A. MEZZANOTTE. DANTE AL MONISTERO DI SANTA CROCE DEL CORVO (1). LASCIAVA Italia il Ghibellin feroce Asil cercando infra straniere genti : Disdegno il cor gli empiea l'aspetto atroce Di cittadini in ria guerra frementi : D'onor la sacra generosa voce Ai piè di lui crescea stimoli ardenti, E seguitavan trepide e confuse L'esule illustre le italiane muse. Giunto colà 've romorosa e presta De l'onde sue pon fin la Magra al corso, E dove una verdissima foresta Corona intorno d' ardui gioghi il dorso, Il sir de l'alto canto i passi arresta; Chè ancor gli punge di soave morso La patria caritade il maschio seno, E in un lo invita il dolce loco ameno. Tutto col guardo il monte egli misura Fino a la cima che dal Corvo è detta : Su la ridente ligure pianura Indi abbassa le luci, e si diletta; L'archetipa beltà de la natura Profondamente a contemplar lo alletta: E, contemplando, egli a l'Eterno Vero S'erge su l'ali ratte del pensiero. Vede il porto di Lérice da un lato Vaga di sè far mostra, e il bel ne ammira: Sovra un colle di folti alberi ombrato Da l'altra banda umil cenobio ei mira, Ove dal fasto del secolo ingrato Vivea lontano, e da ogni rissa ed ira, (1) Di questo aneddoto della vita dell'Alighieri, mentr'egli andava esule alla volta di Francia, parla a lungo il chiarissimo autore del discorso intitolato: Del veltro allegorico di Dante. Autentico è l' aneddoto; e può nell' opera suddetta vedersi la lettera con cui frate llario accompagnò la cantica dell' Inferno dedicata dal poeta ad Uguccione della Faggiuola. Era questo uno dei tre soli maguanimi uomini degni a quel tempo della stima di Dante in Italia: gli altri due furono Moroello Malaspina e Federico re di Sicilia: al primo dedicò poi la cantica del Purgatorio e al secondo quella del Paradiso. D' eremiti uno stuol povero e pio Reggea di questi il freno Ilario antico Ei giunge a tutti sconosciuto; e vede Era del vate squallido il sembiante, Mosse a incontrarlo il solitario annoso, E a lui: Stranier, che vuoi dinne verace? Guardollo il grande, e in suo dubbiar pensoso Si stette un poco, indi rispose: Pace. E il magnanimo a lui : Quel Dante io sono, Che da l'ovil natio cacciato in bando, La crudel Flora oggi in lugubre ammanto Mira la mia consorte e i dolci nati Orfani miserelli a lei daccanto, Nè da' suoi cessa ancor modi spietati. Chi fia che, melontan, rasciughi il pianto De la mia donna e de' miei figli amati? Ahi che speranza a lor non resta alcuna Fatti ludibrio de la rea fortuna ! Me pur suo figlio Flora or vede in guai Qual altro Omero a mendicar costretto. Siccome sa d'amaro sal provai Lo pan che scarso io chiesi a l' altrui tetto. Ma pria ch'oggi da me l'ultimo vale La porse a Ilario, e ripigliò : Del sacro A iniqui molti fien queste mie rime : Abbia Ausonia, comun madre e nudrice, Memoria in lor de l'esule infelice. Di me scrivi a Uguccion, digli che tutta Italia ben cercai per tutti i lidi, E in tre soli magnanimi ridutta Dopo si lungo investigar la vidi, Che a virtù vera in tanta orribil lutta E a candida amistà si serban fidi. E di' che a lui questa offerir desio Cantica prima del poema mio. Qui tacque, e a Ilario con tranquilla facSorrise il grande di partirsi in atto: ¿cia Quei bramose ver lui tendea le braccia Dolcemente rapito e stupefatto. Ma il divino Alighieri (a cui si affaccia Sugli occhi il pianto) cammin prese a un tratto Grave movendo a tardi passi il piede, E conducea le muse a estranea sede. De l'arti il genio, vivida facella Ne la destra agitando, il precedea, E di luce vestirsi eterea e bella Lieto ogni loco al suo passar parea: E al gran padre de l'Itala favella Calliope l'immortal serto intessea, Che dopo molti secoli verdeggia Raggiante si che il muto oblio dardeggia. I. TUTTO fior pilieri e marmi Il grand' Arco (1) alza la testa, Oh! cantiam. Vent'anni inulti, E in un giorno cancellati, E Albion piange distrutti I suoi legni, e prigioniera Ma gemito sorge, fra gli alti vessilli, (1) L'arco di trionfo de l'Étoile. Velluto funébre sul carro si stende, II. Nobil Arco, oh! quel di che pei cieli, - Il tuo sole ecco s'oscura; Ma su carro di gramaglia, Non l'inchino dei pennoni, Ahi! chi puote scrutarvi impenetrati Spezzati i vanni, troncato l'artiglio Per dolor dimesso il volto, Sullo scoglio omicida frattanto Un fanciullo da' biondi capelli, E te pure e il tuo cielo pensava, E dei boschi inaccessi l'orror. III. Oh ! quando la sera lontano lontano, Oh! come rapita quell' anima anela Volava sull' orme dell' umile vela! Oh! come profondo guardava sul mar! Oh! il nembo cacciato dal vento di sera, La nave foss' Egli che passa leggiera, Oh! l'ultimo raggio del sole che muor! E al povero augello perduto fra i venti, (1) « La Corse avait mille charmes; il en détaillait les grands traits, la coupe hardie de sa structure physique.... Tout y était meilleur, disait-il, il n'était pas jusqu'à l'odeur du sol même qui ne lui cut suffi pour le deviner les yeux fermes; il ne l'avait retrouvée nulle part. Il s'y voyait dans ses premières années, à ses premières amours; il s'y trouvait dans sa jeunesse au milieu des précipices, franchissant les sommets clevés, les vallées profondes, les gorges étroites, etc, » (Memorial de Sainte-Hélène.) Ai rapidi nembi pel cielo correnti, Fidava parole di duolo e d'amor. I bronzi sonori su i carri pesanti, L'allegre diane, le tende vaganti, Le vinte cittati godeva pensar, E cupole d'oro pel cielo sereno, Là neri castelli sul torbido Reno, Quà palme ed Alambre vedeva passar. Qual campo di biade battuto dai venti Vedeva dei fanti le canne lucenti Calarsi, risorgere, tra 'l fumo spair, Tra 'l fumo vedeva, com'unico brando, Al rapido cenno di breve comando Migliaja di spade dai foderi uscir. E lungi nel piano confusi, distinti, Cavalli, pedoni, vincenti coi vinti Lasso e chiedea de' tumuli E l'alma a Dio disciogliere IV. Oh delitto e siccome tra i venti, Fra il muggito dell' onde furenti La preghiera del naufrago muor Disprezzato vent'anni quel pio Desiderio, quell' ultimo addio, Ai potenti moriva nel cor. E vent'anni l'omicida Sulla vittima vegliò, Ma d'un popolo al volere |