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ed ebbe la sua donna-angelo, a cui pose un nome, Beatrice, significando con questo nome la presa di possesso che egli faceva per proprio conto della letteratura del tempo. Si è disputato e si disputa se Beatrice fu personaggio reale, una fanciulla fiorentina da lui realmente incontrata e amata, o una costruzione ideale, sorta sull' esperienza e sul ricordo di varî amori o sulla semplice immaginazione dell' amore. Questione che non avrebbe alcun peso, e sarebbe da mettere da canto con tutte le altre simili, che si muovono per tutti i poeti (in biografia più o meno importanti, ma inutili nella cerchia della poesia), se sotto di essa non fosse o a essa non se ne mescolasse, non formulata o solo in confuso, un'altra più veramente letteraria. La quale è semplicemente questa: se Beatrice sia una costruzione artificiosa, un' escogitazione intellettuale e fredda, o non abbia calore e realtà poetica. E questa domanda converge nell' altra sul valore estetico della poesia amorosa di Dante; e le abbiamo già dato una tal quale risposta, quando abbiamo detto che, da principio, quella fu poesia di scuola, e che dunque Beatrice, almeno in un certo rispetto, è poeticamente irreale.

Piuttosto che poesia, i componimenti danteschi giovanili e non solo i primi nel vecchio gusto, ma anche le rime posteriori alla canzone che egli designa come il vero principio del suo stil nuovo (Donne ch'avete intelletto d'amore), e le altre ancora non incluse nella Vita Nuova si direbbero atti d'un culto, adempimenti di riti, cerimonie, drammi liturgici, in cui l'amore e gli altri affetti e operazioni dell' anima sono personificati, e la donna-angelo si comporta in questo e quel modo verso l'innamorato, il quale ha attorno, nelle sofferenze che sopporta e nelle azioni che compie, spettatori e spettatrici compassionanti e soccorrenti. Si descrivono così gli effetti mirabili che ella produce su colui che l'ama e su tutte le genti; si sciolgono le lodi

della Gentilissima; si trema al suo cospetto; si adora, si piange, si chiede pietà o perdono. In siffatto atteggiamento di culto cortese o religioso non è possibile altro che eloquenza e colori rettorici: l'animo si è collocato, poeticamente, in una situazione falsa, che per altro falsa non è sotto l'aspetto pratico, in quanto deliberata esecuzione del programma della scuola e di ciò che al fedele di essa tornava gradito e gradiva ad altri e suscitava approvazioni ed entusiasmi: come si vede sempre in questi casi, e ciascuno in ogni tempo può sperimentare, osservando la letteratura che gli fiorisce intorno e le nuove scuole d'arte, che hanno cangiato e cangiano programmi, ma non mai andamento e carat

tere.

Ma la rettorica ha anch'essa gradi e forme varie; e questa di Dante (e di alcuni tra i suoi amici e contemporanei) non è quella rettorica meccanica, fastidiosa e ripugnante, che ci si presenta soprattutto nei meri letterati e ripetitori, e nelle fasi tarde e ultime delle scuole. È una rettorica giovanile, e, in quanto tale, da una parte non è tutta rettorica, e dall'altra, rettorica quale pur è in sostanza, è trattata con ingenuità, da spiriti che ci credono, che se ne vogliono persuadere, se ne lasciano persuadere, non ancora forti a indagare sè stessi e a discernere in sè il superficiale e il profondo, il serio e il voluto serio, la schiettezza e la gonfiatura. La donna-angelo è una costruzione di testa; ma accanto a essa pur si muove il vago sogno giovanile di bellezza, di virtù, di soavità, di purità: sogno arditissimo nei suoi voli pei cieli del perfetto e del sublime e accompagnato da altrettanta timidezza nella vita reale; e tutto codesto non è escogitazione, ma affetto, aspirazione, sospiro, esaltazione, cosa, insomma, spontanea e sincera. Certo, quest' affetto non si crea la propria forma, e ne toglie una già esistente e perciò disadatta, troppo ampia, troppo architettata, convenzionale; ma pur in qualche

modo, circondando e abbracciando questa forma estranea, vi penetra dentro e l'anima di tratti vivi e commossi. L'escogitazione dell' intelletto prende figura in una giovane donna, dal "color di perla", dal sorriso estasiante; una figura che si vede e non si vede, indeterminata, sfuggente; il sentimento, che ella sparge di beatitudine, è ineffabile: intender non lo può chi non lo prova. E questa giovane donna, che così poco dimostra di sè stessa, fuori dell'incanto che diffonde col suo apparire, ha la storia che le si confà, la storia delle apparizioni angeliche; perchè, come essere che non è della terra, che non ha niente da fare nè da amare sulla terra, presto muore, o piuttosto trapassa. L'ammirazione per la bellissima, per la divina parvenza, il dolore pel suo sparire, il rimpianto per lei che non c'è più, che non è più sulla terra eppure è sempre nel cielo e nel cuore di chi l'ha amata, il dominio che ella, morta e lontana, tuttavia esercita su lui, e l'abito di vita e di sentire che gl' impone, ammorbidiscono e ravvivano la poesia di scuola, che il poeta le consacra. Parole affettuose, immagini delicate cospargono queste rime. È il moto dei begli occhi nel primo istante che conquisero l'amante: "quanto piani, Soavi e dolci ver me si levaro!"; sono le giovani donne, a cui egli rivolge la parola, dal viso raggiante di bellezza, “e la mente d'amor vinta e pensosa"; è Beatrice, che "un poco. sorride"; è Amore, che fa da battistrada alle due amiche e lieto annunzia il loro giungere, e "ride in ciascuna sua parola", ed ecco spuntano, l'una dietro l'altra, le due belle, Monna Vanna e Monna Bice, "l'una appresso dell' altra maraviglia"; è quel "color d'amore e di pietà sembianti" della donna compassionevole, che guarda con affetto e persuade a nuovo affetto il dolente per la morte di Beatrice; è il "gentil pensiero", che s'insinua nel cuore di chi ha già amato, "e ragiona d'amor si dolcemente, Che face consentir

lo core in lui". E poi, le immagini di morte, di una morte che è strazio e insieme intenerimento: la parola angosciosa che si ascolta come istupiditi, che le labbra. ripetono incredule: "Morta è la donna tua ch'era sì bella"; la realtà della morte nel pietoso ufficio delle parenti o delle amiche, che lei, la Beatrice, "covrian d'un velo", separandola dal mondo cui più non appartiene; lo sciogliersi a poco a poco dello strazio nell'umiltà e nel desiderio della morte, che è "omai cosa gentile", perchè la donna sua l'ha accolta in sè; e, ancora, il chiamare lamentando la perduta creatura e dirle; "Beatrice, or se' tu morta?", e, in questo risonare del nome invocato, sentir conforto quasi che la persona di lei riviva: "e mentre ch'io la chiamo, me conforto".

Insieme con queste sparse parole e immagini, c'è nelle liriche giovanili di Dante una squisitezza di ritmi e di suoni, si direbbe quasi una musica, la musica di un' anima commossa soavemente e rapita, che avvolge nell'onda sua lene e scorrevole anche le figurazioni e formule convenzionali. Questo "stil nuovo" di Dante è veramente "spirato da Amore", amoroso esso stesso, "a quel modo che detta dentro”; e come esempio della sua dolcezza possono valere i due sonetti: "Negli occhi porta la mia donna Amore", e "Tanto gentile e tanto onesta pare": schemi già usati dai rimatori precedenti e che Dante carezza e affina, in modo che, pur dicendo essi quello che altre volte avevano detto, si sprigiona dal loro dire qualcosa che va oltre il significato delle parole. Risuonano agli orecchi e all'animo certi principî di altri componimenti: "O voi che per la via d'Amor passate..."; "Tutti li miei pensier parlan d'Amore..."; "Deh peregrini, che pensosi andate..."; "Oltre la spera che più larga gira..."; "Io mi son pargoletta bella e nuova.. "Per una ghirlandetta Ch'io vidi mi farà Sospirare ogni fiore..."; e certi

giri di frase e di ritmo: "E chi mi vede e non se ne innamora D'Amor non averà mai intelletto..."; "Io non la vidi tante volte ancora Ch'io non trovassi in lei nuova bellezza..."; e simili, in gran numero. Una ballata si leggeva un tempo: "Deh nuvoletta, che in ombra d'Amore. e questo verso, che non dava alcun chiaro senso o immagine distinta, tuttavia piaceva e si ricantava volentieri, tanto che il Carducci lo incluse in una sua ode.

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In questo sorpassare col suono le parole, in questa virtù poetica che non ricava da sè le sue particolari determinazioni ma le prende dalla letteratura e le circonfonde d'armonia, c' è dell' incompiutezza; e tali versi si direbbero, non senza fondamento, alquanto ingannatori. I due sonetti e gli altri componimenti di sopra citati sono un po' come la farfalla dell' apologo goethiano, che, a scrutarla da vicino, non mostra più i suoi varî e cangevoli colori, ma solo un languido azzurro; si scoprono stilizzati, contesti di frasi fatte o generiche o vaghe, di ripetizioni, di qualche riempitivo. L' afflato poetico non è stato sufficiente a dar loro saldo corpo. Talvolta il principio è promettente, ma non dura nello svolgersi e presto cade, come si può osservare, tra l'altro, nel sonetto dei pellegrini e in quello: “Guido, vorrei ...", così largo nel bell' impeto iniziale ma non felice nell' esecuzione, alquanto sbrigativa e prosaica, sicchè piace più, come si suol dire, per l'idea che non per sè stesso, per la nostalgia che annunzia e non pel quadro che dipinge. La testura è di solito un po' semplicistica, come si osserva anche nella canzone della Morte, che è la più bella della Vita Nuova (e dove, oltre le parti già ricordate, è una scenetta di donne presso un infermo, che richiama lo stile di certi affreschi di Giotto): canzone che non stacca innalza

il motivo propriamente poetico, il sogno angoscioso della morte della donna amata, ma lo mette sullo

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