Ben converrà che la mia donna mora. Gli spirti miei, che ciascun giva errando. Di conoscenza e di verità fuora, Visi di donne m'apparver crucciati, Poi mi parve vedere appoco appoco Cader gli augelli volando per l'a're, Ed uom m' apparve scolorito e fioco, Levava gli occhi miei bagnati in pianti, Mi condusse a veder mia donna morta; Vedea che donne la covrian d'un velo; Che parea che dicesse: Io sono in pace. Jo diveniva nel dolor si umile, E dei aver pietate, e non disdegno. D'esser de'tuoi, ch' io ti somiglio in fede. Poi mi partia, consumato ogni duolo; Dicea, guardando verso l'alto regno: Voi mi chiamaste allor, vostra mercede. Questa canzone ha due parti: nella prima dico, parlando a indiffinita persona, com'io fui levato d'una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla: nella seconda dico, com' io dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr' io pensava. La prima parte si divide in due: nella prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi ch' io fossi tornato in verace cognizione; nella seconda dico quello che queste donne mi dissero, poich' io lasciai questo farneticare; e comincia quivi: Era la voce mia. Poscia quando dico << Mentr' io pensava » dico com' io dissi loro questa mia immaginazione; e intorno a ciò fo due parti. Nella prima dico per ordine questa immaginazione; nella seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e questa parte comincia quivi: Voi mi chiamaste. XXIV. Appresso questa vana immaginazione, avvenne un di, che sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentii cominciare un tremito nel core, così come s'io fossi stato presente a questa donna. Allora dico che mi giunse una immaginazione d'Amore: chè mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava; e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio: Pensa di benedire lo di ch'io ti presi, perocchè tu lo dei fare. E certo mi parea avere lo cuore così lieto, che mi parea che non fosse lo cuore mio per la sua nuova condizione. E poco dopo queste parole, che 'l cuore mi disse con la lingua d'Amore, io vidi venire verso me una gentil donna, la quale era di famosa beltade, e fu già molto donna di questo mio primo amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua beltade, secondo ch' altri crede, imposto l'era nome Primavera: e così era chiamata. E appresso lei guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me così l'una appresso l'altra, e parvemi che Amore mi parlasse nel cuore, e dicesse: Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d'oggi; chè io mossi lo impositore del nome a chiamarla Primavera, cioè prima verrà lo di che Beatrice si mostrerà dopo l' immaginazione del suo fedele. E se anco vuoli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire Primavera, perchè lo suo nome Giovanna è da quel Giovanni, lo quale precedette la verace Luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini. Ed anche mi parve che mi dicesse, dopo queste, altre parole, cioè: Chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco. Ond' io poi ripensando, proposi di scriverne per rima al primo mio amico (tacendo certe parole, le quali pareano da tacere), credendo io che ancora il suo cuore mirasse la beltà di questa Primavera gentile. E dissi questo sonetto: Io mi sentii svegliar dentro allo core Dicendo: Or pensa pur di farmi onore; E, poco stando meco il mio signore, Jo vidi monna Vanna e monna Bice E quella ha nome Amor, si mi somiglia. Questo sonetto ha molte parti, la prima delle quali dice, come io mi sentii svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m'apparisse allegro da lunga parte; la seconda dice, come mi parve che Amore mi dicesse nel cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questo fu alquanto stato meco cotale, io vidi ed udii certe cose. La seconda parte comincia quivi; Dicendo: Or pensa pur: la terza quivi: E poco stando. La terza parte si divide in due: nella prima dico quello ch' io vidi; nella seconda dico quello ch' io udii; e comincia quivi; Amor mi disse. XXV. Potrebbe qui dubitar persona degna di dichiararle ogni dubitazione, e dubitar potrebbe di ciò ch' io dico. d'Amore, come se fosse una cosa per sè, e non solamente sostanza intelligente, ma come se fosse sostanza corporale. La qual cosa, secondo verità, è falsa; chè Amore non è per sè siccome sostanza, ma è un accidente in sostanza. E che io dica di lui come se fosse corpo, ed ancora come se fosse uomo, appare per tre cose che io dico di lui. Dico che 'l vidi di lungi venire; onde, conciossiacosachè venire dica moto locale (e localmente mobile per sè, secondo il Filosofo, sia solamente corpo), appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che rideva, ed anche parlava; le quali cose paiono esser proprie dell' uomo, e specialmente esser risibile; e però appare ch' io pongo lui esser uomo. A cotal cosa dichiarare, secondo ch'è buono al presente prima è da intendere, che anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poeti in lingua latina: tra noi, dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e avvegna ancora che, siccome in Grecia, non volgari ma litterati poeti queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati, che apparirono prima questi poeti volgari; che dire per rima in volgare tanto è, quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno |