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Dalle mie vesti semplici, Dagli atti e dal parlare, Lungi sta il fasto inutile, Ma la decenza appare. Son generosi e nobili Tutti i pensieri miei, Neppur per giuoco fingere Una viltà saprei.

Ad ogni offesa scuotesi

E si risente l' alma,
Ma in un istante placasi
E si rimette in calma.

ANTICHE E MODERNE.

Un molle cuor pieghevole
Sempre nascosi in seno,
Che porge aita ai miseri,
O li compiange almeno.
Ne' più verd' anni e fervidi
Fu questo cuor soggetto
Ad agitarsi ed ardere
D'un amoroso affetto;

Ma fu qual polve bellica
Il fuoco in me d'amore,
Che in un momento accendesi
E in un momento muore.
Quando sentia già scorrere
Il sangue in sen più lento,
E il primo ardor pareami,
Che fosse in parte spento,
Quando credea d' Arcadia
Alle fresch' ombre e chete
Viver sicura e libera
Dall' amorosa rete,

Stral di più fina tempera
Distese Amor sull' arco,
Ed aspettommi il perfido
Celatamente al varco.

Ferimmi, e al ciglio offrendomi
Vago garzon vicino:
Ardi, mi disse, ed amalo,
Che questo è il tuo destino.

Filen, cui nel suo nascere
Guardo Minerva irata,
Che de' suoi doni Apolline
Non gli ha la mente ornata,
E che alcun altro pregio
In se non tiene accolto,
Che un' aria dolce e placida,
Ed un leggiadro volto,

Fu quel cui diè l'imperio
Amor sul mio pensiero;
Fu del mio cuore, o Fillide,
Il vincitore altiero.

Le pene aspre e sollecite
Mi fur dattorno allora,

Ma dolci mi sembravano
Le stesse pene ancora.
Di parer sempre amabile
A quegli amati lumi
Fu il voto sol che supplice
Porsi sovente ai Numi.

PAOLINA SECCO SUARDO GRISMONDI,

DA BERGAMO.

(1790.)

LESBIA CIDONIA A PALIDE LIDIO.

D'ALTO incendio di guerra arde gran parte

D'Europa, e intorno a lei scorre fremente Colla orribil quadriga il fiero Marte;

L'Istro e la Neva il sanno, il sa la gente Che la Vistola beve, e si vicine Del crudo Nume le minacce or sente,

Che aleisi avventa, qual per nevi alpine Torrente altier che giù tra balzi scende, E mugghiando terror sparge e ruine.

E d'intorno alla Senna oh quai più orrende

Desta empic faci la discordia, oh quale Onda immensa di fumo al ciel ne ascende! Cresce il rio foco, incontro a cui non vale

Di leggi schermo, e va di tetto in tetto, Sin che la reggia furibondo assale.

Oh reggia, oh mura, di piacer ricetto, Di gloria un di, come di lutto or siete E di spavento ahi lagrimoso obbietto!

Ma dove, o carmi miei che amar dovete D'umili canne il suon, dove si audace Per sentiero non vostro il vol stendete?

Ah che in queste ov'io seggio, e dove

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Con soavi a bear leggi si volse,

Nè più Bellona il sanguinoso e fiero Suo flagello agito, nè più le genti Impallidir di trombe al suon guerriero,

Delle Muse all' invito impazienti Corsero i vati al Tebro, e non pria uditi Gl'insegnaro a ridir Febei concenti.

Maro gli affanni allora e gl'infiniti Canto del Teucro eroe varcati orrori Seguendo il fato, i venti, i Lazj liti.

Narro Tibullo i suoi teneri ardori, Dolci note accordando a flebil cetra, Che Amor di propria man spargea di fiori: E mentre ci Delia e la vezzosa all' etra Nemesi alzava, i forti inni sciogliea Il Venosin dalla Dircea faretra,

Ond' or bei nomi al tardo oblio togliea, Ed or di rose intatte e mirtee fronde Serti a Glicera e a Lalage tessea.

Chiare in quegl' inni di Brandusia l'onde Splendono ancor dopo tant'anni, ancora Il Lucretile amene ombre diflonde.

Oh come a tanti eletti cigni allora Eco fean lieta i colli e le beate Rive cui lambe il biondo Tebro e infiora!

Ne lungo a quelle rive avventurate Or men vivace la sua fiamma spira De' carmi il genio a cent' alme bennate.

Roma, superba Roma, abbatter l'ira Te non poteo del tempo; ancor nudrice Te dell'arte d'Apollo il mondo ammira.

Vedi qual figlio oggi additar ti lice, Di Mecenate a un tempo e degli Ascrei Cultor più esperti emulator felice.

Palide egli è. Con piena man gli Dei Ricchezze in lui versaro e onori e quanti Pregi ornar ponno un' alma eccelsi e bei.

Chi di cetre le fila auree sonanti Più dotto a ricercar, chi più gradite Rime elette a temprar fia che si vanti? Voi che sovente la sua voce udite, Campagne amene, e voi d' Arcadia al Dio Diletto albergo, ombrose selve, il dite.

Ed oh potessi, o selve, un giorno anch'io A lui dappresso offrirgli in seno a voi Di grat' animo in segno il canto mio!

Egli il mio nome co' begl' inni suoi Volle fregiar, e a eternità il commise Che i nomi ha in guardia de' più chiari croi ;

Ei sin dai sette Colli amico arrise Agl' incolti miei carmi, e là talvolta Intorno intorno a' verdi allor gl' incise.

E quando il fato estremo avrammi tolta

La dolce aura di vita, e fia da questo
Infermo vel l' ignuda alma disciolta,

Ne più forse sarà chi sul funesto
Sasso ove l'ossa mie chiuse staranno
Un guardo sol volga pietoso e mesto,

E immemori di me forse ahi saranno. Que' che amici sperai, pur sempre chiara Vita i miei versi gloriosi avranno,

Poiché, Palide, a te Lesbia fu cara.

L'AUTRICE GIUNTA IN PARIGI

SONETTO.

Città regal che fosti ognor de' miei Desir, benchè da lungi, amato obbietto, Per cui lieta varcai l'Alpi, e il diletto Italo cielo abbandonar potei,

Città che de' più chiari ingegni sei, E delle grazie e degli amor ricetto, Oh quanto volentieri un inno eletto Qui della Senna in riva or ti offrirei!

Ma se per celebrarti io sciorrò l'ali A' rozzi versi miei, certo n' avranno Ira e dispetto i tuoi vati immortali.

Essi che cinta l' onorata chioma De' più bei lauri ascrei, cantando or fanno Risorgere in te sola Atene e Roma.

I PRIGIONIERI (1).

SONETTO.

Rei fummo, è vero, ed a ragion la sorte Fra queste ne dannò squallide mura, Una muta a spirar aria ed impura, Carchi di ceppi o d'orride ritorte;

Ma tu, signor, su queste infauste porte Volgesti il guardo, e con paterna cura L'ale tarpasti al rio malor, che dura Ne minacciava inevitabil morte.

Quindi or lassi mettiam di un duole

amaro

Grida sul tuo partir, fra i plausi e i canti Che già l'alte tue gesta echeggiar fanno.

Pur con gl' inni più bei fors' anche a paro Dell' Adria ai padri i sospir nostri e i piant La tua pietade a rammentar ne andranno.

(1) Pel miglioramento delle carceri a S. E. A vise Contarini.

AL SIGNOR LE MIERRE (1).

CANZONE.

Ei, che di mirto Idalio
Cinger solea le chiome,
E di Corinna in teneri
Modi cantare il nome,

Ei, che insegnò nel pelago
Di amor dubbio e infedele
Novello Tifi a sciogliere
Le baldanzose vele,

Con vol più forte ergendosi,

Rivolse audace il canto
Della città di Romolo
Ad eternare il vanto.

Ma Roma ingrata videlo
Egro, da lei lontano
Languir, fra genti inospite
Pietà chiedendo invano.

Là del gelato Sarmata
In su i barbari lidi
Quai non udissi misero
Metter dolenti gridi!

E intanto del mar Scitico
Le crude onde frementi,
Ei sassi ripetevano
Quei non più uditi accenti.

Te pur le grazie godono,
Le Mierre, ornar di fiori,
Se le tue corde suonano
Ninfe leggiadre e amori,

O se il pittor per l'arduo Sentier tu guidi, e schiudi L'arte onde vita spirano Le tele informi e rudi.

A te, se il piè del tragico
Coturno cingi, il muto
Circo offre ognor di lagrime
Un nobile tributo.

Ed or che della Gallia,
Con stil sonante e chiaro
A celebrar le glorie
T'ergi d' Ovidio al paro,
Non già ramingo ed esule
Qual di Sulmona il Vate,
Noi ti vedremo avvolgerti
Tra piagge inabitate;

(1) Anton Maria Le Mierre, poeta francese, fu uno de' principali ammiratori di Lesbia, allor ch'ella trovavasi in Parigi. Questa canzone, ed il componimento: Che fa Le Mierre? furono pubblicati con le stampe di Bergamo, e mandati al medesimo.

Ma farti plauso e tessere
Bel serto a' crini tuoi
Vedrem la Gallia, solita
A coronar gli eroi.

Felice te, cui diedero
Le stelle amiche in dono
Sacrar della tua cetera
A si gran donna il suono,
A lei che de' Romulei
Fasti l'onor vetusto
Vince, e più bella innalzasi,
Mercè un più grande Augusto.

MARIA LUISA CICCI,

DA PISA.

(1796.)

LA ROSA.

ANACREONTICA.

VAGA rosa onor d' aprile
Di rugiada aspersa ancora
Dall' eburnea man di Flora
Il mio Silvio un di rapi,

E le ascose entro al gentile
Curvo sen baci e sospiri,
Indi a me de' suoi desiri
Fida interprete la offri.

Con un timido sorriso
Ei mi disse: Pastorella,
Questa rosa verginella
Prendi ed usami pietà.

Perde adon, croco, narciso,
Clizia, ajace ed amaranto
Presso a questa tutto il vanto
Di fragranza e di beltà.

Mira a gara ad essa intorno
Mille aurette innamorate
Agitar le piume aurate
Per rapirne il grato odor;

Son le frondi porporine
Del mio fuoco imagin vera,
La mia speme lusinghiera
Puoi nel verde ravvisar.

È lo stelo senza spine,
Perchè tutte nel mio petto
Per suo barbaro diletto
Le ha volute Amor vibrar.

Chino poscia i lumi e tacque :
Io giuliva a lui mi volsi,
E il bel fior di man gli tolsi
Caro al Ciprio fanciullin;

Ma sottrarlo indi mi piacque
Dell'edace Veglio all'onte,
E di un nuovo Anacreonte
Di mia man lo avvolsi al crio.

Del novello suo destino
Tripudió la vaga rosa,
E sembrò che vergognosa
Raddoppiasse il suo rossor;
Chè sol usa in sul mattino
Fu di ornar ninfe e pastori,
Ne sperò giammai gli onori
Emular del sacro allor.

Già credea l'orgogliosetta
Eternar sua pompa altera;
Ma ben tosto la primiera
Lieta sorte si cangiò.

Smorta, lacera, negletta,
lo la vidi in un istante
Di colui starsi alle piante
Che il suo fato lusingò.

Mesto alzò la rosa un grido
Negli estremi suoi momenti,
E a Ciprigna in questi accenti
Fé palese il suo dolor:

Alma Dea di Pafo e Gnido,
Che di porpora mi vesti,
Come puoi soffrir ch' io resti
Calpestata e senza onor?

Quella io son che in Amatunta
De' Piaceri il tempio adorno,
De' tuoi cigni al collo intorno
Io coloro il vago fren.

lo le chiome, allor che spunta, Cingo all' alba rugiadosa, L'aura scherza, Amor riposa Entro al mio vergineo sen;

Quella io son.... ma Citerea
La interruppe i tuoi clamori
Frena, disse, lieta muori,
E ringrazia il tuo destin.

Presso al cespo te dovea
Calpestar greggia o pastore,
Or di un mio gentil cantore
Ti fu dato ornare il crin.
Giaci, è ver, malviva al suolo,
Che fuggir quaggiù non lice
Dell' avara mietitrice
L'atra forbice fatal;

Ma il tuo nome fino al polo,
Vincitor del Re degli anni,
Di Febei modi sui vanni
Poggerà fato immortal.

Nota è già tua nobil sorte
Tra la florida famiglia,

Ed invidia e meraviglia
Destar seppe in ogni fior.

Dunque mori, e di tua morte
Va superba, o mia diletta,
Non dir più che sei negletta,
Calpestata e senza onor.

D. SALUZZO ROERO.

(1800.)

IL RUSCELLO.

SONETTO.

FONTE leggiadro che gli estivi ardori Rallenti in parte a questa piaggia ombrosa, Mentre baciando vai l'erba odorosa, E'l pinto sen degli olezzanti fiori,

Se una meta tu brami a' lunghi errori, Ruscelletto gentil, qui ti riposa : In men bassa pendice e meno ascosa Proverai dell' està gli aspri rigori.

Di più che brami? Sei di piante cinto, A mille aurette, agli augelletti nido, Ne in bronzo altier vai prigioniero avvinte.

Ma tu segui il tuo corso? E un van desis Incostante ti spinge al mare infido? Ah nel tuo inganno riconosco il mio!

L. GIUNIO BRUTO.

SONETTO.

Omai vicino a condannare i figli L'austero padre, in sì funesto errore Non la lor gioventude, e non l' amore Potean cangiare i rigidi consigli.

Pera, dicea, da' meritati esigli Chi richiamar tentò l'empio signore; Se i figli miei han di Tarquinio il cuore, Ceda Natura a Roma, a' suoi perigli.

Schiava si giacque in sonno vil finora, E se di nuovo assoggettarla han brama, Mora Tiberio pur e Tito mora.

Misero padre! la condanna scrisse Ed, oh rigor che fë' stupir la fama! Gli condanno, morir li vide, e visse!

LA GIOVENTU

SONETTO.

Stavasi in mezzo a' fior donna ridente

Di debol mole rovinosa in cima,

E quanto di più bello il mondo estima
Tutto scorgeva in lei mia cieca mente.

Pareami il crin del più bell' or lucente; Tal che spiegarlo non m' è dato in rima, Ed avea fiamma non più vista in prima Sul roseo labbro e sul bell'occhio ardente.

Ma cadde e si sfasciò la mole antica,
E seco cadde la leggiadra donna,
Cosi che pianto trasse all' alma amica.

Ahi, ch'era dessa Gioventù! Sedea
Di nostra vita sulla fral colonna
E al suo fato vicin non sel vedea.

L'INSETTO

DETTO VOLGARMENTE LA DAMIGELLA.

CONSIGLIO A NICE.

Vi è un insetto schifosetto
Che dall' onde uscito fuora
Ogni insetto semplicetto
Rapacissimo divora:
Sta celato fra la messe,
Ma il malvagio non la cura,
Che a distruggere l' invita
Ciò che ha vita

La malvagia sua natura;
Non di messe, erbetta o fiore
Vive, o Nice, il traditore.

Sta senz' ali ed ha sul viso
Mascheretta colorita;
GP' insettuzzi fatti audaci
Vanno a' baci

Della maschera gradita.
Insettuzzo, ah tu sei colto!
S'allontana la diletta
Mascheretta

Da quel lucido sembiante
E divorasi l'amante.
Se 'l riponi in chiusa stanza
Egli in pace sonnacchioso
Torpe in languido riposo,
Onde nasce in te speranza
Di serbarlo a tuo volere
Che senz' ali tu lo miri,
E desiri

Le tessute trame argute
Qui spiare a tuo piacere.
Mirar credi i vecchi inganni
Rinnovar com' ei s' allanni,
E far prova sempre nuova
Di quell' arte onnipossente
Che è la stessa eternamente.

Vedi, Nice, i vecchi inganni
Rinnovar com' ei s' affanni;
Stassi in calma un' ora breve;
Ma già 'I tempo or al fatale
Insettuzzo diede l'ale:
Ei s' innalza lieve lieve,
Dietro lascia le sue vili
Spoglie umili,

Di grand' ali s'incorona
E la spoglia t'abbandona
Vuota già d' ogni vigore.
Farfalletta, via s' allretta,
Batte l'ali sul tuo ciglio;
Mentre guardi fisa fisa
Batte l'ali, e sei derisa.
Un superbo altiero ingegno
Sprezzatore,

Ch' ebbe a sdegno

Di pudica verginella

La bellezza ed il candore,
Diede il nome di Donzella
All' insetto traditore,
Poichè mente volto e chiome,
E spogliata non par quella
Già si bella;

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