Un non inteso mormorío. La destra Ella intanto ti porga, e molle caschi Sopra i tiepidi avorii un doppio bacio. Siedi tu poscia; e d'una man trascina Più presso a lei la seggioletta. Ognuno Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto, Seco susurra ignoti detti, a cui Concordin vicendevoli sorrisi, E sfavillar di cupidette luci,
Che amor dimostri, o che lo finga almeno. Marimembra, o Signor, che troppo nuo- Ne gli amorosi cor lunga e ostinata [ce Tranquillità. Sull' oceáno ancora Perigliosa è la calma : oh quante volte Dall'immobile prora il buon nocchiere Invocó la tempesta! e sì crudele Soccorso ancor gli fu negato; e giacque Affamato, assetato, estenuato,
Dal velenoso aere stagnante oppresso, Tra l'inutile ciurma al suol languendo. Però ti giovi de la scorsa notte Ricordar le vicende, e con obliqui Motti pungerl' alquanto: o se, nel volto Paga più che non suole, accor fu vista Il novello straniere, e co' bei labbri Semiaperti aspettar, quasi marina Conca, la soavissima rugiada
De' novi accenti; o se cupida troppo Col guardo accompagno di loggia in loggia Il seguace di Marte, idol vegliante De' femminili voti, a la cui chioma Col lauro trionfal s' avvolgon mille E mille frondi dell' Idalio mirto.
Colpevole o innocente, allor la bella Dama improvviso adombrerà la fronte D'un nuvoletto di verace sdegno O simulato; e la nevosa spalla Scoterà un poco; e premerà col dente L'infimo labbro; e volgeransi al fine Gli altri a bear le sue parole estreme. Fors' anco rintuzzar di tue querele Saprà l'agrezza; e sovvenir faratti Le visite furtive a i tetti, a i cocchi Ed a le logge de le mogli illustri Di ricchi cittadini, a cui sovente, Per calle, che il piacer mostra, piegarsi La maestà di cavalier non sdegna.
Felice te, se mesta e disdegnosa La conduci a la mensa, e s'ivi puoi Solo piegarla a comportar de' cibi La nausea universal! Sorridan pure A le vostre dolcissime querele I convitati, e l'un l'altro percota Col gomito maligno: ah, nondimeno,
Come fremon lor alme; e quanta invidia Ti portan, te veggendo unico scopo Di si bell' ire! Al solo sposo è dato Nodrir nel cor magnanima quiete; Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto Docil fidanza ne le innocue luci.
Oh tre fiate avventurosi e quattro, Voi del nostro buon secolo mariti, Quanto diversi da' vostr' avi! Un tempo Uscía d'Averno con viperei crini, Con torbid' occhi irrequieti, e fredde Tenaci branche un indomabil mostro, Che ansando e anelando intorno giva A i nuziali letti, e tutto empica Di sospetto e di fremito e di sangue. Allor gli antri domestici, le selve, L'onde, le rupi alto ulular s'udiéno Di femminili strida; allor le belle Dame, con mani incrocicchiate e luci Pavide al ciel, tremando, lagrimando, Tra la pompa feral de le lugubri Sale, vedean dal truce sposo offrirsi Le tazze altossicate o i nudi stili. Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo Oltre l'alpi, oltre 'l mar destò le risa Presso a gli emoli tuoi, che di gelosa Titol ti diero; e t'è serbato ancora Ingiustamente. Non di cieco amore Vicendevol desire, alterno impulso; Non di costume simiglianza or guida Gl'incauti sposi al talamo bramato; Ma la Prudenza co i canuti padri Siede, librando il molt' oro e i divini Antiquissimi sangui : e allor che l'uno Bene all'altro risponde, ecco Imenéo Scoter sua face, e unirsi al freddo sposo, Di lui non già, ma de le nozze amante, La freddissima vergine, che in core Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta L'indifferenza maritale affronta. Così non fien de la crudel Megera Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene Contenda or pur le desiate porte A i gravi amanti, e di feminee risse Turbi Oriente. Italia oggi si ride Di quello, ond' era già derisa : tanto Puote una sola età volger le menti!
Ma già rimbomba d'una in altra sala Il tuo nome, o Signor; di già l'udiro L'ime officine, ove al volubil tatto Degl'ingenui palati arduo s'appresta Solletico, che molle i nervi scola, E varia seco voluttà conduca Fino al core dell' alma. In bianche spoglie
S'affrettano a compir la nobil opra Prodi ministri; e lor sue leggi detta Una gran mente, del paese uscita, Ove Colbert e Richelieu fur chiari. Forse con tanta maestade in fronte Presso a le navi, ond' Ilio arse e cadéo, Per gli ospiti famosi il grande Achille Disegnava la cena: e seco intanto Le vivande cocean su i lenti fochi Patroclo fido, e il guidator di carri Automedonte. O tu, sagace mastro Di lusinghe al palato, udrai fra poco Sonar le lodi tue dall' alta mensa. Chi fia che ardisca di trovar pur macchia Nel tuo lavoro? Il tuo Signor farassi Campion de le tue glorie : e male a quanti Cercator di conviti oseran motto Pronunciar contro te! chè sul cocente Meriggio andran peregrinando poi Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia Più popolar con le lor bocche i pranzi. Imbandita è la mensa. In piè d'un salto Alzati, e porgi, almo Signor, la mano A la tua Dama; e lei, dolce cadente Sopra di te, col tuo valor sostieni; E al pranzo l'accompagna. I convitati Vengan dopo di voi ; quindi 'l marito Ultimo segua. O prole alta di numi, Non vergognate di donar voi anco Pochi momenti al cibo: in voi non fia Vil opra il pasto; a quei soltanto è vile, Che il duro, irresistibile bisogno Stimola e caccia. All'impeto di quello Codan l'orso, la tigre, il falco, il nibbio, L'orca, il delfino, e quant' altri mortali Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra La sola Voluttade inviti al pasto; La sola Voluttà, che le celesti Mense imbandisce, e al néttare convita I viventi per sè Dei sempiterni.
Forse vero non è ; ma un giorno, è fama, Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d' ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un' egual forza Sospingeva gli umani ; e niun consiglio, Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess' ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm' antri, Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti. Sol' una cura a tutti era comune, Di sfuggire il dolore; e ignota cosa Era il desire a gli uman petti ancora.
L'uniforme de gli uomini sembianza Spiacque a' Celesti; e a varïar la Terra Fu spedito il Piacer. Quale già i numi D'llio su i campi; tal l'amico Genio, Lieve lieve per l' aëre labendo, S'avvicina a la Terra; e questa ride Di riso ancor non conosciuto. Ei move; E l'aura estiva del cadente rivo E de i clivi odorosi a lui blandisce Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola Sul tondeggiar de i muscoli gentile. Gli s' aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi; E, come ambrosia, le lusinghe scorrongli Da le fraghe del labbro; e da le luci Socchiuse, languidette, umide fuori Di tremulo fulgore escon scintille, Ond'arde l'aere, che, scendendo, ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti, o Terra, Sua prim' orma stamparsi ; e tosto un lento Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte Di natura le viscere commosse; Come nell' arsa state il tuono s'ode, Che di lontano mormorando viene,
E col profondo suon di monte in monte Sorge e la valle e la foresta intorno
Muggon del fragoroso alto rimbombo; Finchè poi cade la feconda pioggia, Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe Ravviva, riconforta, allegra e abbella.
Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo Viventi, a cui con miglior man Titáno Formò gli organi illustri, e meglio têse, E di fluido agilissimo inondolli! Voi l'ignoto solletico sentiste Del celeste motore. In voi ben tosto Le voglie fermentår, nacque il desío. Voi primieri scopriste il buono, il meglio; E con foga dolcissima correste A possederli. Allor quel de' due sessi, Che necessario in prima era soltanto, D'amabile e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste Il primo esempio: tra feminei volti A distinguer s'apprese; e voi sentiste Primamente le grazie. A voi tra mille Sapor fur noti i più soavi. Allora Fuil vin preposto all' onda; e il vins' elesse Figlio de' tralci più rïarsi, e posti A più fervido Sol ne' più sublimi
Colli, dove più zolfo il suolo impingua. Cosi l'uom si divise e fu il Signore Da i volgari distinto, a cui nel seno Troppo languir l'ebeti fibre, inette A rimbalzar sotto i soavi colpi De la nova cagione, onde fur tocche; E quasi bovi, al suol curvati, ancora Dinanzi al pungol del bisogno andaro; E tra la servitute e la viltade
E'l travaglio e l'inopia a viver nati, Ebber nome di Plebe. Or tu, Signore, Che feltrato per mille invitte reni Sangue racchiudi, poi che in altra etade Arte, forza o fortuna i padri tuoi Grandi rendette; poi che il tempo al fine Lor divisi tesori in te raccolse: Del tuo senso gioisci, a te da i numi Concessa parte: e l'umil vulgo intanto, Dell' industria donato, ora ministri A te i piaceri tuoi, nato a recarli Su la mensa real, non a gioirne.
Ecco, la Dama tua s'asside al desco : Tula man le abbandona ; e mentre il servo, La seggiola avanzando, all'agil fianco La sottopon, sì che lontana troppo Ella non sia, nè da vicin col petto Prema troppo la mensa : un picciol salto Spicca, e chino raccogli a lei del lembo Il diffuso volume. A lato poscia Di lei tu siedi: a cavalier gentile Il fianco abbandonar de la sua Dama Non fia lecito mai, se già non sorge Strana cagione a meritar, ch'egli usi Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi, Immobil sempre, e ch'a lo stesso padre De gli Dei non cedette, allor ch' ei venne Il Campidoglio ad abitar, sebbene E Giuno e Febo e Venere e Gradivo E tutti gli altri Dei da le lor sedi, Per riverenza del Tonante, usciro.
Indistinto ad ognaltro il loco sia Presso al nobile desco; e s'alcun arde Ambizioso di brillar fra gli altri, Brilli altramente. Oh come i varii ingegni La libertà del genial convito Desta ed infiamma! Ivi il gentil Moteggio, Maliziosetto svolazzando intorno, Reca sull' ali fuggitive ed agita Ora i raccolti da la fama errori De le belle lontane; ora d'amante O di marito i semplici costumi; E gode di mirare il queto sposo Rider primiero, e di crucciar con lievi Minacce in cor de la sua fida sposa
I timidi segreti. Ivi abbracciata Co' festivi Racconti intorno gira L'elegante Licenza : or nuda appare, Come le Grazie; or con leggiadro velo Solletica vie meglio, e s' affatica Di richiamar de le matrone al volto Quella rosa gentil, che fu già un tempo Onor di belle donne, all' Amor cara, E cara all' Onestade. Ora ne' campi Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi A le rozze villane il viso adorna.
Già s'avanza la mensa. In mille guise E di mille sapor, di color mille La variata eredità de gli avi Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba. Forse a la Dama di sua man le dapi Piacerà ministrar, che novo pregio Acquisteran da lei. Veloce il ferro, Che forbito ti attende al destro lato, Nudo fuor esca; e come quel di Marte, Scintillando lampeggi: indi la punta Fra due dita ne stringi, e chino a lei Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno De la candida mano, all' opra intenta, I muscoli giocar soavi e molli; E le grazie, piegandosi dintorno, Vestiran nuove forme, or da le dita, Fuggevoli scorrendo; ora sull'alto De' bei nodi insensibili aleggiando; Ed or de le pozzette in sen cadendo, Che de i nodi al confin v' impresse Amore. Mille baci, di freno impazienti, Ecco, sorgon dal labbro a i convitati; Già s' arrischian, già volano, giàun guardo Sfugge dagli occhi tuoi, che i vanni audaci Fulmina ed arde, e tue ragion difende. Sol de la fida sposa, a cui se' caro, Il tranquillo marito immoto siede; E nulla impression l'agita e scuote Di brama o di timor; però che Imene Da capo a piè fatollo. Imene or porta Non più serti di rose avvolti al crine, Ma stupido papavero, grondante Di crassa onda Letéa : Imene e il Sonno Oggi han pari le insegne. Oh come spesso La Dama dilicata invoca il Sonno, Che al talamo presieda, e seco invece Trova Imenéo; e stupida rimane, Quasi al meriggio stanca villanella, Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco Queta e sicura, e d'improvviso vede Un serpe; e balza in piedi inorridita; E le rigide man stende; e ritragge Il gomito, e l'anelito sospende;
E immota e muta e con le labbra aperte Obliquamente il guarda! Oh come spesso Incauto amante a la sua lunga pena Cercò sollievo; ed invocar credendo Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi Di fredda oblivion l'alma gli asperse, E d'invincibil noia, e di torpente Indifferenza gli ricinse il core!
Ma se a la Dama dispensar non piace Le vivande, o non giova, allor tu stesso Il bel lavoro imprendi. A gli occhi altrui Più brillerà così l'enorme gemma, Dole' esca a gli usurai, che quella osáro A le promesse di Signor preporre Villanamente; ed osservati fiéno I manichetti, la più nobil opra, Che tessesse giammai anglica Aracne. Invidieran tua dilicata mano I convitati ; inarcheran le ciglia Sal difficil lavoro; e d'oggi in poi Ti fia ceduto il trinciator coltello, Che al cadetto guerrier serban le mense. Teco son io,Signor; già intendo e veggo, Felice osservatore, i detti e i moti De' Semidei, che coronando stanno, E con vario costume ornan la mensa. Or chi è quell'eroe, che tanta parte Cola ingombra di loco, e mangia e fiuta E guata, e de le altrui cure ridendo, Si superba di ventre agita mole? Oh di mente acutissima dotate Marame del suo palato! Oh da' mortali Invidiabil anima, che siede Trala mirabil lor testura, e quindi L'ultimo del piacer deliquio sugge! Chi più saggio di lui penétra e intende La natura migliore; o chi più industre Converte a suo piacer l'aria, la terra, El ferace di mostri, ondoso abisso? Qualor s'accosta al desco altrui, paventano Suo gusto inesorabile le smilze Ombre de' padri, che per l'aria lievi Saggirano, vegliando ancora intorno Ai ceduti tesori; e piangon, lasse! Le mal spese vigilie, i sobrii pasti, Le in preda all' aquilon case, le antique Digiane rozze, gli scommessi cocchi, Forte assordanti per stridente ferro Le piazze e i tetti; e lamentando vanno Gl ́in van nudati rustici, le fami Mal desiate, e de le sacre toghe L'armata in vano autorità sul vulgo. Chi siede a lui vicin? Per certo il caso Congiunse accortoi due leggiadri estremi,
Perchè doppio spettacolo campeggi; E l'un dell'altro al par più lustri e splenda. Falcato Dio de gli orti, a cui la Greca Lámsaco d' asinelli offrir solea Vittima degna, al giovine, seguace Del sapiente di Samo, i doni tuoi Reca sul desco: egli ozioso siede, Dispregiando le carni, e le narici Schifo raggrinza; in nauseanti rughe Ripiega i labbri; e poco pane intanto Rumina lentamente. Altro giammai A la squallida fame eroe non seppe Durar si forte; nè lassezza il vinse, Ne deliquio giammai, nè febbre ardente: Tanto importa lo aver scarze le membra, Singolare il costume, e nel Bel Mondo Onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar, la sua pietade All'uom riserbi; e facile ribrezzo Déstino in lui del suo simíle i danni, I bisogni e le piaghe. Il cor di lui Sdegna comune affetto; e i dolci moti A più lontano limite sospinge.
« Pera colui, che primo osò la mano « Armata alzar sull' innocente agnella « E sul placido bue; nè il truculento a Cor gli piegaro i teneri belati,
« Ne i pietosi muggiti, nè le molli Lingue, lambenti tortuosamente
La man, che il loro fato, ahimè! stringea. Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto Al suo pietoso favellar, da gli occhi De la tua Dama dolce lagrimetta, Pari a le stille tremule, brillanti, Che a la nova stagion gemendo vanno Da i pálmiti di Bacco, entro commossi Al tiepido spirar da le prim' aure Fecondatrici. Or le sovviene il giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella, Vergine cuccia, de le Grazie alunna, Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l'eburneo dente Segnò di lieve nota: ed egli audace Con sacrilego pie lanciolla: e quella Tre volte rotolo; tre volte scosse Gli scompigliati peli e da le molli Nari soffiò la polvere rodente. Indi i gemiti alzando : Aita, aita, Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l'impietosita Eco rispose; E dagl' infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide, tremant! Precipitaro. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama. Ella rinvenne al fin : l'ira, il dolore L'agitavano ancor; fulminei sguardi Getto sul servo, e con languida voce Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa Al sen le corse; in suo tenor vendetta Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti, Vergine cuccia, de le Grazie alunna. [lo L'empio servo tremò; con gli occhi al suo- Udi la sua condanna. A lui non valse Merito quadrilustre; a lui non valse Zelo d'arcani ufici: in van per lui Fu pregato e promesso; ei nudo andonne, Dell' assisa spogliato, ond' era un giorno Venerabile al vulgo. In van novello Signor sperò; che le pietose dame Inorridiro, e del misfatto atroce Odiar l'autore. Il misero si giacque, Con la squallida prole e con la nuda Consorte a lato, su la via spargendo Al passeggiere inutile lamento: E tu, vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba.
Fia tua cura, o Signore, or che più ferve La mensa, di vegliar su i cibi, e pronto Scoprir, qual d'essi a la tua Dama è caro, O qual di raro augel, di stranio pesce Parte le aggrada. Il tuo coltello Amore Anatomico renda; Amor, che tutte De gli animali noverar le membra Puote, e discerner sa, qual abbian tutte Uso e natura. Più d'ogn' altra cosa Però ti caglia rammentar mai sempre, Qual più cibo le nuoca, o qual più giovi ; E l'un rapisci a lei, l'altro concedi, Come d'uopo ti par. Serbala, oh dio! Serbala a i cari figli. Essi dal giorno, Che le alleviaro il dilicato fianco, Non la rivider più : d'ignobil petto Esaurirono i vasi; e la ricolma Nitidezza serbaro al sen materno. Sgridala, se a te par ch' avida troppo Agogni al cibo; e le ricorda i mali, Che forse avranno altra cagione, e ch'ella Al cibo imputerà nel di venturo. Né al cucinier perdona, a cui non calse Tanta salute. A te su i servi altrui Ragion donossi in quel felice istante, Che la noia o l'amor vi strinser ambo In dolce nodo, e dier ordini e leggi. Per te sgravato d'odioso incarco Ti fia grato colui, che dritto vanta D'impor novo cognome a la tua Dama, E pinte trascinar su gli aurei cocchi,
Giunte a quelle di lei, le proprie insegne Dritto illustre per lui, e ch' altri seco Audace non tentò divider mai.
Ma non sempre, o Signor, tue cure liéno A la Dama rivolte: anco talora Ti fia lecito aver qualche riposo, E de la quercia trionfale all'ombra Te de la polve olimpica tergendo, Al vario ragionar de gli altri eroi Porgere orecchio, e il tuo sermone ai loro Ozioso mischiar. Già scote un d'essi Le architettate del bel crine anella, [sa, Sull'orecchio ondeggianti ; e ad ogni scos De' convitati a le narici manda Vezzoso nembo d' Archi profumi. A lo spirto di lui l'alma Natura Fu prodiga così, che più non seppe Di che il volto abbellirgli; e all'Arte disse: Compisci 'l mio lavoro: e l'Arte suda Sollecita dintorno all' opra illustre. Molli tinture, preziose linfe, Polvi, pastiglie, dilicati unguenti, Tutto arrischia per lui. Quanto di novo E mostruoso più sa tesser spola, O bulino intagliar Francese ed Anglo, A lui primo concede. Oh lui beato, Che primo può di non più viste forme Tabacchiera mostrar! L'etica invidia I Grandi, eguali a lui, lacera e mangia; Ed ei, pago di sè, superbamente Crudo fa loro balenar su gli occhi L'ultima gloria, onde Parigi ornollo. Forse altera così d'Egitto in faccia, Vaga prole di Sémele, apparisti, I giocondi rubini alto levando Del grappolo primiero : e tal tu forse, Tessalico garzon, mostrasti a Jolco L'auree lane rapite al fero Drago.
Vedi, o Signor, quanto magnanin'ira Nell' eroe che vicino all' altro siede, A quel novo spettacolo si desta; Vedi, come s'allanna, e sembra il cibo Obliar declamando. Al certo, al certo Il nemico è a le porte: ohime! i Penati Tremano, e in forse è la civil salute. Ah no! Più grave a lui, più preziosa Cura lo infiamma: «Oh depravati ingegni « De gli artefici nostri! In van si spera « Dell'inerte lor man lavoro industre, Felice invenzion, d'uom nobil degna. « Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio « A nobile calzar? Chi tesser drappo, « Soffribil tanto, che d'ornar presuma [na a Le membra di signor, che un lustro a pe
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