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state portate tutte le specie d' animali che infino | tas pincernarum qui sub prætextu unius vegetis, quæ ai tempi degli imperatori non s'erano viste in 1 spatio magni temporis poterat usque ad nasum insaEuropa.» (SUMMONTE, Storia di Napoli, lib. 11.) tiabiles satiare voragines, omnes cives et caupona Il parlare per parabole e proverbi, che si tolgono rios affligebant, vinum universum cauponarum sitalvolta da similitudini fatte tra l'uomo e le gillantes sub certa pœna, insuper inhibentes eisdem bestie, è cosa adattatissima all' intelligenza del ne prædictas vegetes tangere quomodolibet attentavolgo, e fu propria del secolo in cui avvenne il rent, quas pro præfatis eorum dominis volebant peVespro Siciliano, come può vedersi da Ricordano nitus conservari. (Lettera dei Palermitani al ponteMalespini nella diceria tenuta da Farinata degli fice Martino nel 1282, dalla cron. ms. della chiesa Uberti nella dieta d' Empoli. d'Agrigento.) Ved. DUCANGE, alla parola Veges, e MUGNOZ che la riporta per intiero nei suoi ragguagli del Vespro Siciliano

.... Aver l'imago

Di Corradino, ec.

Di questa proibizione fanno testimonianza S. Antonino e Leonardo Aretino.

Non giacque a terra come è suo costume, ec. Chacun de ces animaux est chargé selon sa force; il la sent aussi bien que quand on lui donne une charge trop forte, il reste constamment couché jusqu'à ce qu'on l'ait allégé. (Nouveau Dictionnaire Histoire naturelle, tom. vi. Paris, 1816.)

Che solo ai Franchi

S'apron quei vasi in cui l'han chiuso, ec.

Non est sub silentio contegenda nefanda maligni

SCENA V.

Contro i Greci innocenti all' aure ondeggia
Di Carlo, avvezzo a profanar la croce,
Il vessillo crudele, ec.

Jam contra amicos nostros Danaos, videlicet Romaniæ, contra quos latronis crucem assumpsit, sub cujus specie consuevit effundere sanguinem innocentem, Siciliæ populum conatur eruere in desolationem. (BARTH. de NEOCASTRO, Historia Sicula, c. 12.)

TRAGEDIA.

Troppo fallò chi le spelonche aperso
Che già molt' anni erano state chiuse,
Onde il fetore e l'ingordigia emerse
Che ad ammorbare Italia si diffuse.
Il bel vivere allora si sommerse,
E la quiete in tal modo si escluse

Che in guerra, in povertà sempre e in affanni,
È dopo stata ed è per star molt'anni.

ARIOSTO, Orlando Furioso, c. xxx, st. 4.

PERSONAGGI.

LODOVICO SFORZA, detto IL MORO.
BEATRICE D'ESTE, sua moglie.
BELGIOJOSO,
consiglieri del Moro.
CALCO,

GIO. GALEAZZO SFORZA, nipote del
Moro.

ISABELLA D'ARAGONA, moglie di Galeazzo.

AGNESE, sua confidente.
CARLO VIII, re di Francia.

GRAVILLE, capitano e consigliere di
Carlo VIII.

CORRADO BISIGNANO, esule napole

tano.

Un CAVALIERE del Moro. ANCELLE d'Isabella.

SOLDATI FRANCESI.

SOLDATI SFORZESCHI.
POPOLO.

Il luogo della scena è nel castello di Pavia, il dì 15 ottobre 1494.

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

ISABELLA D'ARAGONA con le sue ancelle, fra le quali AGNESE, sua confidente.

ISABELLA.

TACITAMENTE l'agil piè movete,

E lievi l'orme sulla terra imprima,
Che l'egre membra al signor mio ristora
Nelle stanze vicine un dolce sonno.
Rado consente all' infelice il cielo
Quest'oblio della vita; e come ei fosse
Adulator di corte, a prence oppresso
Accostarsi paventa. O fide amiche,
Di tutto abbiam disagio. O ciel! tu m'offri
Serico drappo di tua man trapunto;
Un ricco dono è pei felici. Agnese,
Deh! perchè l'arme aragonese espressa
V' hai con tanto artificio? un di splendea
Del padre mio sulle famose insegne,
Chè le soleva dispiegar coll' ali
La vittoria seguace: ora la fuga
Le confonde, le cela, e poi nel fango
Calcherà le sue glorie un piè ribelle.

AGNESE.

Scusa l'errore involontario.

ISABELLA.

Ah, certo Al mio dolor pensavi allor che nacque Sotto l'industre man l'opra gentile, E agli occhi miei la destinasti. Amica, Qui cadran le mie lacrime.

(Volgendosi alle ancelle.)
Cessate

Dall' usate fatiche; ove del parco
Copron le piante l'aborrite mura
Della nostra prigione ite a diporto
Per brevi istanti almen...

(Ad Agnese.)

Se questa io cingo Nera gramaglia, che il mio duolo attesta Per la morte dell' avo, il gran Fernando Già di Napoli re, pietosa amica, A te lo debbo: ne consente appena Tanto che basti a sostener la vita L'usurpator crudele, e mi negava Questi ornamenti del dolor. Tu d'alto Sangue sei nata, fra delizie ed agi Mollemente cresciuta, e al fianco mio Non t'increbbe vegliar: gelida e stanca Dall'ingrato lavor di pianto asperso La mia destra cadeva, e tu soccorso Mi prestavi in quell' opra, e dell'inverno

Le spaziose notti, e il mio dolore
Ingannavi col canto...

(Rivolgendosi di nuovo alle ancelle.)
Ite, vi prego:

E se questa parola a me conviene
Nella bassezza della mia fortuna,
Io vel comando. Qui rimani, Agnese.

SCENA II.

ISABELLA ed AGNESE.

AGNESE.

Il sol già splende, e mai non ebbe autunno
Aure cosi benigne. A che non lasci
Queste odiose mura, e ti ricrei
Di questo ciel?

ISABELLA.

Più che non suole, è mite, Perchè sorride ai Franchi... Il mio consorPotria destarsi e ricercarmi. Agnese, [te Dalla lieta beltà della natura

Non vien gioja agli oppressi, e fosco il sole
Si fa negli occhi, se il dolor li bagna;
Or delle piante le materne braccia
Lascia ogni foglia inaridita, ed una
Che cadesse ai miei piè squallida e muta,
Mi direbbe nel cor: « l'egro consorte
« Cadrà così. »

AGNESE.

Più che non pensi è grande Dei primi anni il poter: tenera pianta Il suo languido capo al suol declina, Quasi cader dovesse, e poi risorge Per quella forza che la spinge al cielo. Spera.

ISABELLA.

S'io spero... oh con qual gioja io miro Allor ch'ei dorme, colorirgli il volto Di giovinezza la purpurea luce, E tutta mi abbandono alla speranza. Poi mi riprendo di si dolce errore, Chè so qual morbo lo minaccia, e come In un sorriso ei può finir la vita, E vicino al morir farsi più bello. Allor tremando a lui m'accosto, e pendo Su quel capo diletto a farmi certa S'egli respira ancora, e al suo congiungo Il mio pallido labbro, e se vi cade Quel sudor freddo che gli bagna il volto, Parmi il gel della morte, e mando un grido. Il misero si desta e mi sorride Mestamente, e mi dice: « A che mi svegli?» Ma sdegnarsi non sa : tosto al mio collo Corre colle sue braccia, e lungamente

Il caro egro vi pende, e s'abbandona
Su questo seno e piange : io tento invano
Di frenar le mie lagrime, di sciormi
Dai lunghi amplessi, dove corre il pianto.

AGNESE.

Deh, non ceda al poter della sventura Il tuo spirto virile, ed apri il petto Alle speranze di miglior fortuna. Della tua prole ti sovvenga.

ISABELLA.

Agnese,

Che ricordi a una madre! in forza altrui
Son pur col figlio, e pei suoi giorni io tremo
In splendida prigione. E dove asilo
Trovar potrei, quando un pietoso inganno
Le ferree porte del castel superbo
Aprir potesse all' innocenza oppressa?
Di tumulti, d'inganni e di perigli
Piena è la reggia di mio padre, e sai
Come presso al Vesevo è al par del suolo
Instabile la fede, e son avvezzi
Più la fuga agitar che la difesa
Gli sleali baroni, in cui rinasce
Il desiderio del dominio antico.
Questa infelice Italia, a cui natura
Par che sia la discordia, e corre solo
A' propri danni in un voler comune,
Non virtù, non potenza, non consiglio
Saprà ai barbari opporre, ed i suoi lunghi
Avvolgimenti di perfidia accorta,
Ch'ella senno chiamò, vani saranno
Contro al furor di Carlo, ed altre pugne
Vedrà che quelle onde più vil divenne,
Ove sappia al terror dell' armi franche
Avvezzar le pupille, e i suoi guerrieri
Vinti non sian pria che veduti.

AGNESE.

In Asti

Egro ancor langue il tuo fatal nemico,
Carlo re della Francia, e quel d'armati
Ruinoso barbarico torrente

Ch' a un cenno suo precipitò dall' Alpi,
Or d'esse ai piedi inaridir potrebbe.
Talora Iddio pietoso i suoi flagelli
Solo in mostrar s' appaga, e poi li frange.

ISABELLA.

lo qui merto non veggo onde si pieghi
Nei suoi decreti la giustizia eterna,
Chè Italia è vuota di virtudi, e solo
Sulla lance di Dio stanno i delitti.
Ritrovami fra l'Alpi e fra Pirene,
Ove giammai non si contenne, e freme
Qual fosse chiusa da prigione angusta
Questa gente di Francia, uom più crudele

Di Lodovico il Moro? Ah! noi peggiori Siam de' nostri nemici.

AGNESE.

E non t'affida

Il valor del magnanimo fratello?

ISABELLA.

All' armi sue nocque l'indugio. Il Moro
Coll' industria fatal de' suoi consigli
I nemici ha schernito. Italia è scossa
Da' vani sogni delle sue speranze,
E vede sopra la cervice imbelle
Starsi il ferro di Carlo.

AGNESE.

Ancor non regna Il tuo gran padre Alfonso? è forse estinta La gloria d'Aragona? in ogni parte Vive la fama del terrore antico.

ISABELLA.

Più quei non è, che, vincitor o vinto,
La mano ognor tenne sul ferro, ed ebbe
Avidità di gloria e di perigli;

E, siccome lion quando si desta,
Più tremendo sorgea da' suoi riposi,
Sicchè abbracciò di tutta Italia il regno
Nella fiducia d'un pensier superbo.

AGNESE.

Chi l'ha mutato?

ISABELLA.

Una potenza arcana Che della colpa è figlia... A tutti ignoto Sia quanto svelo a te.

AGNESE.

Depor non puoi

In più fedele orecchio il tuo segreto.

ISABELLA.

Una tremenda vision...

AGNESE.

Che parli? Tanto obliò sè stesso... eppur perdona Poco del cielo...

ISABELLA.

Ah, non è dato, Agnese, Scoter dal petto Iddio. Chi non lo vede Nel gran tempio del mondo, e vuol chea Muta divenga l'armonia dei cieli, [tutti Nei rimorsi lo sente, e si fa vile All'aspetto primier della sventura. Già spregio l'are Alfonso, ed ora ei crede Che venne a lui dal doloroso abisso L'ombra del padre, e tralle fiamme eterne Al figlio suo gridò: « Ricorda e trema. »

AGNESE.

Ma tu, saggia qual sei, dài fede a questo Torbido sogno del terror paterno?

ISABELLA.

lo che dirti non so: lo crede il core,
La ragion lo combatte, e son gli spettri
Tra quelle fole onde il mortale ignaro
Mentre sorride, impallidisce. Oppresso
Il padre mio dalle paure eterne,
Che son tiranne della mente imbelle,
Scompagnarsi potria da' suoi rimorsi
Come dall'ombra del suo corpo; ei teme
Il sole, testimon de' suoi delitti,
E la notte, che reca al suo cospetto
Fernando, e l'ombre dei baroni uccisi.
Gli riconosce tutti, e mentre a nome
Nel suo terror gli chiama, aride, immote,
Quasi gli sien presenti, in lor converte
Orribilmente le pupille, e scosso
Quel sogno o quel delirio, egli s'affaccia
Al palagio regal; crede la plebe
Concitata a tumulto apparecchiargli
Un supplizio crudele, e che gli gridi :
Muori, tiranno, muori, e in mezzo
ai gridi

a

Delle galliche trombe il suono ascolta.
Allor seguito da quei pochi amici
Che scopre ai re sol la sventura, ei corre
Al vicino castello, e ad ogni strepito
Pauroso si volge, e non si crede
Nemmen colà sicuro, e al mar discende
Che dintorno lo cinge; e mentre aspetta
La nave su cui fugga, egli sul lido
Immobile rimane, e volto all' onde
Inorridisce della sua figura;

E gli sembra colà dove si specchia,
Farsi sanguigno e procelloso il flutto.
Innalza al ciel gli sguardi, e vede il cielo
Ricoprirsi di nubi, e fra le nubi

Il fulmin vede nella man di Dio. -
Genitor sventurato, egli paventa
Gli uomini, gli elementi, il ciel, se stesso...
Ma l'inferno consorte a lenti passi
Verso di noi s'innoltra: egre hale membra,
Ma l'animo tranquillo; è sol tremendo
Dei rimorsi il dolor. (Agnese parte.)

SCENA III.

GIOVANNI GALEAZZO e ISABELLA.

ISABELLA.

Sposo.

GIOVANNI.

Amor mio!

Se da labbro mortal usci parola
Più soave di questa, a me la insegna,
Ond' io ti chiami con quel nome.

ISABELLA.

Tu sospiri la patria.

Ah vieni!

Sostegno io ti sarò.

GIOVANNI.

Ma dai riposi

D'un letto testimon delle mie pene
Mi sollevava un' altra mano! E bello
Per me quel giorno in cui mi desto e miro
La luce e te, poi del mio figlio il volto
Segnato dell'immagine materna.
Fida Isabella, io troppo chiedo: all'egro
Che la sua vita sente venir meno,
Secolo di dolor sembra un istante
Se lo divide dai più cari oggetti.
Lasciargli dee per sempre... ah! della via
Ove corse piangendo, al tuo consorte
Poco rimane omai. Brevi saranno
Le tue cure amorose: io questi fiori
Colgo sull'orlo del sepolcro.

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Mal t'infingi, Isabella; e vuoi ch'io speri?
Quando l'egro consorte ai suoi riposi
Accompagni, benigna, e sei tu sola
Fido sostegno delle membra inferme,
E questo capo languido declina
Sull' amoroso petto, io non m' accorgo
Che tu, cessando della pia fatica,
Ai piè seduta dell'infausto letto,
Le meste luci sospirando abbassi,
Perch' io non vegga il pianto ? e allor che
vegli

Sull'incerto mio sonno, e ti rischiara
D'una povera face il mesto lume,

Che della vita ha breve pugna, e manca,
E ricorda all' infermo il suo destino,
Tacitamente struggerti nel pianto,
Fida consorte, io ti mirai più volte
Mentre pensi ch'io dorma, e asciughi il
volto

Con pronte mani all' appressar del figlio,
Perché quando ti bacia, ei non s'accorga
Che la madre piangea. Nell' aer dolce
Che nascendo spirasti ove risplende
Un ciel ch'è bello come il tuo sorriso,
Dolcissima Isabella, avrei potuto
Trovar salute e pace... Ah! tu sospiri ?

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Sotto qual cielo non senti l'esilio!
Ma tu mi fai caro ogni loco, e questo
Orror fastoso di regal prigione.
Piango il padre, i fratelli e l' imminente
Fato della mia patria: andrà sì bella
Parte d'Italia in servitù straniera!
GIOVANNI.

Io già presa la miro, e vinta e schiava.
Nell' avo tuo fu grande il senno, e molto
Apprese il re dalle sventure; ei volle,
Per torre al Moro ogni cagion di guerra,
Trarne di qui nella sua reggia: avrei
Ceduti all' empio i miei diritti, e bello
Era più d' ogni trono il gran rifiuto
Che salvava l'Italia: il pio disegno
La sua morte interruppe. Oh me felice!
Se nella tua città... veduto avessi
Nel diletto sembiante, ond'io ti piacqui,
Tornar le rose dell' età primiera.
Oh riposati dì, gioje sincere
Sempre negate a chi sta presso al trono!
Io felice e privato, alfin v'avrei
Conosciute una volta, e per me stata
Non sarebbe la vita altro che amore,
Nel giardin dell' Italia e nelle rive
Su cui viene a spirar l'onda placata.
Udii che la senza romore alcuno,
Lungi dalla città, quasi non visto,
Nel mar discende il tuo gentil Sebeto,
Poichè i fiori avvivò, poichè trascorse
I lieti campi con error diversi.
Non altrimenti placida, tranquilla
Sariasi l'onda de' miei di perduta
Nel mar d'eternità: ma questo sogno,
Come quelli che l'egro a se figura,
Svani per sempre, e qui morire io deggio.
Solo un languido raggio, che si frange
In mezzo ai ferri della mia prigione,
Risplenderà del moribondo volto
Sull'ultimo pallor, che il mio nemico
Contemplerà dicendo: « altin io regno. »

ISABELLA.

E a lui ceduta, o mio diletto, avresti Ogni ragion sul trono? Ah, l' avo imita, Ne vil parola io dal tuo labro ascolti, Onde il tiranno esulti.

GIOVANNI.

Invan spronasti Con gli animosi detti il tuo gran padre A far vendetta dell'ingiusta offesa, E a rendermi lo scettro. Il sai: rispose

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