Sotto ferme sembianze alma omicida. Insulta la nemica e vuol feroce Che si eseguisca la sentenza atroce. Il ministro di morte, omai feroce, Alza sovra il fanciullo il ferro crudo; Ma la pia madre con tremante voce [do. Oppon tra il figlio e il brando il petto ignu- Disperato dolor, tormento atroce, Fan ch'ella faccia di sè stessa scudo Con gridi e pianti al minacciato infante, Pallida, contraffatta e vacillante.
Cosi giovenca, il parto suo lattante Se divelle da lei destra rubella, Mugge in suon di pietà, nè par bastante A sostenere il duol che la flagella; Replica il suo muggir l'Eco sonante, Ed, ingannata, a lei risponde anch'ella, E, ovunque il passo incerto o l'occhio [va. Null' altro, oltre il suo duolo, ella non tro-
Ma Salomon che alla difficil prova Giunse a scevrar dal grano eletto il loglio, Fu alla madre verace estiva piova, [glio: Che irrora il campo d' erbe e fronde spoA lei consegna il figlio, e a vita nova Chiama quell' infelice. Indi dal soglio D'un torvo sguardo fulmina l'altera Ingannatrice donna e menzognera.
Così il Signor che sulle cose impera Piove virtù su' Prenci della terra, E fra le sirti e la procella nera Gli guida in salvo dopo lunga guerra. Sapienza nel Re di Solim' era Che gli arcani reconditi disserra, Ed oggi pur chi v'è tra noi che ignora, Che vanta un Salomon la Parma ancora?
O L'ASSEDIO DI ROMA.
Torvo guato, fremè, le man si morse, Quando Porsenna in disastrosa lutta Sul contrastato ponte vide opporse Orazio sol contro Toscana tutta; Però dall' alte mura il piè non torse, Ma la Cittade ad ogni mal ridutta Strinse d'assedio, e minacciò ruina Alla nascente libertà latina.
Allor si fu che la Città reina De' sette colli impallidi all'aspetto Della temuta schiavitù vicina, Scalza il piè, rasa il crin, livida il petto; E le Ninfe dell' onda tiberina
Spaventate lasciaro il patrio letto; Tremar Numa e Quirino, e fioca e mesta Fulse la fiamma sull' altar di Vesta. Come suol per nembifera tempesta Rotolar quercia giù nell'ima valle, Che per lunga stagion l'altera testa Innalzò d'Appennin sovra le spalle, Roma cadrà, se fia che anco la investa L'oste toscana; e dell' infamia il calle Calcar dovrà, ricinta di ritorte, E soffrir servitù peggior che morte.
Chi se' tu, ardito giovane? Che porte? Che furtivo erri nelle tosche tende? Libertà a Roma, a' suoi nemici morte, Ed astro par, che ratto passa e splende. Va, secondi tua impresa amica sorte, Se libertà, se patrio amor t'accende; Va, feri, uccidi; e, se fia mai soccomba, Tu in un col nome non andrai alla tomba. Qual uom, squarciato il sen, sul terren piomba?
Ah che il colpo falli! Porsenna è in vita; E Muzio fia che al rigor suo soccomba, Che ai satelliti suoi col cenno addita? Come sciame di pecchie, allor cheromba Delle cerate celle sull' uscita, E caggion tutte sopra il timo a volo, Tal su Muzio piombò l'etrusco stuolo. Ma l'intrepido là dove dal suolo Un'ara sacra a' patrj Dei s'estolle, Gitta la man che per suo scorno è solo D'inutil sangue ancor fumante e molle: Biforcuta la fianıma s'erge a volo, Stridon le carni qual ferro che bolle, E pe' nervi contratti monco e vôto Fassi il braccio, e la man non ha più moto. Meraviglia Porsenna, e sembra immoto Simulacro che artefice scolpio; Quindi, all' esempio di fortezza ignoto, Meno un uomo mirar crede, che un Dio; Ode ch'ei dice: Se il mio colpo a vôto Cadde, altri emendar debbe il fallo mio : Trema, ove tu non tolga a noi il conflitto; È il tuo morir di note in sangue scritto. D'Etruria il Rege vincitore è vitto Dalla virtù di Scevola; a' suoi lari Lui libero ritorna, ed il prescritto Giorno di tregua attende agli odj amari. Ecco in ostaggio stuol di donne afflitto, Non legato d' Imène a' sacri altari; Clelia ivi splende, qual, coll'arco accanto, Fra le Vergini Cintia in Erimanto.
La Notte in cielo astrifera col manto Copria le cose; ogni color tacea :
Dormia il campo toscan, ma desta al pianto La Vergine latina non giacea;
Il patrio amor che le vegliava accanto Maturando in lei gia la grande idea Di sacra libertade; ed ella poi, Con l'altre figlie de' Quiriti eroi,
Al Tebro giunge, ove co' flutti suoi Rompe illido, al destrier premendo il dorE alle compagne sue grida : Di voi, [so, Chi dopo me primiera tenta il corso? Schiva di servitù grand' alma in noi Porsenna ammiri; e, ciò dicendo, il morso Scote al destrier, che con lena affannata Si volge all' onda perigliosa, e guata.
Ma la Virago omai l'onda invocata Romper gli fa, calda di patrio affetto; Nuot'ei con l'unghia solida, ferrata, Il fiume parte con l'equino petto. Dall' intrepida Vergine scortata, Fida ciascuna al nuoto e tenta il letto; Ecco, o m' inganno? Ecco all'opposto lido Giunger costor salve dal varco infido.
Porsenna è vinto; omai vinto è nel grido Della virtù de' figli di Quirino; Scioglie l'assedio, e nell' etrusco lido Rifugge, e in pace lascia il suol latino. Oh! patrio amor, presidio all' alme fido! Se' tu maggior di Giove e del Destino; Roma si crebbe e il Genio suo guerriero, A cui vinto, soggiacque il mondo intero.
O delle sfere
Regolatrice, Prima motrice
Di quant'è al suol, Dolce Armonia Di ciel raggiante, L'inno volante Consacro a te.
Per te le cose Furon prodotte; Tenebre e notte Si dileguar,
Quando emergesti Dal caos informe, E leggi e forme Tutto piglio.
Mentre si scontrano La luna e il sole, Fra lor parole Tengon di te.;
Di te ragionano Gli astri e le sfere,
Che il tuo potere Armonizzò.
Se la flessanime Cetra tu tempri, Lo sdegno attempri Del sordo mar.
È il tuo sorriso Riso invocato : Del vento irato Calma il furor.
Tu al Nume accanto Eri indivisa, Quando improvvisa Luce brillo;
E l'alba rosea, Di luce ingombra, L'inerzie e l'ombra Co' rai fugò.
Quando si scontrano Nelle carole, La luna e il sole, Parlan di te.
Di te ragionano Gli astri e le sfere; Tu alle bufere Recidi il vol.
A quanto vive Vita tu sei, Bella tra' Dei, Bella sul suol.
Diva Armonia Di ciel raggiante, L'inno volante Consacro a te.
Senza il tuo Nume L'antiche forme Al caos informe Dovrian tornar; E dall' arcana Legge disciolto Andrà travolto Con gli astri il sol. Per te s'imporpora Il ciel ridente, E al verno algente Succede April.
Per te settemplice Color riveste L'Iri celeste
Dal curvo pie.
Per te già gli uomini Duri e selvaggi
Fur sc ossi a' raggi Di tua beltà.
Si fer connubj, E in varj modi Fur stretti i nodi Di società.
O bella Diva
Del Nume prole, La luna e il sole Parlan di te. Raggio di cielo Ti fulge in viso, Ed hai il sorriso Di gioventù.
Ove tu movi Tutto si abbella; Tu alla procella Recidi il vol.
Tue lodi suona, Mentre s'aggira, La sacra lira
Che splende in ciel. O pura, o candida Celeste idea Di Dio che bea
L'immenso suol: Sacra Armonia
Di ciel raggiante, L'inno volante Consegno a te.
Rinaldo, l'inclito fra gli altri forti.
Il solitario Signor di Manto L'accolse lieto, gli diede ospizio, E a mensa splendida sel pose accanto. Ma l'inamabile tazza alfin venne, E, al Paladino rivolto, l'ospite Questo in suon flebile sermon gli tenne:
Se al nappo fulgido, Signor, berrai, Fedel l'obbietto sarà che infiammati; Ma, s'egli è perfido, ber non potrai. Rimase attonito il Paladino; Quindi la tazza prendendo, il cupido Labbro ad immergervi era vicino. [le, Ma, perchè dubita che il sen gli ammol- Grido: Ch'io cerchi sicuro indizio D'alto rammarico geloso e folle?
No, abbominevole licore infame! S'è la mia donna fida o colpevole Per te conoscere non fia che brame:
Tu del magnanimo di monte Albano Da saggio imita l'accorto esempio, Ne sia mia favola narrata in vano.
LA TAZZA INCANTATA. Rintracciar mediti ciò che paventi? E vuoi nel bujo de' fati leggere Gli occulti agli uomini arcani eventi ?
Tal brama improvvida fuga dal core; Sai che nel petto d'amabil giovane Raro è che alberghino fede ed amore. Narra l'Italico divino Omero Che un nappo aurato di tempre magiche Avea di Mantova un cavaliero.
Melissa offersegli la tazza rea Di tal licore, che delle femmine Il genio e l'indole scoprir solea.
Tazza venefica di risse fonte!
Che i Demon fabbri laggiù temprarono All' onda torbida di Flegetonte.
Un di all' Eridano guidar le Sorti Del magno Carlo l'appoggio stabile,
Che scotendo vai le piume, Malaccorta, intorno al lume, Che poi morte ti darà :
Se la fiamma
Che s'infiamma, Ed in alto sempre sale, A tarpar ti giunge l'ale, Ah! di te che mai sarà?
Che già s' armi Veder parmi Quella face che t'invita: Già ti veggo incenerita Dal tuo barbaro destin!
Qual diletto, Quale affetto Mal' acceso in sen ti posa, Onde scherzi, baldanzosa, Di tua morte sul confin?
Alla face, Troppo audace, T'appressasti, e nel tuo volo Trovi il fato, perchè solo Nol curasti di fuggir.
Or l'inganno Nel tuo danno
Tu comprendi appien, ma tardi, Che nel vago lume, ond' ardi, Ti conviene alfin perir. Infelice,
Cui non lice
Evitar si ria fortuna!
Già per te la stanza imbruna, Già cominci a vacillar.
Or circondi in cento rote; Di vigor l'ali son vôte, E ti senti, oh Dio! mancar. Quanto fora
Meglio a te volar raminga Fra la siepe che solinga Da ria man difende il suol?
Sulla rosa Rugiadosa Correrebbe un bel fanciullo, A tracciar per suo trastullo Il tuo vago e instabil vol.
Al vicino Gelsomino Fuggitiva poi ne andresti, E il fanciullo ti vedresti Inseguir di fiore in fior.
Ma per gioco Presso il foco
T' aggirasti malaccorta ; Onde alfin restasti assorta Nell' amabile splendor.-
Folle un core
Che in amore
Fatto servo è d'un bel volto, Di te già non è men stolto, E dissimile non è;
Ma là ratto
Ciascun tratto
È ove guidalo il costume : La Farfalla corre al lume, E Fileno, o Clori, a te.
Un arruffato Gufo, Astuto cortigian, d'Aquila altera
In tanto favor venne,
Che il primo loco ne' consigli tenne. Ella, benché lo sguardo, Al Ciel poggiando su robuste piume, Fissasse al solar lume,
Corto e losco l'avea del Gufo al fianco, Che il nero a lei veder facea per bianco. E perchè s'accompagna Sempre turpe malizia a cor rubello, Ogni leggiadro augello
Da lei tenne lontan, nè fu concesso Di rimirar dappresso
Dell'eccelsa Reina i fulgid' occhi, Che alla stupida schiera degli allocchi. Musico Usignuoletto Peregrinando intanto,
Il volo ripiegò nell'alta selva, Appunto colà dove
Seggio tenea l'augel diletto a Giove. Ivi giunto, fra' rami S'assise, e si com'era
Dotto nel modular dolci concenti, E l'eco e l'onde e i venti, Gorgheggiando, invaghi. Dal molle tuf L'udi fremendo il Gufo, E dall'impuro rostro Versò bava e veleno : Tanto livor può di vil Gufo in seno! Che fè l'empio? Ricorse Alla cognita frode, e l'ira tacque: Ma quando in petto nacque All'Aquila disio
D'ascoltar l'augellin dolce e soave, Ei sul capo le penne Arricció, ad arte inorridito, e quindi, Come chi zelo sforza
A svelar cosa che tacer vorria, Stralunando gli occhiacci, a lei si vulse, E la lingua maledica disciolse. Oh che sent' io! l'altera Vostra mente abbassar degnate a questi Vani diletti? E fra i pensier del regno Avrà pur anco loco
Il canto d'un augel garrulo e roco? Pur se vi aggrada venga Il selvaggio cantor... però s'io fossi Al loco in che sedete,
Io allora... ah! se intendete,
A che dirvi di più? Mi guardi il Cielo (lo, Che altrui voglia infamar... ma il puro ze Il mio dover... E qui, atteggiato in att D'ipocrita modestia,
Fra il rostro mormorò: che mala bestia ¦-Impaziente la Reina volle
Un gran signor, di cui non so il casato, A sè fatto venire un dipintore, Disse che in certa sala avria bramato Simbolo nuovo di fraterno amore.
Il pover' uom, che si trovò impacciato, Pinse due somarelli di buon cuore, Che alle reni dell'un l'altro appoggiato, Grattavansi a vicenda il pizzicore.
Io non avrei dipinto in quella scena, Per far cosa che fosse a ognun piaciuta, Due somari che grattansi la schiena;
Ma un'altra carità men conosciuta, Due poeti che fanno all' altalena, Per lodarsi l'un l'altro a muta a muta.
Lassa! che al core i' mi credca dar vanto Che mi tenesse incontro amor sicura; Aspra vendetta di me feo natura, Poich' or senza pietà mi struggo in pianto.
Morte crudel, che ogni bell' opra fura, Rapi 'l mio sole, e dissipò l'incanto, E le forme leggiadre e il dolce canto Solo memoria son di mia sventura.
Per erme piagge vo movendo i passi; Ma in ogni dove la ferita porto, Perchè i miei giorni fian tra poco spenti;
E chiedo all'aure, all'erbe, ai fonti, ai sassi
L'infelice cagion de' miei tormenti... Misera invano! il mio bel grillo è morto.
AL SIGNOR ABATE G. BARBIERI. SERMONE SCRIitto il di delle ceneri. Parlasi in esso delle ultime scene d'un carnovale.
Mute sono le vie : tuona ne' templi Penitenza; e come uno ad uscio fassi Od a finestra, più non vede in frotta Correr le genti, con cerate tele Travisate la faccia; anzi que' dessi Che jeri udisti le facezie stolte Dello Zanni imitar, o'ngonnellati Sesso mentir vedesti, e in su le piazze Esser zimbello della impronta plebe, Uomini da faccende, alle consorti Ed a' figliuoli di contenenza e senno Sputan oggi sentenze. Oh strana forza
« ÖncekiDevam » |