Anni le sembra il tuo tardar poch' ore. E tempo omai, che i tuoi valletti al dorso Con lieve man ti adattino le vesti, Cui la Moda e 'l Bongusto in su la Senna Tabbian tessute a gara, e qui cucite Abbia ricco sartor, che in su lo scudo Mostri intrecciato a forbici eleganti Il titol di Monsieur. Non sol dia leggi A la materia la stagion diversa; [ora, Ma sien, qual si conviene al giorno e all' Sempre vari il lavoro e la ricchezza (c).
Fero Genio di Marte, a guardar posto De la stirpe de' Numi il caro fianco, Tu al mio giovane Eroe la spada or cingi, Lieve e corta non già, ma, qual richiede La stagion bellicosa, al suol cadente, E di triplice taglio armata e ďelsa, Immane. Quanto esser può mai sublime L'annoda pure; onde l'impugni all'uopo La furibonda destra in un momento; Se disdegnar con le sanguigne dita Di ripulire ed ordinar quel nodo, Onde l'elsa e superba : industre studio E di candida mano; al mio Signore Dianzi donollo, e gliel appese al brando La pudica d'altrui sposa, a lui cara. Tal del famoso Artù vide la corte Le infiammate d'amor donzelle ardite Ornar di piume e di purpuree fasce I fatati guerrieri; onde più ardenti Gisser poi questi ad incontrar periglio In selve orrende tra i giganti e i mostri. Figlie de la Memoria, inclite Suore, Che invocate scendeste, e i feri nomi De le squadre diverse e de gli Eroi Annoveraste a i Grandi, che cantaro Achille, Enea e il non minor Buglione : Or m'e duopo di voi : tropp'ardua impresa, E insuperabil senza vostr❜aita, Fia ricordare al mio Signor di quanti Leggiadri arnesi gravera sue vesti, Pria che di se medesmo esca a far pompa. Ma qual tra tanti e si leggiadri arnesi Si felice sarà, che pria d'ogni altro, Signor, venga a formar tua nobil soma? Tutti importan del par. Veggo l'astuccio, Di pelle rilucente ornato e d'oro, Sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero Occupar di sua mole: esso a mill' uopi Opportuno si vanta; e in grembo a lui, Atta a gli orecchi, a i denti, a i peli,
Vien forbita famiglia. A lui contende I primi onori, d'odorifer' onda
Colmo cristal, che a la tua vita in forse Rechi soccorso, allor che il vulgo ardisce Troppo accosto vibrar dá la vil salma Fastidiosi effluvi a le tue nari. Ne men pronto di quella all' uopo istesso L'imitante un cuscin, purpureo drappo Mostra turgido il sen d'erbe odorate, Che l'aprica montagna in tuo favore Al possente meriggio educa e scalda. Seco vien pur di cristallina rupe Prezioso vasello: inde traluce Non volgare confetto, ove a gli aromi Stimolanti s'unío l'ambra, o la terra, Che il Giappon manda a profumar de' Grandi
L'etereo fiato; o quel che il Caramano Fa gemer latte dall'inciso capo De' papaveri suoi; perchè, qualora Non ben felice amor l'alma t'attrista, Lene serpendo per le membra, acqueti A te gli spirti, e ne la mente induca Lieta stupidità, che mille aduni Imagin dolci, e al tuo desio conformi. A questi arnesi il cannocchiale aggiugni, E la guernita d'oro Anglica lente. Quel, notturno favor ti presti allora Che in teatro t'assidi, e t'avvicini Gli snelli piedi e le canore labbra Da la scena rimota; o con maligno Occhio ricerchi di qualch' alta loggia Le abitate tenébre; o miri altrove Gli ognor nascenti e moribondi amori De le tenere Dame; onde s' appresti Per l'eloquenza tua nel di vicino Lunga e grave materia. A te la lente Nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi Economa presieda; e si li parta, Che il mirato da te vada superbo: Ne i malvisti accusarti osin giammai. La lente ancora, all'occhio tuo vicina, Irrefragabil giudice condanni,
O approvi di Palladio i muri e gli archi, O di Tizian le tele. Essa a le vesti, A i libri, a i volti femminili applauda Severa, o li dispregi. E chi del senso Comun si privo fia, che opporsi unquanco Osi al sentenziar de la tua lente? Non per questi però sdegna, o Signore, Giunto a lo specchio, in gallico sermone Il vezzoso Giornal; non le notate, Eburnee tavolette, a guardar preste Tuoi sublimi pensier, fin ch'abbian luce Doman tra i begli spirti ; e non isdegna La picciola guaína, ove a' tuoi cenni
Mille stan pronti ognora argentei spilli. Oh quante volte a cavalier sagace Ho vedut'io le man render beate Uno apprestato a tempo, unico spillo! Ma dove, ahi dove inonorato e solo Lasci 'l coltello, a cui l'oro e l'acciaro Donår gemina lama; e a cui la madre De la gemma più bella d'Anfitrite Die manico elegante, ove il colore Con dolce variar l'iride imita? Opra sol fia di lui, se ne' superbi Convivii ognaltro avanzerai per fama D'esimio trinciatore; e se l'invidia De' tuoi gran pari ecciterai, qualora, Pollo o fagian con la forcina in alto Sospeso, a un colpo il priverai dell' anca Mirabilmente. Or ti ricolmi al fine D'ambo i lati la giubba ed oleoso Spagna e Rape, cui semplice origuela Chiuda, o a molti colori oro dipinto; E cupide ad ornar tue bianche dita Salgan le anella, in fra le quali, assai Più caro a te dell' adamante istesso, Cerchietto, inciso d'amorosi motti, Stringati alquanto, e sovvenir ti faccia De la pudica altrui sposa, a te cara.
Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signo- Sonar già intorno la ferrata zampa [re, De' superbi corsier, che irrequieti Ne' grand' atrii sospigne, arretra e volge La disciplina dell' ardito auriga. Sorgi, e t' appresta a render baldi e lieti Del tuo nobile incarco i bruti ancora. Ma a possente Signor scender non lice Da le stanze superne, infin che al gelo O al meriggio non abbia il cocchier stanco Durato un pezzo; onde l'uom servo intenda Per quanto immensa via natura il parta Dal suo Signore. I miei precetti intanto Io seguiro; che varie al tuo mattino Portar dee cure il variar de i giorni.
Tal di ti aspetta d'eloquenti fogli Serie a vergar, che al Ródano, al Lemáno, All' Amstel, al Tirreno, all' Adria legga Il libraio, che Momo e Citeréa Colmar di beni; o il più di lui possente Appaltator di forestiere scene, Con cui per opra tua facil donzella Sua virtu merchi, e non sperato ottenga Guiderdone al suo canto. Oh di grand'alma Primo fregio ed onor, Beneficenza, Che al merto porgi ed a virtù la mano! Tuil ricco e il grande sopra il vulgo innalzi; Ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.
Tal giorno ancora, o d'ogni giorno forse Den qualch' ore serbarsi al molle ferro, Che il pelo a te, rigermogliante a pena, D'in sula guancia miete; e par che invidii, Ch' altri, fuor che lui solo, esplori o scopra Unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorChe di lavacro universal convienti [no, Bagnar le membra, per tua propria mano O per altrui con odorose spugne Trascorrendo la cute. È ver, che allora D'esser mortal ti sembrerà; ma innalza Tu allor la mente; e de' grand' avi tuoi Le imprese ti rimembra e gli ozii illustri, Che infino a te per secoli cotanti Misti scesero al chiaro, altero sangue; E l'ubbioso pensier vedrai fuggirsi Lunge da te per l'aëre rapito Sull' ale de la Gloria alto volanti; Ed indi a poco sorgerai, qual prima, Gran Semideo, che a sè solo somiglia. Fama è così, che il di quinto le Fate Loro salma immortal vedean coprirsi Già d'orribili scaglie, e in feda serpe Volta strisciar sul suolo, a se facendo De le inarcate spire impeto e forza; Ma il primo Sol le rivedea più belle Far beati gli amanti, e a un volger d'occhi Mescere a voglia lor la terra e il mare.
Fia d'uopo ancor, che da le lunghe cure T'allevii alquanto, e con pietosa mano Il teso per gran tempo arco rallenti. Signore, al ciel non è più cara cosa Di tua salute; e troppo a noi mortali È il viver de' tuoi pari util tesoro. Tu adunque, allor che placida mattina Vestita riderà d'un bel sereno, Esci pedestre; e le abbattute membra All' aura salutar snoda e rinfranca. Di nobil cuoio e te la gamba calzi Purpureo stivaletto; onde il tuo piede Non macchino giammai la polve e'l limo, Che l'uom calpesta. A te s' avvolga in
De le licenziose aure in balía. Son senz'arte però vada negletto Sa gli omeri a cader; ma o che natura A te il nodrisca; o che da ignota fronte Il più famoso parrucchier lo tolga, E l'adatti al tuo capo : in sul tuo capo Ripiegato l'afferri e lo sospenda Con testugginei denti il pettin curvo.
Doi che in tal guisa te medesmo ornato Con artificio negligente avrai, Esci pedestre a respirar talvolta L'aere mattutino; e ad alta canna Appoggiando la man, quasi baleno Levie trascorri, e premi, ed urta il volgo, Che s'oppone al tuo corso. In altra guisa Fora colpa l'uscir; però che andriéno Mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Cio ti basti per or. Gia l'oriolo A girtene ti affretta. Ohime! che vago Arsenal minutissimo di cose Ciondola quindi, e ripercosso insieme Molce con soavissimo tintinno!
Di costi che non pende? Avvi per fino Piccioli cocchi e piccioli destrieri, Finti in oro così, che sembran vivi. Ma v'hai tu il meglio? Ah sì, che i miei precetti
Sagace prevenisti: ecco che splende, Chiuso in picciol cristallo, il dolce pegno Di fortunato amor. Lunge, o profani; Che a voi tant' oltre penetrar non lice. E voi, dell' altro secolo feroci Ed ispid'avi, i vostri almi nipoti Venite oggi a mirar. Co' sanguinosi Pugnali a lato le campestri rocche Voi godeste abitar, truci all'aspetto, E, per gran baffi, rigidi la guancia, Consultando gli sgherri, e sol gioiendo Di trattar l'arme, che d'orribil palla Givan notturne a traforar le porte Del non meno di voi rivale armato. Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno Ad agitar fra le tranquille dita Dell' oriolo i ciondoli vezzosi; Ed opra e lor, se all'innocenza antica Torna pur anco, e bamboleggia il mon- do (d).
Or vanne, o mio Signore; e il pranzo allegra
De la tua Dama : e lei dolce ministro Dispensa i cibi, e detta al suo palato E a la sua fame inviolabil legge. Ma tu non obliar, che in nulla cosa Esser mediocre a gran Signor non lice.
Abbia il popol confini : a voi natura Donò senza confini e mente e cuore. Dunque a la mensa o tu schifo rifuggi Ogni vivanda, e te medesmo rendi Per inedia famoso; o nome acquista D'illustre voratore. Intanto addio, De gli uomini delizia, e di tua stirpe E de la patria tua gloria e sostegno. Ecco che umíli in bipartita schiera T'accolgono i tuoi servi. Altri già pronto Via se ne corre ad annunciare al mondo, Che tu vieni a bearlo; altri a le braccia Timido ti sostien, mentre il dorato Cocchio tu sali, e tacito e severo Sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo; E cedi il passo al trono, ove s'asside Il mio Signore: ahi te meschin, s' ei perde Un sol per te de' preziosi istanti! Temi'l non mai da legge, o verga, o fune Domabile cocchier; temi le rote,
Che già più volte le tue membra in giro Avvolser seco, e del tuo impuro sangue Corser macchiate, e il suol di lunga stris- Spettacol miserabile! segnâro.
(a) FASTIDIATI la mente; o di lugubri Panni ravvolto il garrulo forense, Cui de' paterni tuoi campi e tesori Il periglio s' aftida; o il tuo castaldo, Che già con l'alba a la città discese, Bianco di gelo mattutin la chioma. Così zotica pompa i tuoi Maggiori Al di nascente si vedean dintorno. Ma tu, gran prole, in cui si feo, scendendo, E più mobile il senso e più gentile, Ah! sul primo tornar de' lievi spirti All'ufficio diurno, ah! non ferirli D'imagini sì sconce. Or come i detti Di costor soffrirai barbari e rudi; Come il penoso articolar di voci Smarrite, titubanti al tuo cospetto; E tra l'obliquo profondar d'inchini, Del calzar polveroso in sa i tappeti Le impresse orme indecenti?... (b) Ogni cosa è già pronta. All'un de' lati Crepitar s'odon le fiammanti brage, Ove si scalda industrioso e vario Di ferri arnese a moderar del fronte Gl'indocili capei. Stuolo d' Amori Invisibil sul foco agita i vanni;
E per entro vi soffia, alto gonfiando Ambe le gote. Altri di lor v' appressa Pauroso la destra, e prestamente Ne rapisce un de' ferri. Altri, rapito, Tenta com' arda, in sull' estrema cima
Sospendendol dell' ala; e cauto attende Pur, se la piuma si contragga o fume. Altri un altro ne scote, e de le ceneri Filigginose il ripulisce e terge. Tali a le vampe dell' Etnea fucina, Sorridente la madre, i vazhi Amori Eran ministri all'ingegnoso fabbro; E sotto a i colpi del martel frattanto L'elmo sorgea del fondator Latino. All' altro lato con la man rosata Como e di fiori inghirlandato il crine, I bissi scopre, ove d' Idalii arredi Almo tesor la tavoletta espone. Ivi e nappi eleganti e di canori Cigni morbide piume; ivi raccolti Di lucide, odorate onde vapori; Ivi di polvi, fuggitive al tatto, Color diversi ad imitar d'Apollo L'aurato biondo, o il biondo cenerino, Che de le sacre Muse in su le spalle Casca ondeggiando tenero e gentile. Che se a nobile eroe le fresche labbra Repentino spirar di rigid' aura Offese alquanto, v'è stemprato il seme De la fredda cucurbita; e se mai Pallidetto ei si scorga, è Arcano a gli altri eroi, vago cinabro. Nè quando a un semideo spuntar sul volto Pustula temeraria osa pur fosse, Multiforme di nei copia vi manca, Ond' ei l'asconda in sul momento, ed esca Più periglioso a saettar co i guardi Le belle inavvedute, a guerrier pari, Che, già poste le bende a la ferita, Più glorioso e furibondo insienie, Sbaragliando le schiere, entra nel folto.
(c) Vieni, o fior de gli eroi; vieni; e qual suole Nel più dubbio de' casi alto monarca Avanti al trono suo convocar lento Di satrapi concilio, a cui nell' ampia Calvizie de la fronte il senno appare; Tal di limpidi spegli a un cerchio in mezzo Grave t'assidi, e lor sentenza ascolta. Un, giacendo al tuo pie, mostri qual deggia Liscia e piana salir su per le gambe La docil calza; un sia presente al volto; Un dietro al capo; e la percossa luce Quinci e quindi tornando, a un tempo solo Tutto al giudizio de' tuoi guardi esponga L'apparato dell' arte. Intanto i servi A te sudino intorno; e qual, piegate Le ginocchia in sul suol, prono ti stringa Il molle piè di lucidi fermagli;
E qual del biondo crin, che i nodi eccede, Su la schiena ondeggiante, in negro velo 1 tesori raccoglia; e qual già pronto Venga spiegando la nettarea veste. Fortunato garzone, a cui la Moda, In fioriti canestri e di vermiglia Seta coperti, preparò tal copia D'ornamenti e di pompe! Ella pur jeri A te dono ne feo. La notte intera Faticaron per te cent' aghi e cento, E di percossi e ripercossi ferri
Per le tacite case andò il rimbombo: Ma non in van; poi che di novo fasto Oggi superbo nel Bel Mondo andrai; F per entro l'invidia e lo stupore Passerai de' tuoi pari, eguale a un dio, Folto bisbiglio sollevando intorno.
(d) Volgi, o invitto campion, volgi tu pure Il generoso piè dove la bella, E de gli eguali tuoi scelto drappello Sbadigliando t'aspetta all' alte mense. Vieni; e, godendo, nell' uscire il lungo Ordin superbo di tue stanze ammira.
Or già siamo all' estreme: alza i bei lumi A le pendenti tavole vetuste,
Che a te de gli avi tuoi serbano ancora Gli atti e le forme. Quei, che in duro dante Strigne le membra, e cui sì grande ingombra Traforato collar le grandi spalle,
Fu di macchine autor; cinse d'invitte Mura i Penati; e da le nere torri Signoreggiando il mar, verso le aduste Spiagge la predatrice Africa spinse. Vedi quel magro, a cui canuto e raro Pende il crin da la nuca ; e l'altro, a cui Su la guancia pienotta e sopra il mento Sérpe triplice pelo? Ambo s' adornano Di toga magistral, cadente a i piedi. L'uno a Temi fu sacro : entro a' licei La gioventù pellegrinando ei trasse A gli oracoli suoi ; indi sedette Nel senato de' padri; e, le disperse Leggi raccolte, ne fe' parte al mondo: L'altro sacro ad Igea. Non odi ancora Presso a un secol di vita il buon vegliardo Di lui narrar quel che da' padri suoi Nonagenari udì, com' ei spargesse Su la plebe infelice oro e salute, Pari a Febo suo nume? Ecco quel grande, A cui sì fosco parruccon s'innalza Sopra la fronte spaziosa, e scende Di minati botton serie infinita Lungo la veste. Ridi? Ei novi aperse Studi a la patria; ei di perenne aita I miseri dotò; portici e vie Stèse per la cittade; e da gli ombrosi Lor lontani recessi a lei dedusse Le pure onde salubri; e ne' quadrivi E in mezzo a gli ampli fòri alto le fece Salir scherzando a rinfrescar la state, Madre di morbi popolari. Oh come Ardi a tal vista di beato orgoglio, Magnanimo garzon! Folle! A cui parlo? Ei già più non m'ascolta: odiò que' ceffi Il suo sguardo gentil; noia lui prese Di sì vieti racconti ; e già s'affretta Giù per le scale impaziente. Addio, De gli uomini delizia, ec.
ARDIRò ancor tra desinari illustri Sal meriggio innoltrarmi umil cantore; Poi che troppa di te cura mi punge, Signor, ch'io spero un di veder maestro E dittator di graziosi modi All'alma gioventù, che Italia onora.
Tal fra le tazze e i coronati vini, Onde all'ospite suo fe' lieta pompa La Punica Regina, i canti alzava Jopa crinito: e la Regina intanto Da' begli occhi stranieri iva beendo L'oblivion del misero Sichéo.
E tale allor che l'orba Itaca in vano Chiedea a Nettun la prole di Laerte, Femio s'udía co' versi e con la cetra La facil mensa rallegrar de' Proci, Cni dell'errante Ulisse i pingui agnelli Ei petrosi licori e la consorte Invitavano al pranzo. Amici or piega, Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi, Or che tra nuove Elise e novi Proci, E tra fedeli ancor Penelopée, Ti guidano a la mensa i versi miei. [do,
Gia dal meriggio ardente il Sol fuggen- Verge all'occaso; e i piccioli mortali, Dominati dal tempo, escon di novo A popolar le vie ch'all'oriente Volgon ombra già grande. A te null' altro Dominator, fuor che te stesso, è dato.
Al fin di consigliarsi al fido speglio La tua Dama cessó. Quante uopo è volte Chiedette e rimandò novelli ornati ; Quante convien, de le agitate ognora Damigelle or con vezzi, or con garriti Rovescio la fortuna ; a sè medesma, [que; Quante volte convien, piacque e dispiacE. quante volte è d'uopo, a sè ragione Fece e a' suoi lodatori. I mille intorno Dispersi arnesi al fin raccolse in uno La consapevol del suo cor ministra ; Al fin velata d'un leggier zendado É Para tutelar di sua beltate; E la seggiola sacra un po' rimossa, Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa Pochi giovani eroi van rimembrando I cari lacci altrui ; mentre da lungi, A altra intorno, i cari lacci vostri Pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
A le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto, Del tuo lungo tardar solo si cruccia. Nulla però di lui cura te prenda Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo Prostro l'anima imbelle, e non sdegnosse Di chiamarsi marito, a par del vulgo Senta la fame esercitargl' in petto Lo stimol fier de gli ozïosi sughi, Avidi d'esca; o s'a un marito alcuna D'anima generosa orma rimane, Ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra Dama al fianco s'assida, il cui marito Pranzi altrove lontan, d'un' altra a lato, Ch'abbia lungi lo sposo e così nuove Anella intrecci a la catena immensa, Onde, alternando, Amor l' anime annoda.
Ma, sia che vuol, tu baldanzoso innoltra Ne le stanze più interne. Ecco, precorre Per annunciarti al gabinetto estremo Il noto stropiccio de' piedi tuoi. Già lo sposo l'incontra. In un baleno Sfugge dall' altrui man l'accorta mano De la tua Dama; e il suo bel labbro intanto T'apparecchia un sorriso. Ognun s'ar- retra;
Chè conosce i tuoi dritti ; e si conforta Con le adulte speranze, a te lasciando Libero e scarco il più beato seggio. Tal colà, dove infra gelose mura Bizanzio ed Ispaán guardano il fiore De la beltà, che il popolato Egéo Manda e l'Armeno e il Tartaro e il Circasso Per delizia d'un solo, a bear entra L'ardente sposa il Munsulmano. grave Tra 'l maestoso passeggiar gli ondeggiano Le late spalle, e sopra l'alta testa Le avvolte fasce; dell' arcato ciglio Ei volge intorno imperioso il guardo; E vede al su' apparire umil chinarsi, E il piè ritrar l' effeminata, occhiuta Turba, che sorridendo egli dispregia.
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera Si dispongan tue grazie ; e a la tua Dama, Quanto elegante esser più puoi, ti mostra. Tengasi al fianco la sinistra mano Sotto il breve giubbon celata ; e l'altra Sul finissimo lin posi, e s'asconda Vicino al cor; sublime alzisi 'l petto; Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei Piega il duttile collo; a i lati stringi Le labbra un poco; ver lo mezzo acute Rendile alquanto; e da la bocca poi, Compendiata in guisa tal, se n'esca
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