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di Sesto Empirico, di Porfirio, dei misteri di Plotino più eterni che l'argomento del settimo della terza Enneade, dei comenti di Simplicio, delle ciarle d'Aristide e di Libanio, della frotta di cose apocrife che ci avanza, e della immensa marmaglia di libri manoscritti che non si stampano perchè non si leggerebbero; in pagamento di alcuno dei tanti poemi perduti che gli antichi citano sotto il nome di Omero; delle estinte poesie di Alceo, di Anacreonte, di Simonide, di Stesicoro e di quella gran donna di Saffo di cui abbiamo poco più che niente; di qualche tragedia delle trecento e più che di Eschilo, di Sofocle, di Euripide furono e non sono più al mondo; degl' Idillj smarriti di Teocrito, di Bione, di Mosco; delle Elegie di Callimaco che fu tenuto principe in questo genere di poesia; delle Orazioni di Licurgo e d'Iperide; dei venticinque libri perduti di Diodoro Siciliano e degli altri tanti e tanti di Dione Cassio; delle Vite di Epaminonda, di Scipione, di Esiodo, di Pindaro e di altri molti scritte da Plutarco; delle Opere astronomiche, geografiche e cronografiche di Aristarco Samio, di Eratostene, d'Ipparco; delle storie astronomiche di Teofrasto e di Eudemo, e della geometrica del secondo: anzi chi per ogni tomo in foglio di quelle misere opere non istarebbe contento a un volumetto di queste preziosissime?

<< Ma perchè il lamento sarebbe infinito e di niuna utilità, e noi sul bel principio del cammino piegheremmo dalla via, come dicono i Latini, ad un viottolo che ci menerebbe le mille miglia lontano dall'argomento, tornerò in sentiero, e dirò come mi piace di ragionare (già si sa che brevemente) della nominanza in che Orazio fu presso gli antichi; della sua nominanza, non di lui; perchè niuno s'aspetti che delle sue opere o di altra cosa che lo ragguardi io dica parola non detta dagli antichi scrittori (1). »

Ecco un'altra prova splendida di quel che Leopardi deve al suo paese. Un uomo che scrive in tal modo, che discernimento può adoperare nella sua erudizione? Questa può esser altro che un ammasso enorme di notizie? Io son grato agli editori di questi studi filologici, non per i miracoli ch'essi ne raccontano e che furono tante volte e recisamente smentiti da Leopardi stesso divenuto poi maturo di anni e di giudizio; ma per questo solo fatto innegabilmente straordinario, cioè che egli potè e seppe non molto dopo e in breve tempo condannare altamente tali studi e prendere da se solo una via del tutto opposta. Questo discorso fu pubblicato nello Spettatore, 1817.

(1) Studi Filologici, ecc. Firenze, Le Monnier 1845, pag. 104.

E pure sotto la farraggine di citazioni alla rinfusa, tanto di scrittori classici quanto di bizantini come Mosco, Bione, Callimaco, sedicente « principe dell'elegia,» Diodoro Siculo, ecc.; e nonostante la forma insopportabilmente fratesca, nel detto discorso si trova materiali di lettura incredibili a quell'età. E ne risulta chiaramente provato che Orazio negli scrittori de' primi secoli dopo il suo non godè quell'altissima fama cui pervenne più tardi. L'Autore si domanda: perchè Virgilio si ebbe mentre visse e dopo la morte una fama sempre crescente che si negò ad Orazio il quale soltanto assai tardi si elevò accanto al primo? A questa domanda in cui poteva più l'ingegno critico che un' erudizione cruda, egli fa una risposta debole. Egli trova la causa della differente fama dei due poeti primamente nel comun pregiudizio che reputa la poesia epica per se stessa maggiore della lirica; e secondariamente per ciò che l'Eneide era un soggetto grato a' Romani.

Il paragone fra due scrittori così differenti non regge. Virgilio ha un posto non comune fra gli scrittori di poemi secondari scritti in tempi di universal cultura, mentre Orazio come lirico segue modestamente le orme de' Greci, e riesce più felice nella satira. Deve al suo materialismo se gl'Italiani del Rinascimento lo collocarono si alto. Senza nessuna

fede religiosa politica e morale, senza sentimenti profondi, su di che poteva fondar la sua lirica? Anche il Carmen sæculare non è che una preghiera elegante rivolta a numi già morti. Di questa mancanza di fede, di questa superficialità di sentimenti non bisogna accusar l'impero, ma la società. L'impero fu possibile, anzi necessario per quella società già disfatta molto tempo prima.

§ 2.

Anche l'Inno a Nettuno fu dato nello stesso anno dallo stesso giornale. Nell'avvertimento l'Autore racconta la favola di un suo amico a Roma che trovò in un codice l'inno greco e glielo mandò per farne la traduzione. Che quest'inno possa destar la meraviglia per la profusione delle note e per la padronanza dell'A. nella grammatica greca, in un'età così verde, non si può mettere certamente in dubbio, ma nello stesso tempo non si può negare che se era pratico della lingua, era inesperto della letteratura. Il prendere a modello per esercizio di scuola proprio l'inno sacro, la forma più antica della poesia greca, mostra un'immaturità proprio giovanile. C'erano tante altre forme rettoriche artifiziali e posteriori che si prestavano meglio all'imitazione.

Nel periodo primitivo della poesia ariana i sacrifizi agli Dei si accompagnavano al canto, all'inno. Gli Ariani della Grecia componevano inni prima di dividersi dalle razze cognate conquistatrici dell' India. I frammenti epici conosciuti col nome di inni omerici appartengono a un'epoca molto posteriore, e non possono darci un'idea de' veri inni sacri. Molto meno lo può la poesia alessandrina che si fece ad imitarli nelle sue poesie orfiche, fondandosi sopra vaghe tradizioni. I tempi erano tanto differenti. I poeti de' veri inni primitivi erano sacerdoti, uffici allora congiunti; e da' santuari, dagli altari scaturi la prima volta la poesia e la musica. Degl' inni greci si sarebbe perduta la memoria, se non avessimo da pochi anni gl'inni indiani, della medesima essenza, conservati da' Bramani religiosamente. In Grecia vi furono sacerdoti, ma non un clero ordinato gerarchicamente come in India, non una casta dotta con scuole in cui si studiava i testi sacri. Per ciò la letteratura greca manca di sacre scritture, e noi non possiamo argomentare de' suoi inni sacri se non per comparazione degli inni del Vêda, i soli rimasti della nostra razza ariana.

Che Leopardi, tanto giovane, chiuso in Recanati, fuori di qualunque commercio letterario, non sospettasse nulla della impossibilità di ricomporre l'inno

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