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no scorsi dall'ingresso di queste forze in Palermo, quando il numerosissimo navilio angioino comparve minaccioso davanti alla città. Dal quale disbarcato l'esercito. al luogo chiamato i Casseri, poco discosto dalle mura, fanti e cavalli a devastare si misero tutte le vicine campagne. Nè soltanto derubavano i bestiami, le biade, le masserizie, che vendevano immantinente a quei ba rattieri, a ragione dal volgo detti rapaci (8), ma svellevano per fin gli arbusti, gli alberi, cosicchè di una magnifica piantagion di aranci della regal villa di Cubba (9), che il sagro bosco di Marsiglia avresti detto per la sua foltezza, non restò quasi alcun vestigio, e parea che un furiosissimo turbine l'avesse atterrata. Sperando poi il re angioino che la prestezza dell' assalto non darebbe campo al nemico di far valida resistenza, e credendo affatto sguarnita di difensori Palermo, facile il superarne, o sfondarne le mura per la loro estensione, e vetustà, avea già pronte le gallerie, i parapetti, le testuggini, le torri, le scale. Ma con somma sua sorpresa quando vi si appressò, videvi riparati i danni del tempo, vide sorgervi in ogni angolo torri, e macchine da lanciar roventi sassi; chè dapprima lo zelo patrio degli abitanti, indi il senno del Chiaromonte, e la speditezza di Arrigo avean già provveduto a quant'occorreva alla difesa di quella gran città. Pel quale inatteso spettacolo frenò Roberto la intempestiva sua foga, e seriamente intese in un militar parlamento co'suoi duci al partito da prendere intorno a Palermo. Ed i baroni di Napoli difficilissima, anzi impossibile ne dicevan l'impresa, ed il mal esito alla lor causa

poterne essere fatale. Ma i genovesi guelfi, ch'erano nel campo, tal non la credevano, e gridavano indecoroso e vile il ristarsi in faccia a pochi uomini d'arme, e ad una popolazione non usa alla guerra, ed ammollita da tutte le delizie di una capitale. Or a questo parere, ch'era il più animoso, se non il più saggio, appigliossi Roberto, incoraggiatovi anche dalla predizion di tal, che dicevasi invaso da familiare spirito, e che consultato da lui prima di partir da Napoli, aveagli risposto : Sicilia, e sue spoglie ben presto avrete in mano. Fatte dunque suonar le trombe, procederon, secǝndo il costume, le schiere degli scuddati, seguite di presso da ordinate file di esperti balestrieri, indi le numerose milizie con bei cavalli di battaglia, ed armi risplendenti, e finalmente la plebea turba colle macchine di guerra, delle quali chi tirava le funi, chi curava le ruote, chi maneggiava le palanche. E siccome confidavasi l'Angioino che da un tanto militare apparato, sbigottiti i rettori di Palermo, potessero forse venire a patti, così per più di un'ora fermossi in questa minac ciosa attitudine. Ma vedendo in fine che non compariva alcun araldo, e che aveasi a fare con un ostinato nemico, invitò il legato apostolico ch' era nel campo a benedire le macchine, e le schiere; e fatto dare il segna dell' assalto, la guerra cominciò.

Di sopra, e di sotto la porta di Termini, sino alla torre dei Greci, ed anche alle porte di Mazzara, c di Carini si combatteva da due giorni; ed al terzo per distrarre i difensori dalle mura, tentay' anche Roberto di fare spezzar la catena del porto con quelle bar

che senza carena chiamate comunemente cope, o fil›e. Ma per grande che fosse in tutti quei luoghi l'impeto di fuori, la resistenza di dentro era anche più grande. Immagina un nuvolo di dardi, e di sassi infocati che ingombravan l'aere, ampie faci che lanciavansi contra i propugnacoli delle mura, torrenti d'acqua che da queste versavansi per estinguerle, olio bollente, pece liquefatta, ed altre roventi materie che dalla città piovevano sulle macchine angioine, e finalmente torri distrutte, incendiate gallerie, atterrate testuggini, rigettate scale, urli degli schiacciati, lamenti de'feriti, preci, o imprecazioni dei moribondi, e comprenderai qual fosse questa nuova lotta tra agguerrite e numerose milizie, ed un popolo risoluto e magnanimo. Pugnavasi, in una parola, tra gli autori, e i vendicatori del vespro, e ciò basti a mostrar il furore di quelle armi. Giovanni di Chiaromonte, ancorchè tormentato dalla gotta, adoprò per un intero giorno da prode ed esperto capitano; ma sopraffatto dal dolore, ceder dovette il reggimento della guerra ad Arrigo di Abbate, nè affidar poteva l'alto incarco in mani più egregie. Fu Arrigo infatti che mandò a vuoto l'assalto contra il porto, il quale sarebbe stato funesto alla città. Fu egli che, accortosi come le roventi pietre lanciate dalle mura per la lor mollezza non facean gran danno agli aggressori, impiegò a tal uopo le selci durissime delle strade di Palermo, e coll' ingegnoso trovato portò la final distruzione nelle macchine ostili (10). Eppur, malgrado tanti vani sforzi, invaso Roberto dalla predizion dello spirito sperava ad ogni momento

un cangiar di fortuna, e ritardava una ritirata che sol potea salvarlo. Ma nel mentre egli era in tal frangen. te, una vecchia donna, che seco menava un involto di meschine vesti, e che presa dai suoi nel fuggir che facev' alla montagna, veniva condotta a lui davanti per essere interrogata sulle mosse di Federigo, gettasi ai piedi suoi, e piangendo gli dice: nulla, o signor grande, io so di quel che da me si chiede. Una funte di Alcamo son io, che salvava questi pochi cenci dalla rapina delle vostre genti. In nome di Dio, di Maria Vergine, e di tutt' i Santi, non permettete che sia fatto alcun male alla vecchia e povera Sicilia. E si morse l'Angioino a tal nome le labbra, e maledicendo l'inganno fattogli dallo spirito, esclamò: tristo è chi crede al padre della menzogna (11). Cadutagli quindi dagli occhi la fatal benda, ed avvedutosi che una maggior perdita di uomini poteva essergli ruino. sa ove i Palermitani uscendo dalla città, gli fosser con vigoria piombati sopra, sonar fece senz'altro indugio le trombe a ritirata. Nè sol da questo tristo suoma da un altro ancor più tristo furono intronate le sue orecchic, dallo squillo cioè di quelle campane già tanto ferali alle sue genti, e che festeggiavano ora il respinto assalto, il trionfo delle patrie armi, e la liberazione della capitale della Sicilia. Dal suo canto poi non credette Arrigo d'inseguire gli Angioini nella loro ritirata, e di arrischiare il frutto della sua vittoria in un aperto conflitto. Se non che quando furono essi in Termini, uscì dalla città, raguuò gli avanzi delle lor macchine di guerra, e fattone un falò innanzi

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alla chiesa madre, ne consagrò le ceneri a S. Rosalia, conservar facendole entro moltissime botti nei sotterranei del tempio, ad eterna memoria del fatto. Così grazie alla sua intrepidezza liberossi la seconda volta Palermo dai suoi crudeli nemici; così domò di nuovo la francese boria dopo trentun' anni.

Or da questa eroica difesa convinto Roberto che difficilmente colla forza delle armi potrebbe aver la Sicilia, e che agli artifizii doveva far ricorso, chiamò in Termini il vecchio Lucifero, arcivescovo di Santa Severina, ed il famoso Gualtieri di Scordia, il quale dopo la pace, arrossendo di ritornare in Catania, erasi rimasto a Napoli, ed alla riunovazion della guerra era stato in Sicilia proclamato pubblico nemico. E giunti che furono alla sua presenza quei due malvagi, con uno spregiante sorriso ei disse loro: tutto dovete metter in opera, o valentuomini, per punir questi orgogliosi isolani dei lor vecchi peccati, e del nostro recente scorno. Ed a voi soprattutto, o Gualtieri, che si ben conoscete l'animo dell' aragonese usurpatore, e che col vostro ingegno arrivaste a far pentire il gran Lauria de' tanti servigi renduti a quell'ingrato, a voi raccomando la esecuzione di ciò che l'Arcivescovo crederà conducente al buon esito delle nostre cose. Qual mezzo per ottenere un pari intento impiegasse il padre nostro di gloriosa ricordanza, vel dirà anch'esso; ed esiste tuttavia questo mezzo, e di molto potrà giovarne. Mentre Noi dunque or moveremo il campo, per portare la desolazione, ed il terrore tra questi ostinati ribelli, voi contribuirete

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