Sayfadaki görseller
PDF
ePub

O L'ARTISTA,

CANTO

DI SAVERIO BALDACCHINI.

CLAUDIO VANNINI nacque in Siena di nobili, agiati ed amorosi parenti, verso la metà del sestodecimo secolo. Non ancora uscito di puerizia, prese a sentir troppo altamente di sè, mostrandosi poco curante degli ammaestramenti e de' consigli, di che è tanto bisognosa l'età prima dell' uomo. Giunse ad infastidirsi della famiglia, e della città e dell'Italia, sicchè, come prima potette, passò oltremonti, affine di dimenticare del tutto la lingua, le usanze e la civiltà italiana. Nella Svizzera cominciò a dipinger paesi, battaglie ed altre sue fantasie molto bizzarre, tenendo metodi affatto diversi da quelli, che si osservavano presso di noi, e procurando di scegliere nella natura il brutto dal brutto, anzichè il bello dal bello, come usavano di fare i nostri migliori maestri. In Francia alcune rappresentazioni troppo fedeli di cose laide e lascive gli acquistarono fama, e in talune brigate dicono ch'ei fosse assai volentieri accolto le quali egli soleva intrattenere con la recita di certi suoi versi, in cui si studiava di porre in derisione le credenze e le dottrine più essenziali al viver civile. Ma, ritornato in patria, egli fu talmente compunto dal veder morire cristianamente la madre, che da quell'ora non fu più lo stesso uomo. Ed aveva in animo di riformare eziandio la maniera ch'egli teneva nel dipingere non che nel poetare, e desiderò lasciare al mondo un'opera, che potesse stare con la Cena di Leonardo e con la Trasfigurazione dell' Urbinate. Ma il troppo ardore, con che si diede in Roma a rifare i suoi studi in una età omai matura, fu causa che a compiere i suoi nuovi concetti non gli bastasse la vita.

Di Claudio Vannini non ragionano punto gli scrittori della storia della pittura, e solamente da alcune cronichette di artisti, che si conservano manuscritte in Siena, ho potuto raccogliere queste notizie e le altre, di che mi sono giovato, scrivendo il componimento, che ora mi piace di dare alla stampa. Di lui si mostrano ancora alcune tavole, nelle quali di leggieri si ravvisa l'orma di un potentissimo

ingegno, capace di grandi cose, se non fosse uscito fuori di via. Tanto vero è che poca e fugace fama si trae dallo strano e dai delirii di una fantasia inferma e odiatrice degli uomini, nel mentre che eterne durano le opere, le quali sono condotte in guisa che soddisfacciano ai sentimenti ed ai bisogni della universa rostra

natura.

CLAUDIO VANNINI,

O L'ARTISTA.

QUANTO mutato io son da quel ch'io m'era Nella mia folle giovinezza! Ed ora, Senza ch'io n' abbia raccapriccio, innanzi Al pensier mi si schierano gli eventi Dell' agitata vita: un solo istante Soccorrevole a me si discoperse D'infinita pietà, che l'uomo antico Al tutto spense, suscitando (oh gioia!) L'uom novello, ch'è pari al pellegrino, A cui dello stranier fumano i tetti, Ed all'ombra d'un salice, che incurva I rami melanconici s'asside; Poi, sollevando la sua mente a un cielo Puro di nubi, si rassegna e spera!

Fanciullo ancora io m'era, ed uno strano Superbir di me stesso ed un dispregio Di tutte cose in me sorgea. Dai cari Trastulli dell'infanzia io mi toglieva, Impaziente in van, le tenerelle Mani sporgendo, la minor sorella Ch'io rimanessi ai consueti giochi Mi supplicava : il suo pregar, le sciolte Anella, più che l' or bionde a vederle, Il largo pianto, le innocenti strida

Nulla poteano in me, cui già indurito
In una età si verde erasi il core.
Solo mi ritraea dentro la mia
Cameretta romita, ivi sdegnando
Sui volumi chinar l'altera fronte,
Onde erudite sono ai primi veri

Le giovinette menti : e mai lo sguardo
Io non levava alla parete, dove
Pendea più d'una immagine devota,
Che feami ad umiltà söave invito.
Sul letticciuolo mi sdraiava, e agli occhi
Io facea velo delle palme, troppo
A me increscendo della luce il raggio.
Tutto di me l'impero abbandonava
A quella inferma fantasia, che truci
Mi venía presentando orride larve,
Onde staccarmi non sapeva, a loro
Quasi mi congiungesse opra d'incanto.
Ma poi che più sottili a poco a poco
Si fean quell' ombre, e alfin nell'aer voto
Si discioglieano interamente, acuto
Più assai che di coltel punta omicida,
Me un desiderio percotea di girne
Dalla famiglia e dalla patria in bando
A meno odiate rive, entro la mente
Una ferina libertà sognando.

Ma pur, sebben l'odio albergasse or meco,
Sebben lo sguardo, pria sereno speglio
De' riposi dell' alma, intorbidato
Ne fosse, e dal livor pallide e scarne
Divenisser le mie guance, fiorenti
Già de' colori che il mattin risveglia;
Entro al petto di quei, che mi donaro
La vita, ardeva ognor pura, incessante
Per me la fiamma dello stesso amore.
Ancor che nulla io lor chiedessi, quando
Già verso il mezzo procedea la notte,
Sempre sul capo mio de' genitori
Le mani si stendean, benedicendo;
E sovente scopria sopra il lor ciglio
Mal celata una lagrima posarsi.
Ma il lor segreto affanno, ed i colloqui,
Onde ambedue quell' anime pietose
Si sfogavano insieme, e la preghiera,
Che pel figlio men buon sorgea più calda,
lo tai cose ignorava, o m'infingea
D'ignorarle, a me stesso e al ver nimico.

E giunse il tempo alfin che andarne lunge Mi si concesse dalla patria terra. E a voi sanesi allegri colli, a voi Beate valli che la placid' onda De l'Elsa bagna, le mie spalle io volsi, Senza che un mio pensier vi salutasse.

1 Nè desiderio in me nasceva alcuno
Che un'altra volta udir potessi i suoni
De la natia favella, onde più cara
Nissun' altra non è, se fra le labbra
De le giovani donne erra, più molle
Più söave dell' arpa e del liuto.
Ahi, troppo in ira al ciel nacque colui,
Che ascoltar può tanta magia di note
Voluttuose, e non sospira ed ama!
Tale io partiami dalle case, in cui
Fra mille esempi di virtù trascorso
Era il tempo infantil. Ma in su la soglia,
Me seguitando ancor col guardo, immota
Stava una pia, tutta vestita a bruno;
Poi che da poche lune era il diletto
Compagno suo sceso nell' urna. O madre,
Nella stagion d'Autunno entrava appena
La tua semplice vita, a cui cortesi
Si mostravano ancor le tiepid' aure
E la limpida luce. Eri ancor bella,
O madre mia, però che dove albergo
Pudiche voglie ed innocenza han posto,
Non così presto, come suol, languisce
Di giovinezza e si disperde il fiore.
Che vale! Ahi, quella tua salute, ch'io
Poi ritornarti avrei voluto a prezzo
Di tutte cose e di quest'anni miei,
In pensier vani e in vane opre consunti,
All'ingrato figliuol sacra non era!

E valicai l'elvetiche Alpi. Belle Le incrostate dal gel rupi, e il profondo Baratro, che s'apria sotto i miei piedi, A me bello parea; bello quel cupo Tuonar delle valanghe, e belle ancora Le assidue gravi nebbie e le brumali Aure pungenti, ch'io spirava insieme Co' nimici d'Italia. - O del Tirreno Placidissime rive, al sol dilette! O veneta laguna, a tutte l'ore Dalle leggiere gondole trascorsa E dal canto de' vati! O sui boschetti De' sorrentini e amalfitani colli Correr di freschi zefiri, cui grato È il profumo de' cedri e degli aranci! O voi silenzi delle sere, quando Su le tombe de' martiri si posa E su le antiche tue ruine, o Roma. Misterioso delle stelle il raggio; E par che in quella ora solenne, tutto Da una immensa speranza confortato, Il sospiro de' secoli, più puro Che dall' are l'incenso, alzasi al Cielo ! Sacre memorie della patria ! obblio

Di voi me circondava : e fastidia
D'uno spontaneo immaginare i lieti
Dorati sogni e le armonie d' Amore,
Del semplice e del vero imitatrici.
Povero, inetto io 'l fin dicea di quelle
Arti gentili, che fermår le sedi
Su le rive del Tevere e dell' Arno.
A che nelle ammirate opre de' nostri
Quella pace diffusa e quel riposo ;
Mentre una fiera legge, a chi ben dentro
Mira, travaglia col dolor le cose
Arcanamente? Ov' è una vera gioia,
Ove una intensa voluttà, che, quando
Duri più d'un fuggevole momento,
Non s'estingua nel tedio o nella morte?
Dunque correrà l'uom, seguendo eterni
Inganni, e mai non avrà cor che basti
A sollevar dell' universo il velo?
Mai, mai non fia che impavido dinnanzi
Al suo fato star possa e alla sventura?
Solo trionfo, che ottener ci è dato
Contra una forza onnipossente, ch'io
Maggiormente nimica e dispietata
Estimo, allor che de' color più vaghi
D' un'iride di pace si riveste.
Ahi! di lieti color forse non vedi
Adorne andar le maculate tigri?
Eppur corrono al sangue sitibonde,
Dal medesmo disio tratte, che spigne
I rettili più immondi ed i più brutti
Mostri, che fan la terra e il mare orrendi.

[blocks in formation]

La contemplata scena: una sconvolta
E squallida natura, uno scontrarsi
D'elementi veloci all'odio e ai dolci
Complessi dell' Amore immoti. Il nulla,
Onde rifugge l' uom, d'interminata
Vita bramoso, erami innanzi; ed io
A lui, siccome al ver, sentiami spinto.
Intanto la febbrile opra avanzava
Sotto la man rapidamente : e tutta
De' vapori tingendo si venía,

Ch' esalan dai vulcani, e delle fiamme,
Che dai crateri loro a strugger vanno
Del nudo agricoltor l'ultima speme.
Ne dai graditi studi a me parea
Ch'io cessassi, qualora, abbandonato
Per istanchezza mi cadeva il braccio,
E le mie luci, ancora aperte, il sonno
Visitava:
: e il delitto in varie forme
Tramutarsi io vedea. Vedea da macchie
Ascondite ferir petti innocenti
Il piombo inesorato, e balenava
Sopra le donne supplicanti il ferro
Degli assassini; indi ne gien que' crudi
Con le atterrite a mescolarsi in sozzi
Abbracciamenti. Adultere consorti
Affigurava, che porgeano ai loro
Securi sposi avvelenati nappi.
Strana cosa! pareami acuto il guardo
Le più ignote latébre penetrasse

De' cori umani: ed io scorgea che sempre
La virtù, cui più'l mondo applaude, è frut
D'una impura semenza, e da men rea [∞
Radice surge il vizio abbominato ;
Sicchè a strappar dal crin de' gloriosi
Le immeritate civiche corone
Fora giustizia, e in quella vece il capo
Fregiarne di colui, che sotto il taglio
S'incurva già di scellerata scure.

Co' pensier dell'artista Iddio non era, Iddio che solo ai nostri mali trova

[no,

I farmachi söavi, Iddio che solo
Fa trionfar la vita. A lui che sono
Lo spazio, il tempo? A lui, che regge eter-
E il convesso infinito ha per dimora !
Ch'è il dolor mai, se ne fia dato un giorno
Obbliarlo ne' limpidi lavacri
Di paradiso? ove la pura sete
Ristoran dello spirito acque, il cui fonte
Inaridir giammai non puote! Ahi stolto!
Quante fiate contemplando i miei
Tristi lavori, con la gioia istessa
Di Satana superbo io men compiacqui;
Poi che in lor non trovava orma nessuna

Di celesti speranze! E quando fama
Presero ad ottenere i miei dipinti
Päesi e le battaglie e tutti quanti
I miei cupi deliri, io n'esultai,
Pensando che in altrui discolorata,
Come in me, si saria qualunque idea
Consolatrice; e ai miei tetri fantasmi,
Idoli amati della mente, avrei
Allargato l'impero. Oh, fra me stesso
Dicea, sovente men fia che interrompa
I notturni silenzi un suon devoto
Di fervide preghiere! Oh, tolto all' alme
Fia l'aspirare a un etere più puro,
E irradiarsi tutte e tornar belle
Ai rai d'un Sol che non dichina a sera!
Fallaci sogni, a cui diè vita un tempo
L'arte bambina, ed or, che adulta è fatta,
Con impavida man distrugger debbe!

Securo, ahi! troppo omai, che nel sel-
vaggio

Recesso erasi in me spenta qualunque
Favilla estrema della fede antica,
L'erma rupe lasciai, desideroso
Di veder le cittadi un' altra volta,
E di svelare all' uom con la parola,
Del vero e dell' error ministra a un tempo,
La tenebrosa mia scienza. Come
Si scaglia rapidissimo dall' alto
Il nibbio o il falco a divorar la preda,
Di sangue sitibondo, io tal scendea,
Più feroce di lor; poi che una strana
Voglia mi travagliava (orrido a dirsi !)
D'uccider l'alma, la cui pura essenza
Sol di virtù, come di nardo e incenso
La fenice, si nutre; ed è beata
Nel vagheggiar quell' assoluto bene,
Ond' ella emana, ove tornar poi lieta
Dovrà, con ali disïose e pronte.

Quel pensier, che affrettavami i pennelli A falsar la natura, e d'un funereo, Squallido manto a rivestirla, gl' inni Sul labbro mi ponea ne' lochi istessi, Ove in altra stagion surger fur viste Le drüidiche pietre insanguinate. Ed era udito volentier; chè ancora De' nepoti ne' petti una gran parte Dell'indole natia serbasi intera. Ancor fra i detti concettosi e i molli Effeminati giochi e le lascive Danze vien che trascorra il fero Celta Ai nefandi delitti, e in essi trova Di nova voluttà (chi 'l crederia?)

Rinascente cagione. Oh, che fia quando
Al tutto obblierà le gravi norme
Dell'italico senno, ed i costumi
E l'arti ch' ebbe dalla patria mia?
Quando ne' tempii diroccati muta
La parola sarà, che tutti a vera
Libertade chiamò quanti siam figli
D'un comun padre, che l'amor comanda
Dalla fulgida Croce ed il perdono?
Quando fieno i riposi delle tombe
Con man profana violati? e in brutti
Antri o spelonche di ladron converse
Le splendide città? deriso il puro
Sagrificio d'un cor, che ad immolarsi
Vola per l'altrui bene, e obblia sè stesso?
Pure illeso è un altare. Ahi, vi s'innalza
L'idol dell'oro! Oh come ad esso a calca
Traggon le genti, supplicando ! Oh come
Nel vil fango prostrate ergon le braccia!
E onnipossente ai suoi cultor si porge
L'idolo osceno; poi che tutto, ond' essi
Hanno vaghezza, ei donar puote; solo
Le dovizie dell' alma ei non dispensa,
Inutili per quei che nel tripudio

De' sensi han posto ogni lor bene, ed ebbri
Alla tazza mortifera le labbra
Accostano tremanti, impallidite;
Inutili per quei che alle serene
Vigilie del Signore han chiusi i lumi;
Inutili per quei cui grave pesa
La fredda pietra del sepolcro, dove
La celeste colomba innamorata
A posarsi non vien, recando in bocca
Della mistica oliva un ramoscello!

Ahi, quale amara rimembranza or viene
Ad assalirmi, ch'io scacciar vorrei ;
Però che a diffidar della implorata
Pace mi spinge, e quasi un'altra volta
Del ciel gli aperti campi a me ritoglie!
E pur nimica di pietà non sembra
La lieve immago, a cui dinnanzi io tremo
E mi discoro. Ah! perchè mai sul seno
E su gli omeri a te cadon diffuse
Le nerissime chiome, o giovinetta?
Ed affannosa poi con ambe mani
Dividerle procuri? e a me discopri
La pallidezza del tuo volto e 'l duolo?
Perchè le grandi tue brune pupille
Da me non volgi, ed il tuo labbro è muto?
Quel tuo tacere, Alda, è tremendo. Ahi!
Che una lagrima sola ti discorra (senza
Dalle incavate luci, a me tu chiedi
La disfiorata tua bellezza e il prisco
Candor dell' alma e il verginal sorriso.

Una sostanza angelica, serena,
Cui vestien le più pure eteree forme,
Eri, io 'l so, quando a me t'abbandonavi
Securamente; chè, di colpa ignara,
Sacra cosa ti parve il primo invito
D'Amore, il primo involontario e caldo
Sospir, che manda il cor, quando si desta
Dagl' infantili sogni a un viver novo.
Alda, perchè co' miei profani sguardi
Incontrarsi dovea quel tuo pudico
Sguardo innocente? perchè mai dovea
Per opra mia la prezioza gemma,
Che di limpida luce folgorava,
Più che quante ne invia l'indica piaggia,
Cader nel fango e disparire al mondo ?

Quando in prima ti vidi, una funesta,
Invida nebbia mi cingea, che poscia
Si dileguò, ma troppo ahi! tardi, allora
Che già discesa eri fra l'ombre. Oh come,
Or che una fiamma, da superno loco
Discesa, m' ha purificato, oh come,
Secondo ch' era il tuo disio, capace,
Alda, io sarei di amarti intensamente;
Secondo che amar dèssi alma sorella,
A noi da Dio mandata, aflin che questo
Transito breve sulla terra dolce

Ne sembri, e all' uom quaggiù tutta non sia
Dell'eterno avvenir chiusa la gioia!
Ma che? sepolto nel mio cieco errore,
lo dal tuo volto non vedea, da tutta
La tua persona farsi manifesto
Uno spirto immortale; io non sentia
Quel molle effluvio, che ne' cor penetra
Nascosamente, e crea quivi un' arcana
Voluttà, che d'assai vince de' sensi
La passeggiera ebbrezza. È ver, sovente
lo d'amarti credetti; e tel dicea,
Mentre fra le mie braccia io t'annodava,
Mentre l'eburneo tuo petto battea
Sul mio petto, e 'l tuo fiato a me venía
Carezzevole più ch'aura d'aprile.
Ma, dal dubbio assalita, ahi! sospirosa
Tu piegavi la fronte, e spesso, quando
Più 'l piacere inondavami le vene,
E mi tenea, quanto esser puossi in terra,
Beato, in un dirotto e largo pianto
Scoppiavi; e, come suole al duro soffio
Tremar di Borea la palustre canna,
Così tremavi, in tuo pensier presaga
Forse che l' uomo, a cui ti confidavi,
Presto ahi data t'avrebbe alla sventura !

In me albergare Amor già non potea; Poi che ogni cosa, che gentil non sia,

E a ben disposta, ei fugge ed invilita
Erasi in me, contaminata troppo
La più secreta parte, ov' ei sol usa
Discender come in sua natural sede.
Non già sull' ardue vette, aspre di gelo,
Non sulle piagge, ove continuo spira
L'affrico turbo a inaridir qualunque
Sembianza della vita, avvien s' appigli
Delle vergini rose il caro germe;
Ma si dove il terren docile e pronto
In vaghe aiuole si divide, ognora
Dalla pioggia invisibile spruzzato
Delle molli rugiade, ognor sorriso
Dalla diurna luce, ecco tu vedi
Delle vermiglie e candide sorelle
Aprirsi il seno, a ringraziar co' loro
Profumi söavissimi la queta
Natura, che di lor s'allegra e gode.

Là 've il sonante Rodano discende Ad allagar la valle avignonese, In umile abituro Alda si stava. Felice, se a colei, che le diè vita, L'onesta povertà non increscea! Felice, se il diletto genitore, Soggiacendo al destin, non la lasciava Orfanella immatura! Era costui Nato in Italia sugl' irrigui colli Del Casentino, e in sventurate guerre, Ma generose, speso aveva il primo Fior dell' etade. Il dir basti che molto Il gran Ferrucci l'onorava : e a fianco Dell' eroe combattette a Gavinana, Quando quel lume della patria giacque E la speme de' nostri. Ed egli il pianse: Chi nol pianse in Italia, oltre que' pochi Nel cui petto batteva un cor simile Al cor di Maramaldo? Alme feroci, Che vedi congioir, quando maturo D'una patria innocente è 'l sacrificio! Ma tal d'Alda non era il genitore: E la fortuna degli Strozzi ei volle Indi seguir, di cogliere bramoso Un'allegra vendetta. Ahi, l' aspettava Sulla riva di Francia il tristo esiglio! Ov' ei fea chiaro, a pro dello straniero, Che la vicenda degli umani eventi, Forte quant'è, non può mai spegner tutto L'italico valor. Ma che? di quelle Sue nuove imprese a ragionare il suo Labbro era schivo. » Sola gloria mia, (Diceva) è il sangue, ch' io ne' campi sparsi De la bella Toscana a pro de' miei Concittadini. Queste (e le toccava

« ÖncekiDevam »