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E non tutta il gel dell'arte

Mai la vita in te freddo!
Sempre il cielo alcuna parte
Di sua splendida bellezza
Ondeggiar su te mirò.

La calunnia e la lusinga
Vili strisciano al tuo pie;
Ma tu semplice e solinga
Del ben far la pia dolcezza
Tenti, e gl'inni della fe.

O gentile! allor che belle
Di virgineo pallor

Ti sorridono le stelle,

Prega a Dio per le accusate
Ch' hanno l'opra impari al cor.
E d'affetti generosi
Ti componi un origlier,
Ove staneo si riposi
Nella fredda e sola etate,

O gentile, il tuo pensier.

LEGGENDA ROMANTICA

DI B. SESTINI.

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TRA le foci del Tevere, e dell'Arno, Al mezzodi giace un paese guasto: Gli antichi Etruschi un di lo coltivarno E tenne imperio glorioso e vasto : Oggi di Chiusi e Populonia indarno Ricercheresti le ricchezze e il fasto, E dal mar sovra cui curvo si stende Questo suol di Maremma il nome prende.

Da un lato i lontanissimi Appennini Veggionsi quasi immensi anfiteatri. E dall' altro tra i nuvoli turchini Di San Giulian le cime, e di Velatri, E dalla parte dei flutti marini, Sempre di nebbia incoronati ed atri Sembrano uscir dall' umido elemento I due monti, del Giglio, e dell' Argento,

Sentier non segna quelle lande incolte, E lo sguardo nei lor spazj si perde: Genti non hanno, e sol mugghian per molte Mandre quando la terra si rinverde: Aspre macchie vi son, foreste folte Per gli anni altere, e per l'eterno verde, E l'alto muro delle antiche piante Di spavento comprende il viandante.

Dalla loro esce il lupo ombra malvagia Spiando occulto ove l'armento pasca, Il selvatico toro vi si adagia, E col rumore del mare in burrasca

(1) Il Sestini tessè la sua leggenda su questi versi di Dante, e su vecchie tradizioni raccolte nelle Maremme.

L'irto cinghiale dagli occhi di bragia,
Lasciando il brago, fa stormir la frasca;
E se la scure mai tronca gli sterpi,
Suona la selva al sibilar dei serpi.

Acqua stagnante in paludosi fossi,
Erba nocente, che secura cresce,
Compressa fan la pigra aria di grossi
Vapor, d'onde virtù venefica esce;
E qualor più dal sol vengon percossi
Tra gli animanti rio morbo si mesce,
Il cacciator fuggendo, da lontano
Monte contempla il periglioso piano.

Ma il montagnolo Agricoltor s'invola
Da poi che ha tronca la matura spica,
Ritorna ai colli, e con la famigliuola
Spera il frutto goder di sua fatica:
Ma gonfio e smorto dall' asciutta gola
Mentre esala l' accolta aria nemica,
Muore, e piange la moglie sbigottita
Sul pan che prezzo è di si cara vita.

Io stesso vidi in quella parte un lago Impaludar di chiusa valle in fondo, Del di poche ore il Sol vede, e l'immago Di lui mai non riflette il flotto immondo, E non s' increspa mai, nè si fa vago Allo spirar d'un venticel giocondo, E ancor quando su i colli il vento romba Morte stan l'onde come in una tomba.

Le rupi che coronano lo stagno Son d'olmi vetustissimi vestute; Crescon dove l' umor bacia il vivagno I sonniferi tassi, e le cicute : Talor del gregge il can fido compagno Mori le pestilenti acque bevute, E gli augei stramazzar nell' onda bruna Traversando la livida laguna.

Tempo già fu, che a pie del curvo monte La cui falda allo stagno forma lito, Torreggiante palagio ergea la fronte Fin da longinqui tempi costruito: Fosso il cingea cui sovrastava un ponte Mobil, di bastioni ardui munito :

Cosi difeso il solitario tetto D'inespugnabil rocca avea l'aspetto.

Occultando la fredda gelosia Ond' era morso, a quel temuto ostello Ti conducea, mal capitata Pia, Il tuo consorte, sire del castello : Per far men grave la penosa via A lui volgevi il volto onesto e bello, Trattenendol con bei ragionamenti, Che avean risposta d'interrotti accenti.

Il caval con andar soave e trito Oltre la porta, e va del peso baldo; Ella ha nell' una man flagel guernito D'oro, e nell'altra il fren sonante e saldo; Cela la bianca man guanto polito D'una pelle color dello smeraldo, E l'ostro avvolge il piè che leggermente Preme mobil d'acciar stafla lucente.

Largo al turgido petto, all' anche stretto Col cingolo tra l'omero, e l'ascella, Affibbiato davante un corsaletto Le fa sostegno alla persona snella : Trapunta a stelle di lavor perfetto Veste al di sotto cerula gonnella : Tale appar di stellato azzurro velo Cinto il secondo luminar del cielo.

Di fiorentina nobile testura Zendado cremisin le stringe il fianco, In nodo si raccoglie la cintura, Pendula cade poi sul lato manco, Velloso pileo d'attica figura,

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Cui sovra ondeggia un pennoncello bianLe nere chiome in parte accoglie, e in parte Libere cader lascia all' aura sparte.

Il faticoso andar per la foresta Fa che la dolce faccia il color prende Con che di verecondia una modesta Donna subitamente il volto accende : L'acceso aspetto, il Sol che la molesta Di sudor l'empie, e più leggiadro il rende; Come abbella, amaranto porporino, Con le rugiade un limpido mattino,

Che rose fresche colte in paradiso Son le gote, e le luci astri in mortali, E sembra della bocca il dolce riso Riso di Nunzio che dal cielo cali : Il labbro è smalto di rubin diviso Da due file di perle orientali; Sembra la fronte or or caduta bruma, E il sen di pellican candida piuma.

Cosi varca costei l'ime maremme Qual raggio che fra i nembi il sole scocche,

E l'erba al suo passar par che s'ingemme
Di fiori, e brami che il bel piè la tocche:
Si vaga non mirò Gerusalemme
Erminia cavalcar fra le sue rocche,
Ne l'Ercinia mirò si vaga in sella
Passar di Galafron la figlia bella.

Danno la via meravigliati i boschi
Non usi a contemplar tanta bellezza,
L'aura natía di quei roveti foschi
Di scherzarle fra 'l crin prende vaghezza:
Ma il venticel che vien dal mar de' Toschi
Piange mentre passando la carezza,
Quasi fosse il sospir della natura
Antiveggente la di lei sciagura.

S'apron le ferree porte arrugginite
Del castel stato da molt'anni chiuso,
Però che il castellan, le imputridite
Acque schivando, avea l'albergo suso,
Ove una chiesa, e molte case unite
Erano erette dei vassalli ad uso,
Del vicin monte sulle verdi spalle,
D'onde il castel si domina e la valle.

Entran la bella donna, e il cavaliero
Nel limitar della magion ferale;
Non travagliata da verun pensiero
Ella ricerca i vuoti atrii, e le sale:
Osserva l'ampio, e sinuoso ostiero,
E i nascondigli, e le ritorte scale
D' onde si cala in cave di tenebre,
Che percorron dal monte le latebre.

Vede alle mura, ed alle travi appese
Armi smagliate di guerrier vetusti,
E insegne nei civili assalti prese
Rastelli, e sbarre d'alberghi combusti :
Legge descritte le onorate imprese
Nei piedestalli degli sculti busti,

E il loco estranio contemplando, sente Gioia e stupor la giovinetta mente.

Era in mezzo al palagio d'echeggiante Portico cinta spaziosa corte, Al chiostro laterale eran davante Spazii e colonne ottangolari e corte; Sovr'esse d'archi un ordine pesante Pensile sostenea muraglia forte, Che ergeasi a fil del peristilio, per li Aerei campi sollevando i merli.

Nelle quattro pareti interiori Del ricorrente portico sonoro Eran dipinte a splendidi colori Antiche istorie di sottil lavoro, Parean le forme rilevate in fuori. E detto si saria: parlan costoro :

E desto l'Eco in quelle ereme sedi Parea sentirne il calpestio dei piedi.

Dardano quivi comparia primiero,
E'i Pelasghi il seguian col ferro in alto,
Finchè per riaver l'equin cimiero
A lui caduto, si vedea far alto,

E vincer l'inimico, e in quel sentiero
Ancor coverto di sanguigno smalto,
Era da lui nobil cittade eretta
Dal caduto cimier Corito detta.

Poi contendea l'eredità paterna
Bel dominio di popoli felici;
V'eran l' Erinni alla tenzon fraterna
Rigorose assistenti, e instigatrici,
E d'Asio che le luci in ombra eterna
Chiudea, tali apparian le cicatrici,
Che appressandoti a lui creduto avresti
Che il sangue ti spruzzasse in sulle vesti.

A vendicarlo poi venia per l'onde D'Atlante Mauritan Siculo il figlio : Parean d'armati brulicar le sponde Brune per l'ombra di si gran naviglio, E Dardano fuggiasi ai monti, d'onde Chiarain affanni, in armi, ed in consiglio, All' enotria natal riedea sua prole Per domar quanta terra illustra il Sole.

Mesenzio de' cavalli il domatore Potea raffigurarsi all'opre conte, E contro lui sulle spalmate prore Venia fra i toschi giovani Tarconte : Poi nel corpo del re, stranier Signore Apria di sangue altrui succhiato un fonte, E il suol mordea fra l'altrui grida, e il plauDolente ancor pel mal difeso Lauso. [so

Dall'altra parte comparia Porsenna Cingente Roma d' inimico vallo : Sul ponte Orazio quà brandia l'antenna, E là Clelia allrettava il gran cavallo; Fermo qual tronco della nera Ardenna Scevola all' ara, del commesso fallo Punia la destra mal fida ministra, Minacciando tuttor colla sinistra.

Ultimo, cinto il crin di sacre foglie, E invaso da celeste vaticino, V'era tra ricchi templi, ed auree soglie Asila sacerdote ed indovino; Sollevarsi parean le sacre spoglie Sul sen pregnante d'alito divino, Parean cambiar le gote, e le lanose Labbra tali predir future cose.

Queste spesse città, questi lucenti Delubri, e queste fertili colline,

E queste vie di popolo frequenti
Diverran solitudini e ruine,

E faran guerre le future genti
Per dilatarsi nell' altrui confine,
Mentre sarà negata una Colonia
Al più bel suol della ferace Ausonia.

Tal era l'ammirabil magisterio, Ed era fama che gran tempo avante, Un Baron, dando ospizio a Desiderio Quando ivi giunse cavaliero errante, Le prische prove del valore Esperio Vi avea fatte ritrar da un negromante, Che con l'aita dei maestri stigi In una notte fe' tanti prodigi.

Colta da strania meraviglia vede La Pia tai cose, e mentre intorno gira, S'arretra il guardo se va innanzi il piede, E finchè dura il giorno attenta mira, Quando delle crescenti ombre s'avvede Nelle camere interne si ritira, Ove ancor le riman molto a vedere Allo splendor di lampade e lumiere.

Intanto il suo signor con bassa testa Di quà, di là, di sù, di giù va ratto Or si batte la fronte, ed or si arresta, E fissa gli occhi, e par di pietra fatto, Com'uom non uso al fallo, e che si appresta Meditato a compir nuovo misfatto : Ma omai la notte il Sol nel manto ascoso, Ciascun tranne costui chiama al riposo.

A mensa ei siede muto, e turbolento, Stagli incontro la donna e fissa i rai Più che nei cibi in lui, che il turbamento Mal celato ne ha scorto, e poi che assai Stette in silenzio, grazioso accento. Movendo, gli dicea: sposo che hai? Nulla, ei rispose, ed un amaro riso Chiamò sul labbro, e non fe lieto il viso.

Ma poi che il cestellan la mensa tolse, E restar soli nella chiusa stanza, Le bianche braccia al collo ella gli avvolse Siccome avea di far sovente usanza: Poi nelle mani sue la man gli accolse, E con ingenua e tenera sembianza, La strinse, e ne spero bel cambio invanoQual di persona morta era la mano.

Tremò s'appallidi, ma avvalorata Da coscienza di sentirsi pura, E visto, che di seno avea levata Per notarla domestica scrittura, Penso che avesse l'anima agitata Del censo avito in qualche acerba cura,

E si scostò con femminil modestia Onde al suo cogitar toglier molestia.

Sciolse l'aurate fibbie, e delle schiette Vesti spogliossi il colmo fianco, e il seno, Come fu tra le coltri, ed ei credette Ch'ella dormisse, sorse in un baleno, Si mosse a lenti passi, e poi ristette Immoto, indi ai sospiri allargò il freno, E con fioca sclamò voce dimessa: O Donna a me fatale ed a te stessa.

Ecco il fin dei connubii inaugurati! Tu principio, tu fin de' miei desiri Far potevi i miei giorni, e i tuoi beati. Or sei cagion de' miei, de' tuoi sospiri : Per placarmi espiando i tuoi peccati Qui muori-io fra i rimorsi, ed i martiri Morro-vendetta avrommi e non conforto; Ma teco starmi non poss' io che morto.

Spezzati dunque o mio vil cor per doglia Se non sai non amar, nè di gel farte, Ma se al disegno mio fia che tu voglia Contrastar, di mia man saprò strapparte: Disse, e a passi sospesi in ver la soglia Giunto, si volse alla sinistra parte, E il guardo corse involontariamente Sulla misera femmina giacente.

In un atto soave ella dormiva Piegata alquanto sovra il destro lato. Fea letto al capo un braccio, e l'altro usciva Dai lini, mollemente abbandonato. Le inondava il crin sciolto la nativa Neve del collo, e l'omero rosato, E tralucea dal volto nella calma Una tranquillità di candid' alma.

Come al predone opposita procella Vieta la fuga, a lui l'andar fu tolto, Ed oh! tra se sclamò; quanto sei bella, E in questo dir le si appressava al volto. Tal forse Adamo contemplava, quella Notte, da cui fu l' error primo avvolto, Addormentata allo splendor degli astri La leggiadra cagion de' suoi disastri.

In estasi rimase, e già le braccia Correano al segno ov' era la pupilla, Correa la bocca sulla rosea traccia Ch'era d'eterno fuoco una favilla, Allor che scorse sulla bianca faccia, Pari a perla eritrea, lucida stilla, Dai propri lumi la conobbe uscita Avvampò di vergogna, e fe' partita.

Partisti, o dispietato, e ti diè il core D'abbandonarla e non vedesti come

Quà, e là le man stese al nuovo albore Per ricercarti, e ti chiamava a nome, Ne ti trovando sorse, e in vago errore Scorrean le vesti, e le fluenti chiome: T'avria vinto in quell' atto mesto e vago, Se stato fossi un' anima di drago.

Cerca e richiama, e niun risponder

sente,

Onde si ferma, e sta dubbia, e pensosa,
S'allegra alfine udendo lo stridente
Ponte che al basso calando si posa -
Ode alcuno avvanzarsi, e all'imminente
Vestibul corre tutta desiosa,

Ed ecco con le salde chiavi in mano
Apparirgli a rincontro il castellano.

E a lei, che impaziente del marito
Chiedea, rispose, che poc' anzi al giorno
Nella selva vicina a caccia er' ito,
E innanzi sera avria fatto ritorno,
E come dal Baron fu statuito,
Che mentre sola ivi facea soggiorno
Servitute a prestarle ei fosse intento
In tutto ciò di ch'ella avea talento.

Appagossi a quel dir la semplicetta, Ma non raccolse l' usata quiete: Tutto quel di per casa errò soletta E non piangea, ma avea di pianger sete Pensando ch'ei la man non le avea stretta Nè di baci le fe' le guance liete, E dal letto partissi inosservato Senza degnarla dell'amplesso usato.

Come quel di fu lungo!-Ombrosa uscio Notte dal lago, ed ei non fe' ritorno: E invano intenta ad ogni calpestio Stette, e ad ogni romor che udia d'intorno. Occhio giammai non chiuse, alfine apric L'Alba i balconi d'oriente al giorno, E nell'alto orrizzonte il sol pervenne; Desta trovolla, e quel crudel non venne.

Quel giorno intero, e tutti gli altri due Attese indarno men viva che morta, Ma quando al quinto di venuta fue, E il castellano udi giunto alla porta, Qual forsennata dalle scalle giue Corse, sciolti i capei, la faccia smorta: E il vel stracciando con grido affannoso Dove dove, sclamava, ito è il mio sposa.

Cosi pria della sera ei dalla caccia Riede, e mentre egli puote in quei deserti Esser perito, e mentre il Ciel mirarcia Strani accidenti, rimanete inerti?

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