Tra'l Poe'l Reno e la marina e'l monte (1) E fortissime a un tempo. Il ciel sortinne Ma tu, cui regge sapienza tanta (1) Le quattro legazioni, ossia la Romagna. Dante la circoscrisse con questo verso; ora i confini di essa sonc in parte mutati. (2) Questa epistola fa scritta mentreche gli scienziati italiani erano radunati in Pisa. E gli affetti e 'l pensier, m'ascolti e taci! La più tremenda folgore giù piomba, A. CESARI. IL GIUOCO. CAPITOLO. PENSATE, s'io mi taccio molto o poco, Ed anzi come gracchia non cinguetto, Or che le lodi in campo escon del giuoco. Il giuoco è proprio un elisir perfetto, Un'essenza di vita e di salute, E s'altro è ben miglior di quel c'ho detto. Quelli, cui Dio concesse la virtute Da intender quanto giova e quanto vale, Tutti diran che mie rime son mute. Prima egli è cosa pura e naturale Che non s'insegna, ma con noi ci nasce. Poi come vien negli anni un poco avante, Le pallottole vengon, le morelle, Giucare a pari e casso, e a cruscherelle. Poi come il verno avvicinarsi vede, Cosi de' giuochi il vario stil si muta, Come si vengon le stagion cangiando, E l'un si prende, e il vecchio si rifiuta. Or si fa al maglio, ed ora ai rulli, quando Alla palla, a piè zoppo; e questo e quella, Se la trottola vien, poi caccia in bando. Ma in questi di, che primavera bella Le dolci di Favonio aure ne adduce, A più bel giuoco i giovani rappella. Drago, che a più color nell' aer luce, Com' arte e bizzarria li compartiro, Si volve, e un sottil filo lo conduce. Sorge la testa di saldo papiro Di canne armata, e digradando scende Incontro al vento bilicata pende Dalla man che la tira quinci intoppo Soffrendo, e quindi dal cozzar del vento, Prende per via di mezzo alto il galoppo. Co' plausi i fanciulletti più di cento L'accompagnan, le palme alto battendo: Qual tenta il filo, e qual vi tira drento. Il drago, a giuoco se stesso sentendo, Più in alto acquista, e più dell'aer piglia; E dallo spago più tratta prendendo, [glie, Fugge si ratto, che strale somiglia, Tanto che fra le nubi il capo sguazza, Tenendo in lui levate ognun le ciglia. Ivi la coda dimena e diguazza In mille ruote, ch' or raggroppa, or scioCome anguilla che l'onda in alto sprazza. Ma quando il sol del nostro ciel si toglie, E la notte di stelle il vel trapunta, Ricomparisce nelle brune spoglie; Una molto leggiadra e nuova giunta Si fa dai putti al bel volante drago; La qual io son per dirvi senza cunta. Perché notte non celi il suo andar vago, Con lume dentro un mobil lanternino Per uno anel s'infilza nello spago: E per fargli pigliar suso il cammino, Gli si appicca alla testa per cappello, D' imbuto in guisa, un lieve cartoncino. Poscia condottol con tutto l'anello Per lo spago ben venti o trenta braccia, Si lascia andar quanto sel porta quello. Cosi levato per la nuova traccia, L'aria che sotto gli venta e il sospigne, Suso alto al groppo difilato il caccia. Quivi scintilla, quivi si dipigne Di rossigno color tra l'altre stelle, Delle quai per corona egli si cigne. Avvenne allor che quell'alme fiammelle, Vedendo questa creatura ignota Errar con nvovo passo alto da elle, Com' uom cui cura subita percota, Si soffermâr per maraviglia, e fuore Di corso tratte, rupper la sua ruota. E fu allor che l'antico tenore Fu rotto in ciel, ne si trovò più 'I passo Da ravviarsi di quei primo errore: [so, E l'orchestra degli astri ita è in conquasChé nessun fea la propria parte, e dove S'aspettava il tenor, si canta in basso; Vo' dir, son le stagion fuori del dove; Onde a mezzo l'aprile abbiamo il verno, E al tempo del calor fa vento o piove. Ma per tornar di mia sentenza al perno, Vedete che quei semplici sollazzi Faceano al mondo un carnovale eterno. Quelle erano delizie e gusti pazzi: Ma ora il mondo ha raffinato il gusto, E tien per zuccherine i sorbi lazzi. Macon quei giuochi andava seco il gusto E l'innocenza e la limpida gioia, Di ch'ora a noi non è rimaso frusto. Or altri giuochi ci tolgon la noia; Ed essendo pur tristi, per ristoro Paghiam la fune che ci strozzi al boia. Siede fra l'ammontato argento e l'oro L'avaro biscazzier, che tende il laccio Crocchiar facendo il lucido tesoro. Intanto questo e quell' altro uccellaccio, Tratto al fulgor dell'ingannevol'esca, [cio. Scherza e svolazza intorno al bel paniac Quegli con atti e con rider l'adesca : L'altro si cala, poi torna, e non parte Però, che nella pania al fin s' invesca. Entra in partita omai: guata le carte Con livid'occhio; non forse fortuna Contra lui meni sua volubil arte. [una, Vinto ha l'un tratto: sogghignando: E Grida, e s'applaude, e la posta raddoppia; Chè già i zecchin con l'animo raguna. Qua ti voleva il biscazzier, che scoppia S' altri, contento al poco, volta l'ale; E con la speme i sempliciotti alloppia. To' l'altro punto, che t'ha detto male. Ito è il guadagno; nè però si resta, Caricando le poste, l'animale. Perde la quarta, gli falla la sesta : E spera d' afferrarla per le chiome: E torna baldanzoso al primo vezzo; Finché d'ogni aver suo scosso e disfatto, Si conduce sul lastrico da sezzo. Vedi là Graffio col cappel giù tratto Su' cigli: teme non alcun l'adocchi Ladro al padron del raso e del scarlatto. E vedi Cencio, che con mille scrocchi Mangiò le case, e' fondi ha saccheggiato Del padre, che tenca cavalli e cocchi : Con dieci scudi, che ha testé buscato Sopra le figlie, corre la sua lancia, O su la speme d'un lontan legato. Ma tracollar veggendo la bilancia, Bestemmia il biscaiuol, morde le dita, E via le carte e le candele lancia: Ed alla moglie vedova e romita Torna a gran notte, che da sera a mane Sta lavorando a procurar la vita. Monta le scale; e con le aperte mane Singhiozzar l'ode, e i figliuoletti ignudi Piangendo al padre domandar del pane. Egli la casa võta e i muri nudi Veggendo, arrabbia; ela moglie tempesta, Perché a lui provveder più non si studi: Ei figliuoi batte; i quai sotto la testa Alle coltri cacciando, pur col pianto Quetan la fame che si gli molesta. Ne si rammenta lo spietato, quanto Lor lasciò il Nonno di ricchezza, e ch'egli Sciupo della dotal somma altrettanto. Ahi quello è giuoco? e gl'ingegni son quegli Ch'a bel conforto ei mostró natura? Dal ricco marmo che l'avel tuo tura, Fuor metti il capo, o buon Sordel; che il caso Porta che del tu' onor ti prenda cura. Vedi il tuo figlio ch'è di qua rimaso, Vedi il tuo sangue si gentile e chiaro Come portò 'l valor di vaso in vaso. L'ampie ville, i giardin, che ti levaro Fra i primi (e fa, se sai, ch' or non ti sdegni), Nome e padrone in ciabattin cangiaro. Il qual soffiando fastidiosi sdegni, E'l tuo figliuol, che tai boccon si gusta, Va gretto a piedi, mentre passando ode Scoppiar del risalito Asin la frusta. Ma che fa 'l ricantar queste melode? Se in van per ira dello strazio indegno Ogni buon cittadin dentro si rode. Oh! sarà mai che nell'antico regno Torni il candore d'innocenza amico, E prescriva Virtute ai giuochi il segno? Degli aurei tempi di quel secol, dico, Quando coi figliuoletti in bella mostra Giucar solea trescando il padre antico; E ferir torneamento, e correr giostra, Una cannuccia cavalcando in corso, Di che ride or la nobile età nostra. Gia'l cinquantesim'anno omai m'e corsa Fra mille mali della vita acerba ; Pur dirò, lieti giorni aver trascorso, Se a veder tanto bene il ciel mi serba. G. COLLEONI. IL FIGLIO DI NAPOLEONE. ODE. (1832.) I. NON gli apparite, o fulgidi Soli, o pensier di guerra! Tacete, o storie, o cantici Perchè una culla e un feretro Quai Soli fiammeggiarono Sul padre ignori il figlio : |