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Tra'l Poe'l Reno e la marina e'l monte (1)
Di costanza e valore a prove eccelse
La patria caritate; e 'l grande Etrusco,
Ond' or novella su l'Ausonia 'ntera
Luce e speme si versa (2); e i buon nepoti
Di Collatino e Tullio; e quei che l' alma
Partenope alimenta a gloriose
Antique gesta; e l'isolan, che duca
Al sublime furor Procida s'ebbe,
Itali tutti! alfin, con l' altre colpe,
In quei di verità mistici rivi
Terger godranno la nefanda lue
Di fraterna discordia. Una la gara,
Ma divina sarà - Bella, su quanti
La diva Civiltà popoli edúca,
Rifar la patria di virtù soavi

E fortissime a un tempo. Il ciel sortinne
In tal di forme maestà sovrana,
Spirto possente a valicar l'immensa
Regione de' nembi e al primo sole
Salir veloce ed affisarsi 'n ello,
Perchè noi stessi alle pupille industre
Benda opaca tessiamo? O della eterna
Repubblica di Cristo ognor di nome
Noi cittadini chiameran le genti?

Ma tu, cui regge sapienza tanta

(1) Le quattro legazioni, ossia la Romagna. Dante la circoscrisse con questo verso; ora i confini di essa sonc in parte mutati.

(2) Questa epistola fa scritta mentreche gli scienziati italiani erano radunati in Pisa.

E gli affetti e 'l pensier, m'ascolti e taci!
Ben veggio, del desir fidato all' ale,
Troppo, o Giovanni, il mio sperar sublimo.
L'arbor divina, a cui nodrir, le vene
Dell' uno Giusto emunte fur sul colle
Della cieca Sionne, ancor le frondi
Sovra l'orbe universo, ahi! non dispiega :
E'l popolo cresciuto al santo rezzo,
L'eteree poma dispettando, ai frutti
Volge or la brama che dal fimo han vita,
Però sinceri avvicendar gli amplessi
Obbedienza con poter ricusa :
Licenza e Tirannia, gemina prole
Di Satanno, le corna alto solleva,
Disertando la terra... Oh qual di scuri
E di catene e d'ignivomi bronzi
Orribil tuono! Disperata all' arme
Precipita la plebe, all' arme il sire.
Qua di natura il dritto, e là del trono,
I perigli fa cari. In duo si partono
Falangi e cittadini : a ritta il padre,
I figli a manca: traditor l'un l'altro to,
Bestemmia e scaglia l'un dell' altro in per-
Santa gridando sua ragion, la morte.
Nelle squarciate viscere il vicino
L'ugne al vicino infigge, e 'l palpitante
Cor ne svelle insultando... Ab pace, pace.
Pace, una volta! o Iddio, che avvampa in
ira,

La più tremenda folgore giù piomba,
Tutto a disfar d'un colpo il seme umane.

A. CESARI.

IL GIUOCO.

CAPITOLO.

PENSATE, s'io mi taccio molto o poco, Ed anzi come gracchia non cinguetto, Or che le lodi in campo escon del giuoco. Il giuoco è proprio un elisir perfetto, Un'essenza di vita e di salute, E s'altro è ben miglior di quel c'ho detto.

Quelli, cui Dio concesse la virtute Da intender quanto giova e quanto vale, Tutti diran che mie rime son mute. Prima egli è cosa pura e naturale

Che non s'insegna, ma con noi ci nasce.
Prima che l'uom conosca il ben dal male.
Appena questi è uscito dalle fasce,
Non pensa più di poppa, nè di culla,
E mille giuochi inventa, e in lor si pusce
Gli canti nanna? del dormire e nulla
E fa a capo nasconder con la fante,
Od a stacciaburatta si trastulla.

Poi come vien negli anni un poco avante,
E si rifà di sode membra e snelle,
Di nuovi giuochi si dimostra amarie.

Le pallottole vengon, le morelle,
E fare a tira e allenta, e all' aitalena,

Giucare a pari e casso, e a cruscherelle.
Anzi, siccome quando il ciel rimena
Il nuovo april, la rondinella ricde
A far suo nido dove amor la mena;

Poi come il verno avvicinarsi vede,
Colla nuova famiglia si trasmuta,
Il mar travalicando, a miglior sede:

Cosi de' giuochi il vario stil si muta, Come si vengon le stagion cangiando, E l'un si prende, e il vecchio si rifiuta.

Or si fa al maglio, ed ora ai rulli, quando Alla palla, a piè zoppo; e questo e quella, Se la trottola vien, poi caccia in bando.

Ma in questi di, che primavera bella Le dolci di Favonio aure ne adduce, A più bel giuoco i giovani rappella.

Drago, che a più color nell' aer luce, Com' arte e bizzarria li compartiro, Si volve, e un sottil filo lo conduce.

Sorge la testa di saldo papiro

Di canne armata, e digradando scende
E s'avvolge la coda in lungo giro.

Incontro al vento bilicata pende
Da tre fili la fronte uniti in groppo,
Donde lo spago fino al suol si stende.

Dalla man che la tira quinci intoppo Soffrendo, e quindi dal cozzar del vento, Prende per via di mezzo alto il galoppo.

Co' plausi i fanciulletti più di cento L'accompagnan, le palme alto battendo: Qual tenta il filo, e qual vi tira drento.

Il drago, a giuoco se stesso sentendo, Più in alto acquista, e più dell'aer piglia; E dallo spago più tratta prendendo,

[glie,

Fugge si ratto, che strale somiglia, Tanto che fra le nubi il capo sguazza, Tenendo in lui levate ognun le ciglia. Ivi la coda dimena e diguazza In mille ruote, ch' or raggroppa, or scioCome anguilla che l'onda in alto sprazza. Ma quando il sol del nostro ciel si toglie, E la notte di stelle il vel trapunta, Ricomparisce nelle brune spoglie;

Una molto leggiadra e nuova giunta Si fa dai putti al bel volante drago; La qual io son per dirvi senza cunta.

Perché notte non celi il suo andar vago, Con lume dentro un mobil lanternino Per uno anel s'infilza nello spago:

E per fargli pigliar suso il cammino, Gli si appicca alla testa per cappello, D' imbuto in guisa, un lieve cartoncino. Poscia condottol con tutto l'anello Per lo spago ben venti o trenta braccia,

Si lascia andar quanto sel porta quello. Cosi levato per la nuova traccia, L'aria che sotto gli venta e il sospigne, Suso alto al groppo difilato il caccia.

Quivi scintilla, quivi si dipigne Di rossigno color tra l'altre stelle, Delle quai per corona egli si cigne.

Avvenne allor che quell'alme fiammelle, Vedendo questa creatura ignota Errar con nvovo passo alto da elle,

Com' uom cui cura subita percota, Si soffermâr per maraviglia, e fuore Di corso tratte, rupper la sua ruota. E fu allor che l'antico tenore Fu rotto in ciel, ne si trovò più 'I passo Da ravviarsi di quei primo errore: [so,

E l'orchestra degli astri ita è in conquasChé nessun fea la propria parte, e dove S'aspettava il tenor, si canta in basso;

Vo' dir, son le stagion fuori del dove; Onde a mezzo l'aprile abbiamo il verno, E al tempo del calor fa vento o piove.

Ma per tornar di mia sentenza al perno, Vedete che quei semplici sollazzi Faceano al mondo un carnovale eterno.

Quelle erano delizie e gusti pazzi: Ma ora il mondo ha raffinato il gusto, E tien per zuccherine i sorbi lazzi.

Macon quei giuochi andava seco il gusto E l'innocenza e la limpida gioia, Di ch'ora a noi non è rimaso frusto.

Or altri giuochi ci tolgon la noia; Ed essendo pur tristi, per ristoro Paghiam la fune che ci strozzi al boia.

Siede fra l'ammontato argento e l'oro L'avaro biscazzier, che tende il laccio Crocchiar facendo il lucido tesoro.

Intanto questo e quell' altro uccellaccio, Tratto al fulgor dell'ingannevol'esca, [cio. Scherza e svolazza intorno al bel paniac

Quegli con atti e con rider l'adesca : L'altro si cala, poi torna, e non parte Però, che nella pania al fin s' invesca.

Entra in partita omai: guata le carte Con livid'occhio; non forse fortuna Contra lui meni sua volubil arte. [una,

Vinto ha l'un tratto: sogghignando: E Grida, e s'applaude, e la posta raddoppia; Chè già i zecchin con l'animo raguna.

Qua ti voleva il biscazzier, che scoppia S' altri, contento al poco, volta l'ale; E con la speme i sempliciotti alloppia.

To' l'altro punto, che t'ha detto male. Ito è il guadagno; nè però si resta,

Caricando le poste, l'animale.

Perde la quarta, gli falla la sesta :
Finchè fatto del resto, ignudo e brullo,
A perder solo il farsettin gli resta.
Ne
per vedersi si diserto e nullo,
Si batte l'anca; anzi pensa del come
Vendicar della sorte il rio trastullo;

E spera d' afferrarla per le chiome:
E intanto vende la posata, il vezzo,
Il monil, la dorata elsa ed il pome;

E torna baldanzoso al primo vezzo; Finché d'ogni aver suo scosso e disfatto, Si conduce sul lastrico da sezzo.

Vedi là Graffio col cappel giù tratto Su' cigli: teme non alcun l'adocchi Ladro al padron del raso e del scarlatto.

E vedi Cencio, che con mille scrocchi Mangiò le case, e' fondi ha saccheggiato Del padre, che tenca cavalli e cocchi :

Con dieci scudi, che ha testé buscato Sopra le figlie, corre la sua lancia, O su la speme d'un lontan legato.

Ma tracollar veggendo la bilancia, Bestemmia il biscaiuol, morde le dita, E via le carte e le candele lancia:

Ed alla moglie vedova e romita Torna a gran notte, che da sera a mane Sta lavorando a procurar la vita.

Monta le scale; e con le aperte mane Singhiozzar l'ode, e i figliuoletti ignudi Piangendo al padre domandar del pane.

Egli la casa võta e i muri nudi Veggendo, arrabbia; ela moglie tempesta, Perché a lui provveder più non si studi:

Ei figliuoi batte; i quai sotto la testa Alle coltri cacciando, pur col pianto Quetan la fame che si gli molesta.

Ne si rammenta lo spietato, quanto Lor lasciò il Nonno di ricchezza, e ch'egli

Sciupo della dotal somma altrettanto. Ahi quello è giuoco? e gl'ingegni son quegli

Ch'a bel conforto ei mostró natura?
Ah rio costume! ah tempi iniqui e fegli!

Dal ricco marmo che l'avel tuo tura, Fuor metti il capo, o buon Sordel; che il

caso

Porta che del tu' onor ti prenda cura.

Vedi il tuo figlio ch'è di qua rimaso, Vedi il tuo sangue si gentile e chiaro Come portò 'l valor di vaso in vaso.

L'ampie ville, i giardin, che ti levaro Fra i primi (e fa, se sai, ch' or non ti sdegni),

Nome e padrone in ciabattin cangiaro.

Il qual soffiando fastidiosi sdegni,
In aureo carrozzin la via rifrusta;
Ma porta a' polsi dello spago i segni :

E'l tuo figliuol, che tai boccon si gusta, Va gretto a piedi, mentre passando ode Scoppiar del risalito Asin la frusta.

Ma che fa 'l ricantar queste melode? Se in van per ira dello strazio indegno Ogni buon cittadin dentro si rode.

Oh! sarà mai che nell'antico regno Torni il candore d'innocenza amico, E prescriva Virtute ai giuochi il segno?

Degli aurei tempi di quel secol, dico, Quando coi figliuoletti in bella mostra Giucar solea trescando il padre antico;

E ferir torneamento, e correr giostra, Una cannuccia cavalcando in corso, Di che ride or la nobile età nostra.

Gia'l cinquantesim'anno omai m'e corsa Fra mille mali della vita acerba ; Pur dirò, lieti giorni aver trascorso, Se a veder tanto bene il ciel mi serba.

G. COLLEONI.

IL FIGLIO DI NAPOLEONE.

ODE.

(1832.) I.

NON gli apparite, o fulgidi

Soli, o pensier di guerra!

Tacete, o storie, o cantici
Della natal sua terra!

Perchè una culla e un feretro
Volete a lui scoprir?
II.

Quai Soli fiammeggiarono

Sul padre ignori il figlio :

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