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obliando il martiro », quando senton da Virgilio ch'esso era vivo; e ognun di loro si affretta o ad affidargli una missione, come Maometto per fra Dolcino, e Piero pei duo miglior di Fano; o a raccomandargli la propria memoria, come il Mosca e Bertramo. Non imprecano alla loro sorte, trovan anzi naturale e conseguente la loro pena crudele. Se non fosse l'ironica apostrofe di Maometto a Dante: «Ma tu chi se' che in su lo scoglio muse....?», e l'atto alquanto sgarbato con cui Piero apre la bocca a Curione, si direbbe d'essere su un balzo del purgatorio. Nessuno di essi mostra d'avere ancor sete di dissensioni o di vendetta; anzi, quando il povero Mosca sa dall'inesorabile concittadino che il suo motto non solo fu mal seme per la gente tosca ma anche morte di sua schiatta, va via rattristato, accumulando duol con duolo (v. 109-11).

Pare che il poeta non sappia staccarsi da quel truce spettacolo, e ancora soffolge la vista laggiù tra l'ombre triste smozzicate. Quegli spiriti turbolenti gli han fatto risovvenire dello zio; e nel suo animo di fiorentino non ancor riforbito, ribollono i rancori di famiglia. Non già che gli prema di Geri, ma dell'onta che grava ancora su tutto il casato. Virgilio non può non avergli letto nel pensiero: Virgilio che sa quel che si tace (Inf. XIX, 39) e quel che voglia dir lo muto (Purg. XIII, 76), che si vanta di percepire perfin le più piccole cogitazioni del suo pupillo (XV, 127) e di ritrarne l'immagine in sè meglio che se fosse uno specchio (Inf. XXIII, 25). Pure, perchè possa la correzione riuscire più efficace, pretende che Dante dichiari con parole il suo sentimento; e non gli risparmia intanto nè la canzonatura, mo

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Anche in questo canto, che è il XXVIII, aleggia un'aura di Purgatorio. D'OVIDIO, Dante e la magia, in N.a Antologia del 16 sett. 1892, p. 205.

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strando di supporre in lui l'assurdo proposito d'annoverare le ombre disseminate nella valle lunga ventidue miglia, nè l'atto sdegnoso dell'avviarsi senz' attendere ch' ei gli spieghi la ragione dell'indugio, nè la dura espressione « Non si franga lo tuo pensier sovr❜'ello » che equivale a non romperti più il capo con lui. Fra le tante cattive inclinazioni, Dante mostra d'aver pur quella della vendetta; e a sradicargliela dall'animo nessun argomento poteva meglio riuscire che lo spettacolo della pena di Geri medesimo. Perciò Virgilio bada. che la lezione non resti senza frutto e quando il fiorentino gli confessa il suo pensiero, ei gli grida:

2.

Attendi ad altro, ed ei là si rimanga!

Un verso che ricorda il « Non ragioniam di lor... ».

Come avrebbe potuto Dante aspettarsi i benefizi della grazia, se pur di quella lebbra non si fosse purificato? Sono esplicite le parole di Cristo (Marco, XI, 25-6): « Quando vi presentate per fare orazione, se avete qualcosa contro ad alcuno, rimettetegliela, acciocchè il Padre vostro ch'è nei cieli vi rimetta anch'egli i vostri falli; ma se voi non perdonate, il padre vostro ch'è nei cieli non vi perdonerà i vostri falli ». Se Dante replica al maestro, non lo fa per approvare il sentimento di Geri, bensi per dichiararne le ragioni del corruccio e per ispiegare il proprio impeto pietoso. Certo, anche quel povero suo zio era ben punito, ed egli d'allora in poi non avrebbe più pensato a lui; ma che pietà vederlo ancora così roso dal livore fiorentinesco, tra mezzo a spiriti tanto più degni, pensosi della loro fama mondana e della buona riuscita di imprese a cui pur di laggiù partecipavan col cuore!

1 Cfr. BLANC, Saggio ecc., p. 280-81.

'Cfr. le buone osservazioni dello SCARANO sul modo che Virgilio tiene nel compiere il suo mandato, nel giudizioso scritto Sulla saldezza delle anime nella D. C. (N. Antologia del 1° sett. 1895).

Virgilio non replica; e in codesto silenzio s'è pur voluto vedere un tacito assentimento del poeta alle bramosie del dannato. Ma e che avrebbe ancora dovuto dire? Non aveva già espresso chiaramente l'animo suo, e non continuava ad esprimerlo, seguitando la sua via senza dar modo al fiorentino di sostare? Nè questi in verità s'aspettava una nuova risposta. Ei parla del suo parente fino a che non arrivano sull'ultima chiostra di Malebolge, dove un altro spettacolo lo conquide. L'episodio di Geri sfuma così in una espressione di pietà: è tutto quello che il poeta ha concesso all'uomo ed al parente. E il poeta medesimo trovava in ciò il proprio tornaconto. Come, per ragioni d'arte, non gli parve conveniente d'abbandonarsi, anche a proposito della vendetta, a una sfuriata simile a quella pei simoniaci; così, per le ragioni stesse, non gli sarà sembrato opportuno di anticipare, con più precisi accenni, il disgusto di Virgilio per certe sue fermate. Da questo ei si riserbava di trar partito nella bolgia seguente, dove il ghiotto piato di maestro Adamo e di Sinone lo avrebbe attirato tanto da muover finalmente a sdegno il dolce duca. Codesta comica scena di rabbuffo e di vergogna non poteva nel poema trovar posto che una volta sola; e s'intende che il luogo meglio acconcio sia nell'ultima delle dieci bolge, dove e riesce più naturale che il duca perda la pazienza, e il ravvedimento del guidato non defrauderà i lettori degli effetti che da quegl' indugi il poeta deriva. Del resto, il monito (XXX, 145):

E fa ragion ch'i' ti sia sempre allato...,

Chè voler ciò udire è bassa voglia,

ha, nella intenzione del maestro, un'estensione molto più larga del semplice pettegolezzo dei due falsari.

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Non si vuol già dire che sull'animo di Dante prepotesse così efficacemente il precetto di perdonare le offese, da renderlo capace di profferir la guancia destra a chi per avventura gli avesse percossa la sinistra. Mite però era, della cosciente mitezza del forte. Ei si sentiva tale (Purg. XXX, 109)

Virtualmente, ch'ogni abito destro

Fatto averebbe in lui mirabil prova;

e l'Amore lo aveva ben per tempo disposto a gentilezza, poichè la sua signoria « trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose > (V. N., 13). Quando la sua donna, « distruggitrice di tutti i vizii », appariva da alcuna parte, « nullo nemico mi rimaneva », egli racconta (§ 11), « anzi mi giungea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso». E codesta sua mitezza gli spiriti un po' volgari, o mondani, la scambiavano, come suole, per vigliaccheria. Ce n'è prova uno dei sonetti di Forese, oscuro in tutto il resto, ma chiarissimo nell'accusa che Dante s'era subito

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Un sentimento ben diverso gl'ispirava la scherana micidiale e latra » della canzone Così nel mio parlar........ Qui il poeta non è compos sui: fors'anche perchè codeste canzoni non erano, in fondo, che esercitazioni metriche. Gliene avea fatte tante colei, diceva, che egli avrebbe voluto acciuffarla per le trecce,

E se Amor me ne sferza,

Io mi vendicherei di più di mille.

Intanto le mandava questa canzone: lei gli ha ferito il core, che la canzone le dia dunque

per lo cor d'una saetta,

Chè bell'onor s'acquista in far vendetta.

Quest'ultimo verso, staccato dal contesto, fu citato dal Foscolo (Disc. sul testo, p. 157) e da altri per provare qualmente l'animo del nipote di Geri si compiacesse della vendetta!

affrettato a rappaciarsi con uno che aveva ingiuriato suo padre.

Se tagliato n'avessi uno a quartieri,

Di pace non devevi aver tal fretta,

gli diceva canzonandolo; e soggiungeva:

Bono uso ci ha' recato, ben te 'l dico,
Chè, qual carica te ben di bastone,

Colui ha' per fratello e per amico.

Chi sa quante di siffatte malignazioni, e grette e pettegole insinuazioni, non avranno esasperato l'animo dell'Alighieri in patria, e ora che scrive il poema gli si ripresentano alla mente! Chi sa quante delle sue parole di adesso non sono che una risposta alle accuse di allora; e quanto dramma non sarà preceduto a quelle scene della Commedia, che se ne posson considerare come la catastrofe!

E se i contemporanei scambiaron per viltà la mitezza di Dante, i posteri han confusa la disdegnosa fierezza di lui per ogni viltà e bassezza con la volgare voluttà della vendetta. Questa può essere accolta solo negli animi angusti, che tutto pos pongono ai loro interessi personali; ma ce n'è un'altra, ch'è proprio dei magnanimi il vagheggiare, e che ha motivi molto più nobili e generali. Quando il poeta invoca sul capo di Alberto tedesco e del suo sangue (Purg. VI, 97) il « giusto giudicio » di Dio; o quando infligge ogni maniera di tortura al traditore di Montaperti, o si piglia villanamente giuoco della cecità di frate Alberigo, o con le sue gravi parole fa che Niccolò III guizzi più fortemente con ambo le piote» e il Mosca senta accrescersi il duolo: ei non chiede e non fa le sue private vendette, bensì quelle della gran patria italiana o della piccola patria fiorentina, della moralità cittadina od ecclesiastica. E una simile ira, un siffatto appetitus vindictae come la definisce san Tommaso o dritto zelo come Dante stesso

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