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Con la incallita man) son le onorate
Mie cicatrici. Oh, s'io spirar potea,
Mirando con la tremula pupilla
Vittoriosa dispiegata all' aura

La mia bandiera antica, in un tripudio
Di tutta gioia dal suo corpo l'alma
Saria partita! nè sollerto avrei
Superbi imperi, e più superba forse
Quella pietà che con lo scherno è mista!»-
Così l'intenso duolo ei disfogava,
Quando dai mali oppresso e dal disio
Della terra natale, abbandonati
Gl'inutili conflitti, ahi d'una lunga
Morte, incresciosa tanto a chi ne' rischi
Esultò delle guerre, ei si moria!

Scarso conforto agli ultim' anni suoi
La straniera consorte avea recato;
Poi che, siccome del guerriero ignoto
L'era il dolce idioma, ancor più l'era
L'alto sentire ignota cosa: intanto
Cara egli aveala, e l' adorava quando
La tenera figliuola, una bambina
Tutta sorriso, tutta amor, venía
Sopra le sue ginocchia a trastullarsi,
A imprimer sopra la rugosa fronte
Le rosee labbra. Ei di buon' ora un sacro
Nome le apprese a profferire, il nome
Della patria perduta: e la gentile
Alda devotamente il profferia,
Si che sentiva esilararsi il core,
Rintenerirsi quell'antico: un solo
Nome una immensa voluttade e insieme
Infinito dolor risvegliar puote.
Tale era il nome, che sonar faceva
Alda, söave più che una melode
Sospirosa, che muore nell'aere, eppure
Nell'imo petto ti ragiona ancora!

Oh! chi ridir potria con quanta fiamma D'amore, e tutti rivocando i suoi Languenti spirti, l'esule infelice Tra le braccia ponea della consorte Solennemente la figliuola? « È questa L'unico mio tesoro (ei le dicea) Ne morrò tutto su la terra; poi Che gran parte di me rivive in essa, E il puro sol della mia patria splende Nel sereno suo volto. Una gelosa Cura di tanta leggiadria, di tanta Innocenza aver dei: questo il comando, Questa l'estrema mia preghiera, o donna. Ch'ove men che sollecita tu fossi A tutelarla, ombra severa, io 'l giuro, A turbarti verrò ne' tuoi riposi. »

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Il primo obbietto, a cui leviam lo sguardo;
Poi che si scopre a noi quale la mente,
Ricca di tanti limpidi colori,
Ce l'affigura. E meglio era talvolta,
Se dispogliata de' suoi vaghi sogni,
Se bella meno sorrideva a noi
La primavera della vita. Amaro
Quel disinganno che vien poi, che crea
Un deserto che ognor più si distende!
Alda mi amo: le ricordava il suono
Delle italiche voci il padre estinto;
E tutta si stringeva a me secura,
Come la verdeggiante edera all' olmo.
Possibil non credea nel suo pensiero
Che dovesse mentire alla innocenza
Un uomo, al quale avea donato il Cielo
Si nobil patria, di memorie altera,
Più altera di speranze; un loco a cui
Con l'alma disiosa ella correa,
Come i primi parenti ai be' palmeti
Correvano col core ed ai ruscelli
Dell' Eden profumato. « Oh (mi dicea}
Cola ne andiamo, (ed accennava il lito
D'Italia). Quella è la natal mia terra,
Dove il padre nascea, dove nascesti
Tu, mio novello amico! Oh, mi conduci
Al beato paese oltra quell' Alpe!
Ed io più bella ti parrò, più caro
Tu mi sarai: ch' ove più puro è il raggio
Del sol, più lieta la natura; quivi
Immensamente crescer dee l'amore.

Tra le vaghe donzelle, il cui soggiorna Sopra un pianeta, dove l'odio alberga, Breve esser suole, Alda splendea la prima; Ne so qual' altra mai più degna fosse Che altero un uom la conducesse all' are Temute, là've un Dio stringe le destre, E sacre rende le armonie de' cori. Ma de'be'riti delle nozze in lei Non nasceva il disio; però che mai L'improba madre non le avea parlato Le parole di vita, e discoperto Di che larghi tesori è fatta erede La chiesa di Gesù, che posson soli

Porger soccorso a questa inferma e frale
Nostra natura. O misera donzella,
Alla candida tua mente, si vaga
Di dolci affetti, invidiate furo
L'estasi mute, onde s'ascende al cielo
Su gli aurei vanni della fede. Tutta
In me dell' amor suo locato avea
La tenerezza. O Dio, perchè volesti
Che a un démone, qual io m'era, affidata
Fosse costei? Costei, che pellegrina
Angeletta parea sopra la terra,
Dimentica de' suoi lochi bëati.

Ma pur, tant' era l'indol sua composta
A un söave sentir, spesso nell'ora,
In cui fra i liquid' ostri e gli ori in una
Nube di sottillissimi vapori

Il gran pianeta si nasconde, e insieme
Con gli ultimi suoi raggi erran sui clivi
Morbidamente circonfuse l'ombre;
In quell'ora di pace e di profondi
Silenzi, che a pensar ne invita ai cari
Lontani o ai cari estinti, ove Alda intorno
Dall'erma torre del cenobio udisse
Spandersi un suono di notturne squille,
Trascolorava, l'umida pupilla
Alto levando, quasi intrattenersi
Con più sublimi spirti ella volesse
D'un nascoso desire: e le tornava
La preghiera che il padre ripetea,
De le sere il saluto a lei, che il capo
Or di stelle circonda, e qui fra noi
Co' due più sacri nomi è salutata,
Onde mai donna esser può lieta, i nomi
Di vergin pura e d'amorosa madre.

In tale atto ritrarre Alda io dovea Con l'opra industre de' colori; e tale Leonardo l'avrebbe o quel d'Urbino Ritratta o quanti furo itali artisti Delle immortali forme innamorati. Invece io quella diva immago impura Stranamente rendea sopra le tele. Una beltà, tutta di Ciel, venía Da me stolto mutata ora in lasciva Maga, fabbra di frodi, ora in quelle Uri, Corpi senz' alma, che promette ai suoi Ciechi seguaci l' arabo profeta. Alda adagiando sopra molli strati Nuda le membra, alabastrine e assai Morbide più che bianca ala di cigno, Erami innanzi : ed io la deridea Sovente, e seco mi sdegnava quasi, Allor che si tingean di bel pudore

Sue fresche gote, nè sapeano gli occhi
Della donzella balenar la fiamma,
Che possente è a serbar deʼlaidi affetti
Il tumulto, a nutrir le invereconde
Fantasie, schive degli aurati freni,
I quai l'arte gentile ognor dilesse.

Una sera, ah non fia che m'abbandoni Il sovvenir di quella sera! assiso Infra una turba di garzoni impronti Ad un'orgia io mi stava, a un reo bagordo. Fumavano le mense, in breve i colmi Spumanti nappi eran votati, errava La licenza de' motti, imperiosa La più vile di noi parte regnava; Però che il cor tacca, però che alcuna Favilla non partia dagl' intelletti D'eccelsa luce a rischiararne in quella Tenebria cieca. Trista cosa i canti Entro orrida prigion d'una delira Allegrezza; più tristo ancora il riso Inverecondo, con che l'ebbro applaude Alla caduta dello spirto! Ah mai, Mai creder non potevi, Alda, che 'l tuo Destin fosse librato in quella infame Ora; che'l corso de' tuoi giorni tronco Una parola di stoltezza avrebbe; Che l'uom, che amico tu nomavi, a cui Più che sposa congiunta eri nel casto Pensiero del tuo cor, ti avria reietta, Niegando ch' ei ti avesse amata mai.

Alda, cosi poi mi narrâr, si stava Presso un verone impazïente : e spesso Intendeva gli orecchi, e sospirava Della tarda ora, la notturna lampa Contemplando, che omai di fioco lume Splendeva appena, a spegnersi vicina. Ahi! parimente la sua cara vita Era presso a mancarle. Ode da lunge Un calpestio. «Ch'ei ritornasse?»...e dirlo Timorosa non volle. Ma più sempre S'avvicinando il calpestio « Si, torna Certamente.» sclamava; e le battea Un'altra volta il cor, che tutto quanto A una gioia s'apria che fu l'estrema. Più non la punge ansia veruna; in mente L'infinito piacere ella pregusta Del riabbracciare il suo diletto, e paga Sopra un amico seno addormentarsi. Già le nivee sue braccia ella distende, Gia le sue labbra a côr ne vanno il bacio Soave del ritorno. O sventurata, Un uom t' è innanzi ; ma non è costui

Quei che attendevi. E che vuol mai? te sacra
Rende l'amor, che ti sublima. Eppure
Arditamente quell' ignoto giura

Ch' Alda sua diverrà, ch'ella è già sua.
E la misera lo son d'altri » dicea;
E un nome profferia, che vergognando
Tacer deggio. Son d'altri » - e superbiva
Innanzi allo stranier dell' esser mia;
E nel veniva minacciando. Ahi, quale
Allora ella restò che le fu aperto
Il terribil mistero, e co' suoi propri
Occhi legger potè, da me vergato,
Un foglio in che di lei, quasi ella fosse
Inanimata cosa io ragionava!
In che dicea ch'ella più mia non era,
Che lieta fosse per novelli amori,
Che me al tutto obbliasse : e soggiugnea
Ch'io m' apprestava a rivedere Italia.
Amaro scherno! quella era la terra
Dai fervidi suoi voti irradiata.

Ella non pianse, non diè fuori un grido; Ma in un attimo solo alla sua vista Ed alla mente si spogliar gli obbietti Dell'antica sembianza, e parver tutti Nel più strano viluppo esser confusi. La vita, il mondo, un' armonia d'amore Costringe e move: or che fia mai, se questa Cessa per noi subitamente, e al nostro Indomato disio più non risponde? Come se'l fido suo sostegno è tolto A giovinetta vite, ella al suoi cade Disconfortata, e sua fresca verdura In poca ora smarrisce; in cotal guisa Alda giacea di respir priva, priva Di sentimento. E quei, che s'estimava Suo novello signor, venía ponendo Tutte sue cure, affin che dal letargo Quella bella infelice si destasse. Osava insieme accarezzarla, impuri Imprimer baci sulla cara fronte; Ed era come un profanar que' santi Simulacri di vergini innocenti, Che marmorei riposano sull' urne Nella casa di Dio. Ma dal suo grave Letargo ecco che alfine Alda si scote, E a sè dintorno gli occhi volge: ahi lassa! Tutta la sua sventura ha misurata Con solo un guardo. Che soggiaccia a tanto Suo vitupero? Esser non può : maggiore De' suoi vili nemici ella si sente Nella sua coscienza. Ed un novello Vigor questa le incuora: ardeale in volto L'ira medesma, onde avvampar solea

Quel guerriero, il cui sangue entro alle vene
Di lei scorreva, ahi! sol suo vanto il padre.
Dai turpi abbracciamenti, ond'era stretta,
Snodarsi, in pie balzar, muta nell' atto
Di chi l'antica mäestà ripiglia,
Dall' alto del veron precipitarsi
Là've'l Rodano al mar l'onda devolve,
È solo un punto. Un biancheggiar di vesti
Si vide, e poi questo disparve anch'esso:
Ne sui cerulei rincrespati flutti
Altro che il raggio d' Espero battea,
D'un sereno mattino annunziatrice.

Me novamente il mio maligno spirto Incalzava: e la piaggia, ov'io rimosso Dalle mie labbra avea l'ambrosia coppa D'Amore; ov'io, crudele, aveala infranta, M'era diletto abbandonar. La vista Liberamente pe' lombardi campi D'auree spighe ondeggianti e sparsi intorno D'amenissime ville e di cittadi, Si spaziava. Le bellezze tante, Onde s' adorna Italia in un estivo Giorno, m'erano innanzi, e tutte insieme Confondersi pareano in un sorriso Di piena gioia. Ma vaghezza alcuna Di naturali scene ahi! non potea Ammollir l'alma : e fra me stesso io stolto Giubilava al pensarvi. Or più non m'era Mestieri ch'io dalla paterna terra M'allontanassi : i miei feri concetti Rimarrebber con meco. E mi sentia Di me securo, come in altre etadi Tra i perigli avvolgevasi securo Cavalier, cui copria fatato usbergo La superba persona : ei ritornava Del suo castello alle merlate torri, Incolume da' campi, ove di molta Strage avea tinto l'affilato brando.

Fin da che il Moro aprio dell'Alpi il varco Alle francesi torme, in basso volte Furon l'itale sorti. Eppur si stava L'italo ingegno incontro ai fati. Oh, quante E quante volte il vincitore al vinto Umiliossi, e maggior parve assai Della corona de' potenti il saio Dell'artista, dell'uom che a un sol suo cenno Può le gentili idee chiamar dall'alto A visitarne ! Ora una gente impera Sopra la terra, or l'altra, e poi l'opprime Oscurissima notte e ferreo sonno;

Ma sopra tutte regioni Italia

Cosi diletta è al Ciel, ch'ella, quand'anche

Non isgomenti con le armate squadre E con le trionfati aquile il mondo, Inonorata irne non può; chè suo È dell' arti il retaggio: onde più bello Che l'altrui stolte imprese è il suo riposo, E fin più bella la sventura. Ah, pera Chi contristare osa costei! chi tenta Strapparle l'ombra della sua grandezza, Che si la privilegia, e fa parerla Quale un' esul reina, che ne' figli Magnanime speranze induce, e viva Tien dell' onor la sacra fiamma! Ah, pera Chi le dottrine generose e il culto D'Amor, che solo di prodigi è fonte, Sovvertir cerca, e a desïar ne invita Sovra i piaceri dello spirto gli agi, Le morbidezze sibarite! ovvero Come si debba disperar ne insegna; Come libero il campo agli operosi Iniqui abbandonar; come, nel vano Nostro orgoglio adagiati, i puri voti Schernir de' cori, in cui fidanza alberga! O diva mente, a cui, tra le conserte Placid' ombre del Sunio, i fati umaní Vestiti apparver di superna luce, Chi te non segue è quale inclito augello, Nato a librarsi per gli aperti azzurri, Cui tarpate sien l' ali ed ei giù piomba Nell' ima valle, ove il vapor l'uccide, Che infetto esala dalla rea palude!

Alle solinghe de' superbi spirti Dimore ovvero alle congreghe oscene Jo di girne godea, dove una molle Disciolta voluttade ogni dolcezza In rei succhi converte, e i cari affetti E delle mente i vaghi impeti arresta: Onde l'alma, di Dio nobil fattura, Niega l' origin sua, sè stessa niega, Niega la legge del dover, la legge Dell' eterna bellezza, e alla ruina D'ogni armonia dell'universo esulta. Indi un' arte si crea varia, scomposta, Tutta audacia e ad un tempo effeminata, D'un ben, ch'esser non puote, invereconda Promettitrice, ma di mali invece Fecondissima madre. Un giorno fia Sola sua gloria, se l'umana stirpe, De' soavi consorzi fastidita, Rieda a un viver ferino, e dell' antica Selva l'ombre letali e gli error ciechi [gne Vagheggi. Eppur quest' arte rea, che speQualunque germe di bell' opre, e i lieti Inaridisce esperidi giardini,

Donare a questa inclita patria io volli,
Sconoscente figliuol; perchè più desta
Non fosse mai dalle dorate aurore,
Che le prepara l'avvenir, dai giorni
D'una vita che sembri anco beata
Alle pie menti, che vorrieno il mondo,
Dalla fraude alfin salvo e dagli sdegni,
Fosse una dolce fratellanza, e questa
Obbediente a un padre solo, Iddio.

Dal di, che volte avea le spalle al fido Ostello mio, trascorso era oltre omai Rapidamente il decim' anno: ed ora Verso la parte, ove più cupo farsi L'azzurrino color parea del cielo, Benchè lontane tanto, io discopria Di Santa Fiora le tranquille cime. Già verso me la montanina, antica Brezza movea, già mi battea per mezzo Levemente la fronte : io già sentia L'almo profumo, che spirar sol puote Da que' luoghi, che fur cortese asilo Alla innocenza dell' età fanciulla. Così consacra la Natura il caro Vincol possente, che congiunge a lei L'uomo in mistiche nozze : ed ella ognora Dal dolce nido il risaluta, in cui Le braccia ad esso primamente aperse.

E anch'io dalla magia, che tanta intorno
A me si diffondeva, a restar vinto
Era già presso: me pungea la brama
Di riveder la mia Siena, e l'arsura
Del labbro io disïava un' altra volta
Spegner di Fontebranda alle chiare acque.
Ma il pensier, che d'ogni altro è il più gen-
tile,

Il pensier della patria, in me, smarrite
Le sue pure sembianze, divenia
Oltraggioso ed amaro; onde nel chiuso
Del superbo mio core io sì dicea :
« Bello sarammi il ritornare al loco,
Onde partiami giovinetto! Oh, quanti,
Ch'ebber già fama un tempo, i cui vestigi
Era io costretto di seguire, innanzi
Mi staran muti! e sì con solo un breve
Arguto detto io gli verrò turbando
In strana guisa: lor più trista assai
Sembrerà la vecchiezza e dolorosa,
Se con la vita impallidirsi insieme
Le immagini dell'arte anche vedranno
Vagheggiate da lor, quasi che mai
Non le dovesse abbandonar la luce,
L'eterno riso d'un giocondo Aprile.

D

[va

Eppure a poco a poco entro gli ascosi Seni del core divenien men truci I miei superbi affetti e le inquiete Mie brame. Ancora, è ver, non germogliaIl buon volere, il retto amor; ma intanto Io m'accorgea ch' era disposta l'alma Ad accogliere in sè novi pensieri, A volar più sublime, e d'alto poi Con vista acuta a contemplare il mondo Mirabilmente trasformato! In pari Guisa, se un uom, cui grave cura opprime, Entri in solingo tempio, ove risuona La devota degli organi armonia, Cui di vergini voci s'accompagna Söavissimo il canto, ecco l'antica Sventura par che in lui s'acqueti; ed egli Già si prepara a rivedere il volto D'una speranza, che a gioir l'inviti.

Tra le fronde, cui zefiro affatica, E il raggio errante del mattino in mille E mille forme indora, ecco a rincontro La villereccia mia casa biancheggia Sopra il facile clivo. Ed io là corro, E novamente quelle zolle, ch'io Nella età prima calpestai, calpesto. Quelli gli arbori son, che il genitore Con pio studio educava, affin che d'ombra Fosser cortesi ai suoi tardi nepoti; Quello il ruscel; che come pria si rompe Tra le polite pietre, e dolcemente Mormora e geme: presso a lui verdeggia Più d'un cespo di rose e di viole, E ancora i vaghi fior sui non turbati Suoi corsi di specchiarsi hanno in costume. Ancor più d'una gentil foglia è preda, Né par sen dolga, della limpid' onda, Che nella valle, placida, dichina. O riposate sedi, ed io potetti Abbandonarvi? Ah, sol beato, io 'l sento, È l'uomo, che giammai non dilungossi Dal domestico tetto, e ai suoi straniero, Neppur per una breve ora, divenne!

E te rividi, o madre mia, nè stanco Era di contemplar quel venerando Volto, che poi si presto a me rapito Esser dovea. Stupia che orma di sdegno Quella pia donna non serbasse alcuna : E diserta l' avea si duramente Indarno, indarno ne' lontani liti Obbliata. Che val? per altrui colpa Estinguersi non può materno amore. Sempre me sospirò, ne' penetrali

Chiusa, implorando il mio ritorno. Udii
Che spesso il visitar le abbandonate
Mie stanze l'era di conforto, e punto
Ch' altri quivi ne gisse ad occuparle
Non consentiale il cor. Me strinse alfine,
Poi che la prece, cui la fè riscalda,
Suole i Cieli piegar, me fra le sue
Braccia ella strinse un'altra volta : il suo
Sul mio capo inchinò. Sentii le gote
Un torrente di lagrime bagnarmi:
Eran le sue. Dopo un si lungo esiglio,
Quello era, o madre, della gioia il pianto!

Siccome avvien colà, nella remota Boreal piaggia, dove l'Orsa impera, Allor che il verno, da incessanti notti Contristato, si fugge, e 'l ciel s'abbella Subitamente d'un estivo sole, Che dal suo trono quegl' immensi ghiacci Rompe e dissolve: mille barche e mille Di variopinte banderuole adorne Percorrer vedi la riviera, e tutto Di semplici canzoni e di strumenti Rusticali rimbomba intorno il loco, Cosi rapidamente ogni durezza Da me si sciolse e rivocato fui Dagli amplessi materni a nova vita. Oh! come il cor me ne gioía, cui dolce Era il tornare ai suoi söavi moti, Libero nuovamente, or che su lui Più non sedea quell' invido fantasma, Che il caro sangue nelle vene emunge! Dalle labbra di lei desideroso Le lunghe ore io pendea : ne' detti suoi Un arcano potere era nascoso, Söave più che dittamo, versato Sulle ferite da pietosa mano. Il lungo affanno giovanile, il vampo D'un fallace saper, (luce sinistra!) Il turbo, in che d' avvolgermi godetti Come lo spirto, che d'un riso amaro De' naufraghi l'estreme ansie accompa Ogni memoria dell'antica guerra gna, Disgombravan da me quegli amorosi Colloqui: nella mia mente una intera Età si distruggea; spesso pensava Che da me non si fosse ancor partita L'aurora dell'infanzia. Oh me beato! Poi che del bel Giordano in sulla riva Il figliuol della Vergine s'udio Così gridar: «Serbansi i regni miei Solo a colui, che sè rende simile A questo caro pargoletto. » – e a tutte Le turbe accolte lo venía mostrando.

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