Dalle mie vesti semplici, Dagli atti e dal parlare, Lungi sta il fasto inutile, Ma la decenza appare. Son generosi e nobili Tutti i pensieri miei, Neppur per giuoco fingere Una viltà saprei. Ad ogni offesa scuotesi E si risente l' alma, ANTICHE E MODERNE. Un molle cuor pieghevole Ma fu qual polve bellica Stral di più fina tempera Ferimmi, e al ciglio offrendomi Filen, cui nel suo nascere Fu quel cui diè l'imperio Le pene aspre e sollecite Ma dolci mi sembravano PAOLINA SECCO SUARDO GRISMONDI, DA BERGAMO. (1790.) LESBIA CIDONIA A PALIDE LIDIO. D'ALTO incendio di guerra arde gran parte D'Europa, e intorno a lei scorre fremente Colla orribil quadriga il fiero Marte; L'Istro e la Neva il sanno, il sa la gente Che la Vistola beve, e si vicine Del crudo Nume le minacce or sente, Che aleisi avventa, qual per nevi alpine Torrente altier che giù tra balzi scende, E mugghiando terror sparge e ruine. E d'intorno alla Senna oh quai più orrende Desta empic faci la discordia, oh quale Onda immensa di fumo al ciel ne ascende! Cresce il rio foco, incontro a cui non vale Di leggi schermo, e va di tetto in tetto, Sin che la reggia furibondo assale. Oh reggia, oh mura, di piacer ricetto, Di gloria un di, come di lutto or siete E di spavento ahi lagrimoso obbietto! Ma dove, o carmi miei che amar dovete D'umili canne il suon, dove si audace Per sentiero non vostro il vol stendete? Ah che in queste ov'io seggio, e dove Con soavi a bear leggi si volse, Nè più Bellona il sanguinoso e fiero Suo flagello agito, nè più le genti Impallidir di trombe al suon guerriero, Delle Muse all' invito impazienti Corsero i vati al Tebro, e non pria uditi Gl'insegnaro a ridir Febei concenti. Maro gli affanni allora e gl'infiniti Canto del Teucro eroe varcati orrori Seguendo il fato, i venti, i Lazj liti. Narro Tibullo i suoi teneri ardori, Dolci note accordando a flebil cetra, Che Amor di propria man spargea di fiori: E mentre ci Delia e la vezzosa all' etra Nemesi alzava, i forti inni sciogliea Il Venosin dalla Dircea faretra, Ond' or bei nomi al tardo oblio togliea, Ed or di rose intatte e mirtee fronde Serti a Glicera e a Lalage tessea. Chiare in quegl' inni di Brandusia l'onde Splendono ancor dopo tant'anni, ancora Il Lucretile amene ombre diflonde. Oh come a tanti eletti cigni allora Eco fean lieta i colli e le beate Rive cui lambe il biondo Tebro e infiora! Ne lungo a quelle rive avventurate Or men vivace la sua fiamma spira De' carmi il genio a cent' alme bennate. Roma, superba Roma, abbatter l'ira Te non poteo del tempo; ancor nudrice Te dell'arte d'Apollo il mondo ammira. Vedi qual figlio oggi additar ti lice, Di Mecenate a un tempo e degli Ascrei Cultor più esperti emulator felice. Palide egli è. Con piena man gli Dei Ricchezze in lui versaro e onori e quanti Pregi ornar ponno un' alma eccelsi e bei. Chi di cetre le fila auree sonanti Più dotto a ricercar, chi più gradite Rime elette a temprar fia che si vanti? Voi che sovente la sua voce udite, Campagne amene, e voi d' Arcadia al Dio Diletto albergo, ombrose selve, il dite. Ed oh potessi, o selve, un giorno anch'io A lui dappresso offrirgli in seno a voi Di grat' animo in segno il canto mio! Egli il mio nome co' begl' inni suoi Volle fregiar, e a eternità il commise Che i nomi ha in guardia de' più chiari croi ; Ei sin dai sette Colli amico arrise Agl' incolti miei carmi, e là talvolta Intorno intorno a' verdi allor gl' incise. E quando il fato estremo avrammi tolta La dolce aura di vita, e fia da questo Ne più forse sarà chi sul funesto E immemori di me forse ahi saranno. Que' che amici sperai, pur sempre chiara Vita i miei versi gloriosi avranno, Poiché, Palide, a te Lesbia fu cara. L'AUTRICE GIUNTA IN PARIGI SONETTO. Città regal che fosti ognor de' miei Desir, benchè da lungi, amato obbietto, Per cui lieta varcai l'Alpi, e il diletto Italo cielo abbandonar potei, Città che de' più chiari ingegni sei, E delle grazie e degli amor ricetto, Oh quanto volentieri un inno eletto Qui della Senna in riva or ti offrirei! Ma se per celebrarti io sciorrò l'ali A' rozzi versi miei, certo n' avranno Ira e dispetto i tuoi vati immortali. Essi che cinta l' onorata chioma De' più bei lauri ascrei, cantando or fanno Risorgere in te sola Atene e Roma. I PRIGIONIERI (1). SONETTO. Rei fummo, è vero, ed a ragion la sorte Fra queste ne dannò squallide mura, Una muta a spirar aria ed impura, Carchi di ceppi o d'orride ritorte; Ma tu, signor, su queste infauste porte Volgesti il guardo, e con paterna cura L'ale tarpasti al rio malor, che dura Ne minacciava inevitabil morte. Quindi or lassi mettiam di un duole amaro Grida sul tuo partir, fra i plausi e i canti Che già l'alte tue gesta echeggiar fanno. Pur con gl' inni più bei fors' anche a paro Dell' Adria ai padri i sospir nostri e i piant La tua pietade a rammentar ne andranno. (1) Pel miglioramento delle carceri a S. E. A vise Contarini. AL SIGNOR LE MIERRE (1). CANZONE. Ei, che di mirto Idalio Ei, che insegnò nel pelago Con vol più forte ergendosi, Rivolse audace il canto Ma Roma ingrata videlo Là del gelato Sarmata E intanto del mar Scitico Te pur le grazie godono, O se il pittor per l'arduo Sentier tu guidi, e schiudi L'arte onde vita spirano Le tele informi e rudi. A te, se il piè del tragico Ed or che della Gallia, (1) Anton Maria Le Mierre, poeta francese, fu uno de' principali ammiratori di Lesbia, allor ch'ella trovavasi in Parigi. Questa canzone, ed il componimento: Che fa Le Mierre? furono pubblicati con le stampe di Bergamo, e mandati al medesimo. Ma farti plauso e tessere Felice te, cui diedero MARIA LUISA CICCI, DA PISA. (1796.) LA ROSA. ANACREONTICA. VAGA rosa onor d' aprile E le ascose entro al gentile Con un timido sorriso Perde adon, croco, narciso, Mira a gara ad essa intorno Son le frondi porporine È lo stelo senza spine, Chino poscia i lumi e tacque : Ma sottrarlo indi mi piacque Del novello suo destino Già credea l'orgogliosetta Smorta, lacera, negletta, Mesto alzò la rosa un grido Alma Dea di Pafo e Gnido, Quella io son che in Amatunta lo le chiome, allor che spunta, Cingo all' alba rugiadosa, L'aura scherza, Amor riposa Entro al mio vergineo sen; Quella io son.... ma Citerea Presso al cespo te dovea Ma il tuo nome fino al polo, Nota è già tua nobil sorte Ed invidia e meraviglia Dunque mori, e di tua morte D. SALUZZO ROERO. (1800.) IL RUSCELLO. SONETTO. FONTE leggiadro che gli estivi ardori Rallenti in parte a questa piaggia ombrosa, Mentre baciando vai l'erba odorosa, E'l pinto sen degli olezzanti fiori, Se una meta tu brami a' lunghi errori, Ruscelletto gentil, qui ti riposa : In men bassa pendice e meno ascosa Proverai dell' està gli aspri rigori. Di più che brami? Sei di piante cinto, A mille aurette, agli augelletti nido, Ne in bronzo altier vai prigioniero avvinte. Ma tu segui il tuo corso? E un van desis Incostante ti spinge al mare infido? Ah nel tuo inganno riconosco il mio! L. GIUNIO BRUTO. SONETTO. Omai vicino a condannare i figli L'austero padre, in sì funesto errore Non la lor gioventude, e non l' amore Potean cangiare i rigidi consigli. Pera, dicea, da' meritati esigli Chi richiamar tentò l'empio signore; Se i figli miei han di Tarquinio il cuore, Ceda Natura a Roma, a' suoi perigli. Schiava si giacque in sonno vil finora, E se di nuovo assoggettarla han brama, Mora Tiberio pur e Tito mora. Misero padre! la condanna scrisse Ed, oh rigor che fë' stupir la fama! Gli condanno, morir li vide, e visse! LA GIOVENTU SONETTO. Stavasi in mezzo a' fior donna ridente Di debol mole rovinosa in cima, E quanto di più bello il mondo estima Pareami il crin del più bell' or lucente; Tal che spiegarlo non m' è dato in rima, Ed avea fiamma non più vista in prima Sul roseo labbro e sul bell'occhio ardente. Ma cadde e si sfasciò la mole antica, Ahi, ch'era dessa Gioventù! Sedea L'INSETTO DETTO VOLGARMENTE LA DAMIGELLA. CONSIGLIO A NICE. Vi è un insetto schifosetto La malvagia sua natura; Sta senz' ali ed ha sul viso Della maschera gradita. Da quel lucido sembiante Le tessute trame argute Vedi, Nice, i vecchi inganni Di grand' ali s'incorona Ch' ebbe a sdegno Di pudica verginella La bellezza ed il candore, |