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dir vero, molta forza e bellezza; il che è peccato loro e non colpa dell'allegoria, peccato perchè nacquero a freddo e a vuoto o se ne stettero irresolute tra due diverse ispirazioni. Leggendo la canzone: Voi che intendendo il terzo ciel movete, in qualunque senso la si prenda, come rappresentazione di lotta tra un antico e un nuovo amore per donna, o di quello tra l'amore per la vita religiosa e l'amore per la filosofia, la canzone appare fiacca, perchè la lotta, il secondo amore che cerca soppiantare il primo, e il rimorso che ne segue, non sono messi in azione, ma intellettualizzati ed eposti in modo riflesso, e avvolti poi nelle forme convenzionali della lirica stilnovistica. E l'altra: Amor che nella mente mi ragiona, si affatica ad accumulare mirabilia intorno alla donna celebrata, e dice che Amore gliene dice cose che egli non può ridire, e che il sole non vede niente di più gentile di lei, e che ogni intelligenza celeste la mira, e Dio le infonde la sua virtù, e la divina virtù splende in lei e fa innamorare la gente, fa la gentilezza e bellezza di ogni donna, e che le sue leggiadrie provenienti dal cielo sono indicibili, ed essa ispira umiltà, doma la cattiveria, e fu pensata da Dio quando creò il mondo, e simili; ma non trova una parola viva, un'immagine concreta per esprimere la commozione sia per la donna sublime sia per la filosofia. Allegorico non è da considerare nemmeno qualche sonetto come Due donne in cima della mente mia, delle due donne che sono la Bellezza e la Virtù, e che disputano intorne al diverso amore che esse muovono e decidono che l'una si può amare per diletto e l'altra per "alto oprare"; perchè si ha in questo caso nient' altro che la rappresentazione di una condizione d'animo, tirata da due diversi affetti, e in ultimo fermata in un pensiero di eclettica conciliazione.

Da tener distinto dagli altri è, invece, il gruppo dei componimenti didascalici, che Dante stesso circoscrisse

nettamente quando, componendo la più nota delle sue canzoni didascaliche, dichiarò di abbandonare le "dolci rime d'amore" ch' egli "solia", l' "usato parlare", "lo soave stile”, e di appigliarsi alla “rima aspra e sottile”, che gli rendeva buon ufficio a discutere e a confutare, a "riprovare il giudizio falso e vile" dei suoi avversarî. Sono esse vera prosa in verso, dove il verso sta come mezzo esornativo e mnemonico. Per esempio: "Chi definisce: Uomo è legno animato, Prima dice non vero, E, dopo, il falso parla non intero..."; o più oltre: "Dico ch' ogni virtù principalmente Vien da una radice, Virtude intendo che fa l'uom felice In sua operazione ...”. In altre di queste canzoni, la didascalica pende verso l'oratoria e la satira, come in quella Poscia ch'amor, sulla vera e la falsa leggiadria, e nell' altra Doglia mi reca, contro l'avarizia che rende indegni dell' amore di donna gentile: "Dimmi, che hai tu fatto, Cieco avaro disfatto? Rispondimi, se puoi altro che nulla. Maledetta tua culla, Che lusingò cotanti sogni invano! ...".

Alla poesia riconducono i componimenti che sogliono contrassegnarsi come rime della „Pietra“: a una poesia d'amore colorata assai diversamente da quella per la donna ideale, poesia tutta piena di ardore e furore sensuale. La passione tiranneggiante vi è ritratta con modi efficaci: "Io non posso fuggir ch' ella non vegna Nell'immagine mia, Se non come il pensier che la vi mena. L'anima folle, che al suo mal s'ingegna, Com'ella è bella e ria Così dipinge e forma la sua pena. la riguarda ...". Particolarmente energica è la canzone Così nel mio parlar, dove lo stesso sentimento di non potersi liberare dall'immagine affascinante e tormentosa e pur bella, è espresso mirabilmente: fior di fronda, Così della mia mente tien la cima"; e si entra a vaneggiare di un improvviso innamoramento della donna ritrosa per lui, che alfine l'avrebbe tutta

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Poi

...come

in sua balìa e se ne sazierebbe, e le renderebbe "con amor pace". Ma neanche in questi componimenti la forma è pura e schietta, e il poetico loro spunto è in parte reso superficiale e in parte turbato dal virtuosismo delle immagini e delle rime, tanto che essi sono potuti parere ad alcuni filologi nient'altro che esercitazioni stilistiche e metriche, sul gusto provenzalą. I giuochi delle rime regnano nella canzone Amor, tu vedi ben, e nella sestina Al poco giorno; e contrapposti e paragoni e metafore lambiccate e tirate in lungo. nell'altra canzone lo son venuto al punto della rota, e nella già citata, che s' apre con l'annunzio di voler essere "aspro" nel parlare "com'è negli atti" la bella "Pietra", e si attiene a siffatto stilistico o rettorico proposito, ed è piena di figurazioni guerresche, saette, faretre, spade, scudi, scherane micidiali e ladre. Nondimeno, anche nella sestina artificiosissima spira la poesia, come si vede nei tre versi iniziali, ritraenti lo scolorirsi di un paesaggio al sopravvenire dell' inverno: "Al poco giorno ed al gran cerchio d'ombra Son giunto, lasso! ed al bianchir de' colli, Quando si perde lo color nell'erba..."; e in questi altri, che offrono lo spettacolo contrario, del risorgere primaverile: "Il dolce tempo che riscalda i colli, E che gli fa tornar di bianco in verde, Perchè gli copre di fioretti e d'erba"; e in certe immagini e detti leggiadri: "Quand' ella ha in testa una ghirlanda d'erba, Trae dalla mente nostra ogni altra donna; Perchè si mischia il crespo giallo e 'l verde Si bel, ch' Amor vi viene a star all'ombra...". E c'è qualche trepido sonetto, come: "Se 'l bello aspetto non mi fosse tolto...", in cui l'esule vede nell'amore il balsamo che gli renderebbe lieve a sopportare la sventura, e, nella lontananza dalla sua donna, l' inacerbimento delle sue piaghe.

Come in queste rime della Pietra si passa dall' atteggiamento in prevalenza rettorico dello stil nuovo a una

certa commozione e passione umana, così in alcune altre il sentimento etico del poeta si discioglie dalle abitudini della rettorica e insieme abbandona la nudità della didascalica. Un bel sonetto (Se vedi gli occhi miei), che a lui si attribuisce e del quale variamente si congettura l'occasione storica, è un anelito alla giustizia: tutto pieno di fremente orrore pel male che si vede attorno e per la paura che esso incute ai cuori fedeli, il poeta s'innalza a una preghiera perchè giustizia sia fatta: "Ma tu, fuoco d'amor, lume del cielo, Questa virtù che nuda e fredda giace, Levala su vestita del tuo velo; Chè senza lei non è qui in terra pace". Non si dubita invece (o se ne dubita senza che mai finora se ne siano addotte ragioni) che spetti a Dante la canzone delle Tre donne, la maggiore di questo gruppo, e della quale già si è avvertito che è vana e sterile fatica ricercare i particolari allegorici, i nomi precisi di tutte e tre le donne, e il preciso perchè del loro provenire dal luogo dove sorge il Nilo. Con pieno diritto questa volta il poeta ammonisce nel commiato: "Bastin le parti nude”; chè esse bastano veramente. Le tre donne, che paiono dolenti e sbigottite come persone discacciate e stanche, che vanno discinte e scalze e con vesti lacere, le germane sconsolate, che s'accolgono al suo cuore come a casa d'amico, sono per sè stesse fantasmi poetici di virtù, di purezza, di accoramento, di dignità: tre belle, maestose e addolorate donne, tre dee o tre principesse in esilio. Il poeta, che ha questa visione, sente alla loro presenza sè stesso: le ingiustizie da lui patite, l'orgoglio di soffrire esilio e povertà come quelle, con le quali appartiene al medesimo sangue, alla medesima alta società: aristocratico in mezzo all'aristocrazia della virtù e della sventura.

Se ora si volge al complesso di queste poesie uno sguardo movendo dalla Commedia, se si proietta sopra di esse la luce di questa, e si domanda come si con

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giungano al sacro poema, si dovrà convenire che i legami sono scarsi e lievi. Della Vita Nuova è detto comune e approvato che formi l'introduzione o il vestibolo della Commedia, una sorta di prologo in terra al dramma dell' oltremondo; pure, sebbene il pensiero di descrivere la visione oltremondana si annunzî nella chiusa di quel libretto, e sebbene nella Commedia ricompaia Beatrice, ciò non costituisce rapporto poetico, ossia affinità d'intonazione, tra le due opere, ma soltanto rapporto materiale, per una circostanza di fatto o per una premessa ideologica che l'una trova nell'altra, per una figura o piuttosto per un nome che passa dalla prima alla seconda opera. Lo,,stil nuovo non vi è più nella Commedia: Dante lo ricorda bensì, ma come un fatto storico, come un vanto della sua giovinezza, come la sua prima comparsa nel mondo letterario, col plauso che lo accolse. Meno ancora è da ravvicinare la poesia didascalica delle canzoni alla poesia dottrinale che è di alcune parti della Commedia, specie della terza cantica: anche qui il respiro è assai più largo, l' intonazione è affatto diversa, e si potrebbe dire che nel primo caso c'è didascalica e non poesia, e nel secondo, poesia che discioglie la didascalica; nel primo l'aggettivo nega il sostantivo, nel secondo il sostantivo domina e determina l' aggettivo. Qualche maggiore affinità si scorge con le poesie passionali e con quelle dell' etico sentire; e alcuni versi: "Chè bello onor s' acquista in far vendetta", "L'esilio che m'è dato onor mi tegno", "Cader co' buoni è pur di lode degno", suonano quasi come versi della Commedia: quasi, ma non proprio a quel modo. Più generalmente è da concedere che, attraverso le rime, Dante fece la sua educazione d'artista, specie se a questa affermazione si dia senso giusto e compiuto, e s'intenda che l'educazione consiste non solamente nello svolgere certe disposizioni, ma anche nel disfarsi di certe altre con l'esercitarle

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