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peggiorò, se più poteva, aggiungendosi i tormenti d'una falsa speranza di liberarsi da Recanati, cosa che lo faceva dar in eccessi come di follia. Avendo cominciato una brevissima lettera il 1 ottobre 1819 a Giordani, non potè finirla che a' 22 dello stesso mese! E nel novembre seguente gli scrive: «Se in questo momento impazzissi, credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza ridere, nè piangere, nè muovermi, altro che per forza. » E da otto mesi (la lettera or citata è de' 19 novembre 1819) non studiava più, e neppur si poteva far leggere, «< trovandosi i nervi degli occhi e della testa tanto indeboliti. » Chiude la lettera con queste parole come di uomo morto: « Benchè io non intenda più i nomi d'amicizia e d'amore, pur ti prego a volermi bene come fai, e a ricordarti di me, e credere che io, come posso, ti amo e ti amerò sempre. » Appena ha la forza di amare il suo Giordani a cui pochi mesi prima l'anima sua correva con tanto desiderio.

Nello stesso novembre 1819 fece il disegno di fuggir secretamente di casa, disegno andato a vuoto, e scrisse a suo padre quella lettera che abbiamo innanzi riferita, spiegando le cagioni della sua fuga. Scrisse anche per un passaporto al conte Saverio Broglio, padre di colui che mori in Grecia, eccitando la

vena satirica poco felice di Monaldo. Il conte Saverio, come si scorge della lettera di Giacomo, amava molto costui e si occupava della letteratura della Grecia per cui suo figlio mori.

Quest'anno fu ben triste. Leopardi possedeva fra l'altre questa felicità, che dal suo ventunesimo anno la vita degli affetti e del pensiere spesso gli si sospendeva per un tempo più o meno lungo. Cosi rimaneva nell'incapacità di nulla pensare, col cuore impietrito. Tale sospensione di vita ad intervalli gli anticipava e reiterava il sentimento della morte. Un tempo gli studi d'erudizione, il suo stesso pensiere, le forme sue spregevoli, ed ora più che mai la dimora di Recanati era il suo più attivo carnefice. Talvolta le lettere di Giordani svegliavano per poco quel cuore dalle sue sincopi mortali, con grande meraviglia dello stesso infermo. Forse la viva pietà apportata da quelle lettere, oltre l'inesauribile sua propria bontà, salvò Leopardi dall'odiare il genere umano e forse dall'impazzire. Quelle lettere penetravano, come un raggio divino nel nefando suo carcere. Resteranno eterne ad onor di Giordani le seguenti parole che gli scrisse il suo amico: « Dimmi, dove troverò uno che ti somigli? Dimmi, ove troverò un altro che io possa amare a par di te? O cara anima, o sola infandos miserata labores di questo sventurato (1,160).»

La pietà ch'egli riceve dall'amico scioglie il suo cuore in una pietà infinita diffondendola sopra tutte le creature. Un tempo la malvagità umana e le sciagure della virtù lo moveano a sdegno. Allora invece imparava a compiangere l'infelicità di tutti, buoni e cattivi, oppressi e oppressori.

E mentre il gelo della morte stringeva a volte il suo cuor divino, egli per fuggire questo anticipato annullamento si attacca con l'energia della disperazione a que' giorni lontani della beata fanciullezza quando la vita gli correva si ricca e l'universo pareva lieto di riceverlo come suo signore. « Io tengo afferrati con ambe le mani gli ultimi avanzi e le ombre di quel benedetto e beato tempo dove io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando, la godeva; ed è passato, nè tornerà mai più, certo mai più; vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono sino alla morte se non que' molti che restano fanciulli tutta la vita (1,160). »

Fortuna che credeva il suo destino comune a tutti quelli che pensano e sentono. Senza questa grande illusione che non lo abbandonò mai, ripeto che c'era a temere della sua ragione. La sua vita fu sempre pericolosamente attaccata al debole filo di un'illu

sione così facile a dileguarsi. Io non so come la memoria non gli ricordava che molti uomini vissero fino alla morte senza restar fanciulli, esempio Dante, Goethe, Milton.

Se le lettere di Giordani lo commovevano e con la pietà che dimostravano a lui incuoravano la sua pietà verso gli altri, il ritorno della primavera, una bella notte, un puro cielo producevano sempre un grande incanto sul suo cuore di poeta miseramente talvolta irrigidito come per morte, inducendovi quegli affetti che per quanto combattuti, non erano mai in lui interamente spenti. Soltanto la bella natura aveva il potere di raccendergli la fiamma della poesia nata si gagliarda in lui e pure vicina a spegnersi ancora nel fiore degli anni quando più vivacemente brilla negli altri uomini. A questi rari momenti noi dobbiamo le poche liriche posteriori di Leopardi, e perciò poche; a' rari momenti che la sua anima si apriva per poco e risorgeva alla vista delle cose belle per ripiombar subito dopo nella consueta sua gelida notte.

Di Leopardi non abbiamo che questi baleni. Ma tutti i tesori ch'egli portò da natura, rimasero, come avremo spesso occasione di mostrare, per sempre sepolti in lui.

Questo poeta ebbe anche la singolarità che par

tecipa con Dante solamente, di guardare senza veli classici, ma con gli occhi propri, di amare e rappresentar la natura vera per quanto l'hanno falsata imbellettata gli altri poeti italiani essenzialmente cittadini, stranieri allo schietto e puro sentimento della natura; mentre in Leopardi l'amore e la capacità di rappresentarla grandeggiano come ne' poeti del nord. Quale impressione, per esempio, gli fece l'apparir della primavera nel 1820, e da qual notte per poco lo ritrasse. Dico per poco, chè come incominciava a battergli il cuore, subito sottentrava ad atterrirlo il pensiero dell' immobilità sepolcrale in cui ordinariamente si giaceva; onde invece di rallegrarsi, gli occhi gli si empivano di lagrime ed e' si volgeva a sospirare la perduta gioventù a ventidue anni. Da ciò si vede che Leopardi non può servir d'esempio a nessuno e il trovarsi a quell'età in tali condizioni, dovrebbe almeno salvarlo dalla sventura d'aver imitatori. Chi mai si è trovato nella condizione che fin la sorgente delle più pure gioie deve subito per lui convertirsi in sorgente di dolore amarissimo?

« Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un' aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si sveglia

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