,

Ed or la spinge ove gorgoglia il rio,
Or dove il colle è di più fiori ornato ;

Ma s'egli avvien che al pastorel, che
ordio
Insidie a belve, la palesi il fato,
Ecco cangiarsi in dispietato e rio
Il suo si lieto, il suo si dolce stato.

Tal vid' io verginella ir baldanzosa In libertade, infinchè al nume arciero Santa semplicità la tenne ascosa.

Ma scopertala alfin quel cieco e fiero Signor, che cessi omai d'esser ritrosa Vuol, e che provi suo crudele impero.

DIO.

SONETTO.

Se nel prato vegg' io leggiadro fiore, Sembrami dir: qui mi produsse Dio, E qui ringrazio ognor del viver mio E della mia vaghezza il mio Fattore.

Se d'atra selva io miro infra l'orrore Serpe strisciarsi velenoso e rio; Qui, mi par ch' egli dica, umile anch' io Quel Dio che mi creò lodo a tutt' ore.

E'l fonte, il rio, l'erbette, i tronchi, i
sassi

Mi sembran dire in lor muta favella,
Ovunque volgo i traviati passi :

Ah! che sol questa (e il ciel lo soffre) è
quella

Che dell' amor di Dio lontana stassi,
Infida troppo e cieca pastorella.

CANZONETTA.

Lesbina semplicetta
Sen giva un di soletta
Per un erboso prato
Di mille fiori ornato,
E colto un vago fiore
Di purpureo colore,

Ratta sen corse al monte
Ov' era un chiaro fonte,
Per seco consigliarsi
Dove dovea adattarsi
Quel leggiadro fioretto,
O sul crine, o sul petto;
Ma visto allor nell' acque
Un simil fior, le piacque

Si, che il suo sulla sponda
Pose, e cercò nell' onda
Se pur trovar potea
L'altro che visto avea,
Ch' era l' immago istessa
Del suo nell'acqua impressa.
Oh quanto allor più bella
Sembra la pastorella,
Mostrando del suo core
Con quell' atto il candore,
E la semplicità

Che in verginella sta.

SONETTO ANACREONTICO.

Augellin che a lento volo Te ne vai dal faggio al pino, E ti godi solo solo

Il tuo canto mattutino.

Tu m'insegni il mio gran duolo A sfogare in sul mattino, Quando altrui cheta m'involo, Te non posso al mio destino.

Deh! mi porta, se tu puoi,
Con la forza de' tuoi vanni
Dagli Esperj ai lidi Eoi.

Porterai teco i miei danni,
E saranno incarchi tuoi
Le mie pene, e i miei affanni.

SONETTO.

Su queste balze ove una capra appena Andria, tanto son esse erte e scoscese, In cima in cima il mio augellino ascese, Senza alterar la natural sua lena.

Ma pur col suon di pastorale avena
Non si tosto da me chiamar s' intese,
Che con veloce piè l' erta discese,
E di cercarlo a me tolse la pena.

Lieta a coglier vincastri allor n' andai Per intesser cestelle, e un serpe, o Dio! Non veduto da me col piè calcai.

Tutta spavento allor fra me diss' io : O quanto è ver che senza amaro mai Non ha un poco di dolce uman desio!

PETRONILLA PAOLINI,

DA ROMA.

(1730.)

A GESU BAMBINO.

SONETTO.

OR che tien chiusi i lumi in dolce oblio Il fanciullo divin, tacete, o venti, E voi fermate il corso, o chiari argenti, Benchè v' incalzi tra le sponde il rio.

Vorrei fermare i miei sospiri anch'io, Se fosser, come voi siete, innocenti; Ma di pentito cor l'aure dolenti Non turban la quiete al nato Dio.

Ch'egli dormendo ancor l'alto, amorosa Pensier ravvolge per disegno e norma Della grand' opra onde avrem poi riposo.

Oh dolce sonno che per l' uom riforma L'antico male! ahi che il Bambin pietoso Veglia a dar vita al mondo, e par che dorma.

SULLO STESSO SOGGETTO.

SONETTO.

Mio cuor, credi ed adora: eccoti avanti Al gran mistero, in cui si stringe al petto Vergine madre e sposa il pargoletto Tuo Redentor, tanto aspettato innante.

Deponi qui le cosi varie e tante Folli speranze e ogni profano affetto, E sia per te nelle sue fasce stretto Ei l'amore ei l' amato, ed ei l'amante.

Vedi come a Maria risplende il viso D'un si bel pianto, che non fu giammai Delle stelle e del ciel più bello il riso!

Per poco o nulla hai lagrimato assai, Or se nol fai dal tuo fallir conquiso, Quando in uso miglior pianger saprai ?

IN OCCASIONE DELL'ANNO NUOVO.

TEAZINE.

Mentre già sazio dalle piagge apriche Tornava il gregge, e passo passo intorno L'ombre scendean dalle montagne

tiche,

Diman, diccami Alfeo, col nuovo giorno Nascerà l'anno nuovo: piaccia al cielo Dartelo qual più vuoi di grazie adorno.

Io che credea che col purpureo velo L'alba accogliesse il nobil parto, e il sole Lo difendesse dalle nevi e 'l gelo.

Quando è più oscura la terrena mole, Ed a custodia delle bianche agnelle Il fidissimo can vegliar più suole,

In parte andai dove tra queste e quelle Più basse collinette ergesi un monte Atto a mirar più da vicin le stelle,

E della parte orientale a fronte Fermo l'opra attendea del gran natale, Com' uom ch'aspetti illustri cose e conte.

Or quivi Asterio, il buon pastor, che vale Tanto col disco o colla fromba, e tanto Sovra ogni uso mortal cantando sale,

Venne per l'orme mie pensoso, e intanto Non s'era l'aura mattutina ancora Desta, ed in dir così, sedemmi accanto : Fidalma, e qual desio ti trasse fuora Della capanna in si rimota parte, Pria ch'esca in cielo la vermiglia aurora? Forse hai vaghezza di mirar quant' arte Pose l'eterna infaticabil mente In quei che noi chiamiam Saturno e Marte? Oqualche altro pensier mesto e dolente Ti toglie al sonno, onde la stanca salma Tutto il rigor della stagion non sente? Amor non è, che la tua gelid' alma Amor non prova, e se lo prova, è solo Desio di gloria, avidità di palma.

Risposi allor: Come! non sai che il polo Sta per dar fuori l'anno nuovo? Ed io Qui venni a vagheggiarne il primo volo. Mel disse Alfeo quando passammo il rio, E al piccol guado Fronimo divise Il numeroso suo dal gregge mio.

Asterio allor del mio pensier si rise, E in parlar grave del novello giorno Soavemente a ragionar si mise. Volgesi il ciel con tante stelle intorno All'ampia terra, e la feconda e muove Virtù ch'empie di frondi il faggio e l'orno.

Ne perchè colassù Venere e Giove Cangiano aspetto, fia che il basso mondo L'antichissime sue forme rinnove. [do Sempre hanno influsso placido e gioconGli astri, e per scusa dell'uman fallire Altri infausto lo crede, altri secondo.

Dal nostro, or regolato, or reo desire Pendon le sorti, e volontario è il danno Che muove in petto nostro amore ed ire.

Nè creder tu perchè risorga l'anno Che i primi ordini suoi muti natura, Se il vero udii pur da color che sanno :

Questa che al tempo instabile misura Diciamo, è come in picciol vetro accolta Che in se sempre si volge arena impura.

Ei dalla prima memorabil volta Che sciolse i vanni, irreparabilmente Fugge, e il nostro pregar mai non ascolta. Là nell' ampie cittadi usa sovente La sciocca turba a vil guadagno intesa Favoleggiar di lui per l'uom potente.

Augura lieta ogni futura impresa,

E cuopre il cor sotto contrario manto,
Conversa in lode la celata offesa. [to
Fidalma mia, quanto è diverso, oh quan-
Il nostro innocentissimo costume
Da chi mutata ha la menzogna in vanto!
Le mense liete o l'oziose piume
Con tanti vani titoli d' onore
Han quasi tolto alla ragione il lume.

Andiam, che già del suo natio splendore S' imbianca il cielo, e muove il corso usato Il bel pianeta che distingue l'ore.

Tu godi intanto il tuo felice stato,
E in ogni tempo il buon voler sia scorta
A quanto cela agli occhi nostri il fato.

Ei d'alto regge il corso agli anni, e porta
Gli ordini eterni di colui che ha cura
Di noi ch' andiam per via smarrita e torta.
Goditi il ben che nella mente pura
Serve di sprone a miglior voglia, e sprezza
Ciò che un affetto reo cangia in sventura.

Più volea dir l' altera mente, avvezza A maggior cose, del pastor felice: [za. Tanto ebbe in grado allor la mia sciocchezOr nella stessa forma a te predice Fidalma il resto del comun viaggio, Che in ogni luogo e in ogni erma pendice Va lieto il forte ed è contento il saggio.

FRANCESCA MANZONI,

DA MILANO.

(1750.)

AL P. M. ZUCCHI OLIVETANO, FRA GLI ARCADI ORASPE,

IN MORTE D'UNA SUA SORELLA.

SONETTO.

PENSANDO a quanto, Oraspe mio, perE perde pur l'Adige teco, allora [desti,

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