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Una stirpe superba e grave altrui, Detta i Ronchi, albergava indi vicino; Pari di stato, ed avversaria a nui.

Brivio la nostra si chiamò; Caprino L'avversa terra ha nome; ambo comprese Nella fertil vallea di San Martino.

Poscia che a' nostri cor l'ira s'apprese, Che dagli alpini termini a Peloro Arde miseramente il bel paese;

Pe' Ghibellini parteggiar coloro, Pe' Guelfi noi : la popolosa valle Parte a noi fu seguace, e parte a loro. Spesso con man d'armigeri a le spalle Quinci e quindi movemmo, e i ferri acuti Menammo si, che ne fu rosso il calle.

Ma come fummo in sul cader venuti Del travagliato secolo, a tal crebbe Quell'ira in noi, ne' fidi nostri aiuti, Che mal tutte narrar lingua saprebbe Quante e quai fur le sanguinose gare, A cui nullo fra noi modo più s' ebbe : Era questo gentil tempo, che pare Di nova gioventù ridan le cose, E tutte amando invitino ad amare;

Quando l'odio crudel, Parti nascose Contra me volse, e miserabil segno Di quanto ei possa in uman cor, mi pose. Me di due figli il ciel fatto avea degno: Un giovinetto, a cui di casto amore Da sei lune era dato il primo pegno;

E una donzella, a lui d'anni minore, Leggiadra, che cred' io non invermiglia Gote più belle il virginal pudore.

Raniero, padre dell' ostil famiglia, Cresciuto avea fra numerosa prole Un orfanel che nacque di sua figlia.

In quell'età, che a dolci affetti suole L'anima aprirsi, e in avvenenti spoglie, Non vide ingegno più feroce il sole.

Tutte il garzon le scellerate voglie Sempr' ebbe a danno ed a ruina intente Di me, de' miei, di mie paterne soglie. Ma perchè a guardia continuamente Del castel vigilavano, e di noi, Eletto stuol di mia provata gente,

Visti indarno oggimai gl' impeti suoi, Ecco qual fe' disegno empio, nefando, Se ridir tel poss'io, se udir tu 'l puoi. In cotal guisa il monaco narrando, E tra per gli anni e pel crudel pensiero Tacendosi allannato a quando a quando, Giunsero al limitar del monistero; E quivi, lungo le sacrate mura, Sovra marmoreo scanno ambi sediêro.

Sorgea l'astro che molce ogni sventura; E specchiavasi allor tutto nel fonte Della luce che informa la natura.

Fra gli ardui pini, onde il ciglion del

monte

Sta foscamente incoronato e cinto,
Già trasparia la luminosa fronte.

Dell' alta solitudin, dell' estinto
Giorno i silenzi interrompea d'un fiume
Il cader lontanisssimo, indistinto.

Vorace augello, con le negre piume Ferme al petroso nido, attraversava L'aere non tocco dal crescente lume.

Rada nebbia dall' imo si levava, Che giunta ove percossa era dal raggio, Biancheggiando pel ciel si dileguava.

Al suol s'affise l' eremita; e il saggio Gli occhi levo pensosamente mesti Del bel pianeta al tacito viaggio.

Poi l'altro proseguì : Sappi, che questi (Lo cui nome esecrabile fu Gerra), O sia mercè di simulate vesti,

O d'incognito calle di sotterra,
O di vil traditor che a lui sovvenne,
Furtivamente penetrò mia terra.

Audace intorno al fido albergo ei venne; E non visto, a cangiar guardi e parole Con l'innocente figlia mia pervenne.

Furon le chete mura, e l' ombre sole Testimonie dell' arti, onde colui, Qual da malvagio ingannator si suole,

Compose i detti ed i sembianti sui; Lasso, io questo ben so, che il vergin petto Di miserabil fiamma arse per lui.

Da quella tigre in mansueto aspetto Fors'anco alla meschina in cor fu posto (Che non crede fanciulla al suo diletto?)

Come amendue le genti, non si tosto Lor nodo marital fosse palese, Avrian le sanguinose ire deposto. La poverella mia, senza difese Contro forza d'amore, e di pietade, Ella che sempre a comun pace intese,

Ella nel fior della ridente etade, Ella che nova in tutto si rimase, Del falso mondo, e di sue torte strade,

Dal menzogner che si le persuase, Tutta rapita in sua dolce speranza, Trar si lasciò delle paterne case.

Pensa quand' io, per amorosa usanza Ne presago in mio cor di nostro danno, Riposi il piè nella deserta stanza!

Che val ch' io dica lo stupor, l' affanno, E l'inchiedere, e 'l correre, e'l chiamare,

Di sventura temendo e non d'inganno.
Cerchiam tutto il castello; e quando pare
Che quivi nulla omai speme rimagna
Di riscontrar quelle sembianze care,
Io forsennato, e il più della compagna
Gente, di tutto obblivïosi allora,
Fuori ci disperdiam per la campagna.

Ahi ch'era questa la terribil ora
Apparecchiata dalle inique frodi:
Chei Ronchi dell' agguato uscendo fuora,
Visto libero il varco, e si di prodi
Scema la terra, dentro s'avventaro,
Come lupi in ovil senza custodi.

Al subito furor nullo riparo: Primo Ranier, non più degli anni afflitto, Brandia con polso giovanil l' acciaro.

Baldo, il mio figlio, già nell'arme invitto Che pronto accorse al mal guardato loco, Da cento colpi vi restò trafitto.

Di faci armata e di coltelli, in poco
D' ora la turba furïosa orrendo
Fe' di strage il terren, l'aere di foco.

Sul minacciato limitar correndo
Intanto a quello strepito feroce,
E le man supplichevoli stendendo,

Del mio Baldo la sposa, ad alta voce Lui richiamava dal mortal periglio, Quand' ecco dell' albergo uscir veloce,

Col ferro in man, con affocato ciglio, Il trionfante Gerra, che pel collo Afferrandola, grida : Ov'è 'l tuo figlio?

Ove si cela il novellin rampollo Di quest' arbore illustre? Assai già spazio Corsi tue case, ed or da te saprollo.

La donna esterrefatta a tanto strazio, Udito il vano suo cercar, d'un riso Lampeggiando, sclamò : Dio ti ringrazio.

D'ira a que' detti sfavillante in viso Lo scellerato, del pugnal le diede, E a lei mostrollo di suo sangue intriso. Parla, il fero le dice; ed ella vede Quel sangue, e non fa motto; ei dell' acuta Punta più crudamente il sen le fiede.

Parla, che vita e libertà renduta Ti fia; soggiunse con dolcezza accorta; Ma quella bocca, come pria, fu muta. L'empio, cui rabbia furïal trasporta, Vibrò gran colpo; e l'animosa e pia Cadde fra cento morti corpi morta.

lo che la valle discorrendo gia In traccia della figlia, ed ahi pur molta Già reputando la sventura mia:

Incontro a me per una selva folta Alcun velocemente venir sento,

A cui, sosta, diss' io, sosta ed ascolta.

Parvemi Gerra, che passò qual vento ; Tal che in maggior sospetto oltre più corsi, Fin ch'agli orecchi miei giunse un lamenI passi là precipitando torsi [to. Ed ahi sull'erbe che allagava un rio Del sangue suo, quella infelice io scorsi. Mezza di sè già fuor, me non udio La moribonda, che fra dolci lai, Che t'ho fatt' io, dicea, che t'ho fatt' io? Or m'uccidesti tu perch'io t' amai? Ah qual crudel, qual barbaro t'ha ucciso, O mia Bianca, o mia vita? allor sclamai.

Lentamente si volse, e il guardo fiso Ella alcun tempo in me tenne a quel suono, Poscia ad un tratto si coperse il viso.

Padre mio, padre mio, disse, perdono! Il rimembrar di me, deh non ti gravi, Ch'io fui tradita, ed innocente io sono!

Ahi Gerra al certo, ahi che tu Gerra

amavi,

Dissi, e quell' empio,... ed ella : il tuo furore

Sovr'esso, padre mio, deh non s'aggravi!

Ch' io gli perdono: e in questo dir, sul

core

La man fredda posando, nel mio seno Il debil suo capo abbandona, e muore.

Io, che senti' me tutto venir meno, Lena cercai nell'angoscioso petto Tanta, che a miei mi riducessi almeno.

Oh quante volte il mio figliuol diletto Tra via chiamo per nome, e nelle care Braccia da lungi col pensier mi getto.

Quando giunto anelante in sull'entrare De la mia terra dimandando aita, Quel fero universal scempio m' appare! S'ivi morto non caddi, l'infinita Pietade i falli miei si gravi e tanti A terger nel dolor mi tenne in vita.

Per mezzo le ruine arse e fumanti Vidi Nastagio, il mio buon servo antice, Mal vivo strascinarmisi davanti.

Quel tristo avanzo del furor nimico Narrommi le vedute atroci cose, Con duol di padre, e con pietà d' amico.

Qual chi a dura novella il cor dispose Pur sente innanzi alla risposta un gelo, Io del fanciul l'inchiesi; ei non rispose.

Allor vid' io, quasi al cader d'un velo, Per me il mondo una selva orrida e sola, E volsi l'alma spaventata al cielo.

Qui l'affannoso duol nodo a la gola Fe' del monaco sì, che muta indietro

Gli tornò fra' singulti la parola.

Una voce in quel punto a lento metro Laude intonò nel vicin tempio a Dio, E più voci le tennero poi dietro.

Egli a Dante con man dicendo addio, Com'uom, se nova e maggior cura il tocchi, Tacito e ratto quindi si partio.

Pietosamente seguito con gli occhi Dante il misero veglio; indi alle braccia Facendesi puntel d' ambo i ginocchi Chiuse nel vano de le man la faccia.

CANTO TERZO.

ERA già 'l carro de la notte al punto Che l'ore fosche in duo parte ugualmente, E l'astro che le inalba al sommo giunto, Quando il poeta sollevò la mente Gravata, e volse nubiloso il guardo, Qual chi di buio loco esca repente. Ed ecco passeggiar pensoso e tardo A lui dinanzi un cavaliero armato, Di statura e di membra alto e gagliardo.

Però lungi un destriero affaticato, Con le redini sciolte, la digiuna Bocca movea pel rugiadoso prato. Levava il cavalier gli occhi a la bruna Muraglia venerabile, che a stento Ridea del pieno lume de la luna.

[to

A quando a quando il piè sostava, intenAd ascoltar del solitario e fioco Passere dalla torre alta il lamento.

Com' ebbe errato in cotal guisa un poco Vide che l'altro i lenti passi sui Con lo sguardo seguia di loco in loco.

Allor traendo riverente a lui, Signor, gli disse, benchè fatto io degno A vederti da presso unqua non fui,

Tu se' certo il cantor del trino regno, Tu lo spirto magnanimo e sovrano, Cui, quasi cervo a puro fonte, io vegno.

Castruccio mi son io che il suol toscano Varcato, e'l giogo d'Appenin, cercando Per occulti consigli a mano a mano

Tutti i miglior di nostra parte, quando Testè in Agobbio da Bosone appresi Che ricovrarti a questo venerando

Ermo ti piacque, il sacro monte ascesi : E per lo patrio amor prego mi sieno In te labbia ed orecchie al par cortesi.

Dante, che al nome di colui che il freno Regge di Lucca, e vincitor possiede Fra Serchio e Magra, e'l monte ed il Tir

reno,

Surto era già maravigliando in piede, Rispose: 0 duce, in te di forti e chiare Opre è riposta omai tutta mia fede.

E, si dicendo, parvesi avvivare D'una gioia simile a debil raggio Che fuor da rotti nugoli traspare.

Castruccio a lui subitamente: O saggio, E tu dammi virtù, dammi possanza, Ch'or del pari è mestier senno e coraggio. E ch'altro a noi, fuor che noi stessi, avanza?

Quale oggimai nell' Alemanno aiuto,
E in due mal fermi Cesari speranza (1);
I quai mentre ciascun del combattuto
Diadema spogliar l'altro sol cura,
Fan d'Italia infelice ambi rifiuto? [ra,
Dante allor: Nostra colpa, e non ventu-
La tanto lacrimata alba allontana
Di questa notte dolorosa e scura.

E qual da pegno all' aquila germana Questa che sotto al suo vessil s'accoglie Gente discorde, ambiziosa e vana?

Malvagi son, le cui rapaci voglie Di patria carità velo si fenno, Poma corrotte sotto verdi foglie;

O stolti, che si aggirano ad un cenno, Solo a levar tumulto, e a creder presti Menzogna il vero, e tradimento il senno.

Da questi la vergogna, il mal da questi Contaminati germi si produce;

Ne degno è ch'altri a noi soccorso appresti. Ahi che al vero il tuo dir, soggiunse

il duce,

Consuona tal, che nulla altra cagione
Così peregrinando mi conduce.

Sappi, che poichè a me lunga stagione
Svelate d'ogni danno ebbe le fonti
Là dove il dritto tuo veder le pone,

Alti disegni io fra me volsi; e conti Quelli poi feci a' duo maggior Lombardi Lo Scaligero Cane, e il gran Visconti. (2) Piaccion gagliarde imprese a cor ga

gliardi :

Onde que' prodi non mi fur di loro
Consentimento, nè dell'opra tardi.

Per mutua fede si legâr costoro

(1) Federico d' Austria e Lodovico di Baviera. (2) Can della Scala, signore di Verona, e Matteo Visconti, detto il Grande, signore di Milano, amendue Ghibellini.

Celatamente, e a me giuraron patto
Di bellicose genti, e di tesoro. [atto,
Poi ciascun d'essi ogni pensiero, ogni
E quella, che il poter, l'ingegno, e l'arte,
Somma ad entrambi autoridade han fatto,

Tutta converse in ricompor le sparse Voglie, e quetar l' invide gare, e gli odi Fra l'altre signorie di nostra parte:

E quelle, forti de' ristretti nodi, Quasi a ceppo comun ramose braccia, A se congiunse per diversi modi.

Sebben fortuna ad amendue me faccia Ancor secondo di possanza e gloria, Nè l' ala a simil vol ben si confaccia : Pur la recente di quel di memoria, Quando per me Montecatin sentio Tanto grido levarsi di vittoria;

Merito e grazia m'acquistò tal ch'io Quanto per loro oprar là si dispose Fede ho quà giù di conseguir pel mio.

Come verrà (questo ad ogni uom s'ascoEd or tu, per altezza d'intelletto, [se, Quarto sarai nelle secrete cose),

Come verrà, che all'arduo mio concetto lo giunga, e veggia di cotal semenza Tempo a cogliere omai quel che m'aspetto;

Subitamente e fuor d'ogni credenza
Muoverò l'arme impetuoso, e mia
Sarà prima Pistoia e poi Fiorenza.
Segnale a Cane, ed a Matteo ciò fia :
Allor contra colui, di guerra esperto
Men che d'ogni arte frodolente e ria,
Contra il guelfo maggior, contra Ro-
berto (1),

Tutti, in un punto, di ciascun paese
Trarrem precipitosi a viso aperto.

Segno a cotante e non pensate offese Mal starà fermo quel superbo in campo, Cui l'odio oculto si farà palese.

Chè se muova Filippo indi al suo
scampo... (2)

Dante racceso negli affetti suoi,
Qui fia Cesare, disse, a fargli inciampo.
Cesare? or quale? a lui Castruccio; e poi:
No, l'un l'altro fra lor struggansi intanto;
A noi guardia fia l'alpe, e all' alpe noi.

Non si tosto ebbe detto, che del santo
Ostel s'aperse lentamente il fosco
Uscio, donde fuor venne in sacro manto

Un, che disse: Fratei, pace sia vosco: Poi mosse ad una croce, ivi sorgente

(1) Re di Napoli.

(2) Re di Francia, fautore de' Guelfi.

In sull' entrar del tortuoso bosco.

Allor que' duo, già vinti da un' ardente Brama di ragionar libero e chiaro, Pieni amendue d'alto pensier la mente, Pel selvaggio cammin si dilungaro.

CANTO QUARTO.

FACEAN ritorno al solilario albergo Mentre sul balzo oriental parea Quella che ha l'ombre innanzi, e il sole a tergo.

Lieto Castruccio a l'Alighier dicea! Del ciel furaggio quel pensier, che in prima Tua sapienza ricercar mi fea.

In me sì largamente da la cima
Dell' intelletto tuo luce discese
Che mia speranza omai certa s'estima.

Magnanimo signor, Dante riprese,
A' gran disegni tuoi contro non mova
Quell'avversaria delle sante imprese,

O alquanto il ciel de la sua grazia piova, E qui le genti per età lontane Il nome tuo benediranno a prova.

Quando grave una voce: o menti umane, Voi nel tempo futuro edificate, Nè certo fondamento è la dimane! [te

L'un verl'altro, a quel suon, maravigliaVolser le ciglia, e tacquero, e fer sosta, Prestando orecchio il cavaliero, e 'l vate.

Quella continuò: cangia proposta Tu che la speme a tanto ergi secura; Troppo da lungi la gran meta è posta.

Oh quanta etade io passar veggio oscura, E calda ancor di civil odio insano Su la tua derelitta sepoltura!

Ecco più chiaro secolo ed umano; Ecco più degna ai cor fiamma s' apprende, Ecco uscire un guerrier di Vaticano.

Per quanto Italia si dilata e stende Bramoso dal Tarpeo lo sguardo ei volve, Poi d'arte armato e di valor giù scende.

Ma un'ombra, che nel gran manto s'invol A mezzo il corso trionfal l'arresta. [ve L'opra dell'empio innanzi sera è polve!

Tacque; e i duo che venian per la feresta,

Giunti colà, donde quel suon procede; Parean tacendo dir: che cosa è questa? Videro allor dell' alta croce al piede

Il fraticel che in pria pace lor disse,
D'un icognito ardor, che lo possiede,
Acceso il volto venerando, e fisse
In alto le pupille, immoto starsi,
Qual se parlar l'Onnipossente udisse.
Intanto, a la sua voce, ecco gli sparsi
Accorrer consapevoli fratelli,
E quivi intorno a lui tutti affoltarsi.

Uscendo il buon rettor di mezzo ad elli, Mira, a Dante gridò, come il ciel pregia Gli umili spirti, e si compiace in quelli.

Questo santo romito, a cui non fregia Altro che fede e carità la mente, Spesso dell' avvenir Dio privilegia.

E se vicina allor cosa, o presente, D'una secreta sua virtù lo sproni, Ivi spande il profetico torrente.

O dolce padre, che colà ragioni, Ripiglio l'ispirato, a tal che fia Tra breve un nome che in eterno suoni, Vien qua, vien qua, chè per la lingua mia Al penitente tuo viver votivo Conforto il ciel non aspettato invia.

Quel pargoletto, che di vita privo Piangi, mercè de la fedel nutrice (Sappilo, e godi, e Dio ringrazia) è vivo.

Fia di casta donzella oggi felice, Che, spente l'ire, i tuoi nimici a lui Disposeranno: e di cotal radice

Verrà pianta, onde fia germe colui Che, dopo cinque secoli, di questa Notte dirà con non vil carme altrui.

Oh come il veggio, oh come manifesta M'è nel cospetto quell'età si tarda! Oh quanta un vivo Sol luce le presta!

Un Sol, cui stupefatto il mondo guarda,
Tutta di bel disio, tutta di speme
Fa che la gente si ravvivi ed arda.

Qui ferve, dopo lui, più largo seme
Di gentilezza, di saver, d'onore,
E d'agghiacciati venti ira non teme.

Qui tien mansuetudine ogni core, Dolce negli atti, e ne' sembianti amica; E parla caritade, e spira amore.

Ma fortuna vegg' io, sempre nimica, Come dentro le molli anime allenti Il santo ardor de la gran fiamma antica. Del fior vegg' io de le novelle menti Poche seguir quel benedetto raggio, Sol per cui si rallignano le genti.

Altri l'intera dell'uman legnaggio Felicitate di lontan saluta, E per lei vagheggiar torce il viaggio. Parte, anelando all' arduo ver, perduta

Sovra l'ali fantastiche, la traccia, Torna di nebulose aure pasciuta.

Parte gl'ingegni d'allettar procaccia Dietro all'arte che il Figlio di Maria [cia. Sgombrò del tempio, divampando in facO intenzion, forse benigna e pia, Indarno, indarno che riesca aspetti A meta liberal cupida via.

Rendete il vital cibo agl' intelletti, Non ismarrite la verace stella, Rinnovellate di fortezza i petti.

Ve' come sorge maestosa e bella Più da lungi una donna, che con voce Formidabile esclama: ancor son quella!

E cinta di virtude ecco un feroce Con la destra rispigne ingordo mostro, Con la sinistra man leva una croce.

O immortal segno del trionfo nostro, Lume sull' onde tempestose immoto, Io ti veggio, io t'inchino, io mi ti prostro. E ginocchion gettandosi devoto, Con la faccia, che a un tratto discolora, Cadde in sull' erbe senza senso, e moto.

Alto un silenzio, un meditar che adora Le arcane vie di Lui che sè consiglia, Segui d'intorno a quel giacente allora.

Di gioia il duce de la pia famiglia
Bagna le guance; l'Alighieri atterra,
Castruccio tien nell' Alighier le ciglia.
Aurea consolatrice della terra,
Piovuta all' ime valli era da' monti
La pura luce, che i color disserra.

Già percoteva quelle pensose fronti
Il Sol, che omai l'ispide cime avanza,
E co' suoi raggi, di letizia fonti,
Giù discender parean lena, e speranza.

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