Te d'un Inno allegrar forte m' invoglio, O divo Raffaele, e del sereno Di tua luce vestirlo, ancor che molto L'ingegno a cotal volo arduo impauri. Salve, o superno. In real trono assiso Te inchinan l'altre creature prime, Te su lor glorioso e noverato Frai sette spirti, che nel ciel son grandi E ministri maggior di Paradiso; Però quando alle elette alme radduci L'immortal piede, o agli stellanti alberghi Degli angelici cori, assurgon tutti Da' vaghi seggi e di bei fiori eterni T'offron diademi. Narrerò qual fosti Prode contro gli abissi, il dì che a pugna Uscir le tetre arme di Stige e mille Informi Briarei? tu di Michele Pronto seguace, il trionfal vessillo Spiegasti, che a terribile cometa Sfolgorava simile, e una sanguigna Luce piovea sugli elmi d'oro. È questo Dell'arpe di lassù degno subietto
A la forte armonia. Noi direm quanto Dolce ai mortali il nome tuo risuona,
Poi che non rado a lor scendi propizio Come tremolo raggio antelucano Di benigno pianeta; e, se un devoto Grido non mente, al rustical banchetto D'Abräam tu sedevi insiem coi duo Aligeri consorti, entro i silenzi
Di Mambre e al rezzo che da l'ombra uscia Della quercia ospitale - Or te d' ogni egro, D'ogni languente loderò stupendo Medicatore. Al tuo pensier son tutte Conte l'erbe salubri, onde l' aprico Emo va lieto e il Pelio ombroso e Creta Di dittamo feconda e la felice Arabia e quante ne cercò Chirone, Favoloso centauro, o al Palestino Gran re fur note; discoperto a noi Ciò venne primamente e magno grido Corsene, quando il giovinetto ebreo Teco ambi visitar le Caspie porte.
Scendea costui là dove basso e lento Scorre il Tigri allagato e tra fogliose Canne s'avvolge, allor che un fiero, enorPesce sbucar mirò dell'imo gorgo [me E avventarsegli contro. Assai tu fosti
Il süades ti sì, ch' impeto fatto [to Nel mostro, d'abbrancarlo ebbe ardimen- Sotto l'orride fauci, onde ogni lena [lo: Troncógli a un punto e gli impedi dar crol- Perche indarno attorcendosi e guizzando, Già domo e lasso e boccheggiante a riva Fu trascinato. Incise indi il garzone, Come tu l'ammonisti, il ventre informe Del pesce e un ammirabil medicame Quivi trovo ne' pingui entragni ascoso : Fecene serbo e sovrumani elletti, Poi tempo, ne seguir - Duce scettrato Del deiforme regno, a te pur manda Uom ramingo le preci, o che fra cupe Boscaglie il fera la ventosa pioggia, O colto dalla notte erri in longinquo, Muto deserto, ove è nessun ricetto. S'atterra il pellegrino a tuc votive Are, e tra mano il bordon pio raccolto, Dalla gelata Ibernia, o dal sonante, Ultimo Beti a la gran Roma affretta. In te piena cosi ripongon fede I viandanti, e cominciò da allora Che al misero parente il ben chiomato Tobia rendesti. Era il garzone in punto Di porsi a sconosciuto, aspro viaggio, E in pensier ne tremava e tali in petto Volgea timidi sensi; or dunque in nove Terre mi caccerò, varie di gente
E di lingua e di foggie, io non esperto Di celati perigli, io non scaltrito Dell' altrui frodi e che dagli occhi lunge Mai non ebbi le torri ardue e le mura Di Ninive superba? Ei si dubbiando Fra il cor diceva, e tu l'udisti. Pronte Di per se stesse al tuo voler s' apriro L'eteree porte, e giù dal ciel scendevi. Suono come ricurvo arco d'argento L'aere percosso, e germoglio la terra Sotto al tuo piede. Il mite aspetto assumi Poi d'Azaria, uom di leggiadro sangue, E signor d' Esebóna e delle valli Vitifere di Sibma; un largo cuoio D'auree fibbie guernito ai lombi intorno Ti si ravvolge e insiem regge succinta La tunica, qual suole a un affrettato Per via messo od araldo. In questa forma Al garzon t'appresenti e con soave Piglio il richiedi : amico, il tuo diviso Sdegnerai discuoprire ad uom prudente E pien di fede? va per molte orecchie Che di portarti hai fermo oltre Adiabene, Oltre il Tigri precipite, e varcando DiTauro i gioghi entrar fra i Medi, antichi
Pascitori di mandre, e veder l'alta Ecbátana e Ragéa pingue di biade. Nudo mi sponi il vero io pur disegno Di là condurmi e so le vie; percorse Fur da me tutte al tempo in ch'io fuggiva L'ira acerba del re, cui fea rifiuto Di gir compagno al lacrimoso eccidio Della sacra Sionne e mille morti Ben toglica sostener prima che il ferro Snudar contro la patria. Mettiamci Dunque a un cammino e sovveniamci a prova
L'un l'altro; prenderem vario diletto: Io de' lunghi colloqui e tu del nuovo, Estranio suol; vedrai sul curvo Lico La palmifera Arbella: indi la forte Apaméa, dove nudo al ciel si spicca Lo Zagrio monte, e Laodice lieta Di popolo. Vedrai pampinei colli : Udirai mandre per l'erbose piagge L'eco destar delle convalli e molto Di lunge ammirerai sorger fastosa Ecb tana turrita. In queste voci Favelli, e il cor del giovinetto allegri, Cui del ciel manifesta era l'aita.
Perciò qual de' tuoi merti il più preclaro Diremo, o qual verrà de' carini al segno, Bellissimo sugli altri e come gemma Scelta in tesoro? i travagliati padri E quei tutti che al sole alzan l'opaca Pupilla indarno, a te dal conscio petto Mandan la sospirosa, umi! preghiera. Invocan Te le donzellette amanti, O vagheggin propinquo il di beato Del nuzial complesso, o in drappel casto Di cognate matrone e verginelle Movan timide là, dove il si suona, [dre Che al cor s'apprende e d'una pura il nu- Voluttade d'amor, per che gioiosa Ride la terra e vien sembiante al cielo. Il pianto elle ricordano e gli affanni, Per te in dolcezza d'imenéo conversi, Alla Assira fanciulla, unico sangue Di Ragüele e per beltate onesta Caramente dilletta. Ahi! l'infelice Estinti lacrimava uno appo l'altro In corto tempo i floridi mariti, Che un occulto demone orrendamente Negli amplessi uccidea. Fur sette volte (Stupendo a dirsi) le sponsali tede Raccese, ed altrettante il chiaro aspetto Cangiar nell' adro; e dier funerea luce A squallenti feretri intorno appese. Ma quel felice viator, che suso
Il canto appella, come certo e lieto Che il francheggiavi tu d'alto sussidio, Impalmò la deserta, inauspicata Donna e la benda mortual disciolse.
Poco s'aprian però le dubitose Alme a la gioia, nè d'eburnee tibie, O del niliaco sistro iva l' arguto Concento per le case; eran di fiori Nude le soglie: vedovo il parete D'istoriati drappi : erano incerte L'arie de' volti, e non ridean le mense Di giocondi parlari. Al fin la notte Spunto del sonno amica, e e palpitando Sul caro capo del garzon leggiadro, L'abbracció Ragüele e dentro il mise All'odoroso talamo. Ma questi, Com' alto senno impone, il fior soave Delle nozze non colse. Entro pulita Concava pietra con adatte scheggie Vivace fiamma suscito, poi v'arse Del pesce fluvial le non corrotte Interiora, e genuflesso innanzi Quella mistica vampa, orò devoto.
Fuor di terrene spoglie crasi intanto L'angiol di Dio sul limitar locato Del ben costrutto talamo, nè umano Occhio il vedea; dal capo al piè vestia Le tremende armi, in cui si fiaccan l'ire D'Averno, e tutto fiammeggiava d'oro : Se non che d' adamante avea lo scudo Maraviglioso e la infrangibil' asta, Pari a striscia di luce, onde l'azzurra Marina incontro al sol viva lampeggia. Parve ei si fatto: ed occupo gigante La soglia: ed ecco a quel notturno, amaro Scempio assueto, fuor dei laghi inferni Il reo démone uscire e tener forma D'un furial serpente il truce capo E il collo e il tergo in più veneni infetto E maculato; rivolgea l'enormi Spire e di sangue i focosi occhi aspersi Sibilando torcea; ma non appena Si scontrar quelli nel fulmineo sguardo Dell' angiol forte, istupidi, restrinse I volubili giri e immobil stette. Alzo allor Raffaele la possente Asta, che le città scuote dal fondo, E sovra il tergo irto di squame un colpo Rovescio spaventoso. Irrigidissi L'angue ferito, di cruor s'intrise E di schiume il terreno, e i livid' orbi Tra morte disciogliendo, in lungo tratto L'abbominata striscia si distese. Tingeasi in questa di rosato albore
Il mattutin Lucifero e dal sonno Sviluppava i mortali. Entro le case Allor di Ragüele un suon levossi Di tutto gaudio; allor le cetre e i molli Flauti, le danze, i bei purpurei panni,
frequenti abbracciari, il gioco, il riso Féro un misto di gioia, un indistinto Che lingua nol diria. - Cieco vegliardo E solo intanto ore traea di tedio Importabil ricolme il venerando Tobia, che del servaggio e della spenta Luce e della inamabile vecchiezza Tutti conforti avea nel figlio. Oh quanto Il suo redir tardavagli! ne chiusa A gelate paure avea la mente, Ne picciol tempo gli quetava il core. Traea il fiianco senile a ciascun giorno Fuor le murali porte, e gli spuntava Dolce una speme a ciascun giorno in petto Di racquistar l'unico nato; ai passi Dubbiosi e tremolanti avea per guida Un fanciulletto, e di cammin compiuto Quanto il dardo Getùlo in tre suoi corsi Misura, e giunto ove metteano capo Molti sentier, sostavasi l'afflitto
E s'assidea. Grato gli offrian riposo Colà i rustici seggi, a'quali intorno Giù dai rami spandean mestissim'ombra I salci flessüosi alle declive
Onde cresciuti del repente Tigri. Cosi fino al colcar del sole il vecchio Dimoravasi, e spesso al pargoletto Si volgendo dicea: guarda, mio caro, Guarda, se in biondo crine e in giovanile Sembianza alcun fuor di quel calle spunti, Cui fan verde coperchio allori e palme. Guarda; aver dee bel portamento, asciutte Le membrra e un abbassar d'occhi soave Tal che il farebbe ravvisar tra mille; Così parlava sospirando il vecchio: Poscia le ignote a lui sorti del figlio Divinar procacciando e le cagioni Del troppo indugio, assai fingea di casi Varie nature e lo colpia di tema L'ostinata al suo danno empia fortuna, Ch'ogni ben disertogli e il riposato Viver gli spense. Riccorreano allora Nel commosso pensier le andate cose, L'una appo l'altra, e del natío soggiorno Relitto a forza in cor piangea soventi : Piangea Neftali e Dano, antiche stanze Dei Neftalidi, allor più belle e vive Dagli occhi della mente affigurate. Lucenti gli apparian tranquille e terse
L'acque de' laghi e sul Dapnéo lavacro Gli aërei cedri alla montana auretta Rombanti, e i discoscesi, ultimi gioghi Dell' arduo Panio, donde spiccia il fonte Del Giordan fragoroso. A tai dilette Rammemoranze del tempo felice Con più voglia il traeva un solitario Levita, che cibò seco non rado Lo scarso pane dell'esilio, e presso Del roco fiume alle quete ombre amiche, Come a consorzio di dolor sedea. Ivi, qual' era usato entro il solenne Gran tempio accosto ai fumidi olocausti D'un soave arpicorde i lamentosi Cercò flebili suoni, e pio talvolta Inno sciogliendo in patria fiamma acceso, Il cordoglio alleniva e dalle calde Ciglia sgorgava meno amaro il pianto. Narrò i travagli d' Israele e i fieri Di Jeova sdegni e il crudel giogo Assiro; Or saluto gemendo la perduta Terra de' padri, il picciol Silo, i verdi Colli di Moria; or la sassosa rupe, Ov'alto maggioreggia e tutto splende Il marmoreo delubro. I santi veli Dicea nunqua rimossi e il candelabro E l'altar de' timiami e il bronzeo mare (1): O l'ecatombi in un sol di svenate Sulle porte d'argento. Ei si cantava Mesto, e al cor di Tobia voglia infinita Di lacrime sorgea. Pietà ten prese, O divin Paraninfo, e i mali estremi E gli estremi suoi di commiserando, Gli ritornasti col figliuol la spenta Virtù visiva, onde sul caro volto Tramorti di piacere e l'angoscioso Digiun sazio di quel beante aspetto.
Salve, o superno, e de' terreni affanni Medico pio: quest' inno odi, che sorge Tra il suon lento degli organi e lo sparso Vapor sabeo. Pon mente in su gli altari Alle fresche ghirlande e vedi sposa, Che nel flüente vel tutta s'asconde. Nutrita in solitario, umil reccesso Innocenti ha costei l'alma e il pensiero, E al bel virginco nome il cor tien fede (2). Fra i casti abbracciamenti e i desir casti Deh! tu benigno la riguarda e mena I suoi giovani di sembianti a schietto Ruscel, che d'amenissima vallea
(1) Gli Ebrei così chiamarono un vaso di estrema ampiezza per uso delle abluzioni.
(2) Virginia, sorella dell'autore, pel cui maritaggio fu pubblicato la prima volta quest' Inno.
Parte le glebe, e sotto mirti e rose Sempre quieto e puro si deriva: Salve, o celeste, e al bel connubio intendi.
Ecco al tepido Sol ringiovenisce L'alma natura e a guisa di fanciulla S'inghirlanda di rose e di viole. Gitta per ogni siepe il biancospino D'ambra l'olezzo, e il fiore di siringa Nel color degli amanti si dipinge. Al mandorlo odoroso e al nuovo timo Volan le pecchie come grappol dense: E le lunghe lor trecce i sitibondi Salci bagnan nel vivo umor del lago.
Ora stagion comincia in cui le basse Navicelle dal porto osan levarsi : E lascia i figli e la consorte cara L'ardito pescatore insofferente Di povertate al picciol muro appende Della casetta sua le reti e gli ami, E fatto mercator cerca le vaste Foci del Nilo e i regni di Soria. Pure innanzi al partir l' are devote Visita d'Elmo ai naviganti amico, Serti vaghi portando e cere ardenti: Fidato di recar nel suo ritorno E serti e cere di più nobil vista. Ecco all'impulso di propizio vento S'inturgida la vela: ei varca e il sommo Gia tien del dubbio pelago : ma nudi E negletti non son, lui dipartito, D' Elmo gli altari : che non rado a quelli Ne vien la famigliuola sbigottita, Umida gli occhi e pallida le gote: Da che la moglie pia sul prominente Balzo i segni avvisò della fortuna :* Dalla region di Noto e di Libeccio Montar vide le nubi e a mezzo il volo Parer smarriti li marini augelli : Quindi ad Elmo si prostra e del possente Nome fa risuonar l'eco del tempio.
Ne indarno al cittadin delle siderce Contrade la tremante aura perviene D'umil preghiera. Che più volte ai fiacchi Remigator da truce onda sommersi Fu prodigo d'aíta e di salvezza, Più volte sopra lor fe' graziose L'eterne intelligenze, a cui dell' etra Si commiser le sorti e delle stelle L'armoniche vicende. Al suo dimando,
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