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(II, 2), dove, senza dirlo, ne ripete in prosa un concetto. Alle parole di Cino: « Perchè Dio l'aggia allocata fra i suoi, Ella tuttora dimora con voi », fece corrispondere queste altre: << appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata, che vive in cielo con gli angioli e in terra colla mia anima ».

Tuttavia potrebbe altresì supporsi che Dante, nell'enumerare le tre ragioni che gli vietavano di trattar subito della morte di Beatrice, avesse rivolta la mente non al futuro poema, bensì ai << trattati » filosofici del Convivio: poichè qui appunto, più lungamente che altrove, si parla di quella morte, e nel modo temperato e virile cui l'età e gli studi lo avean reso maturo '; e qui pure egli sente fin dal principio il dovere di scusarsi del parlare di sè medesimo 2. In tal caso, col rimandar la trattazione ad altro chiosatore, avrebbe voluto accennare al libro dottrinale. Ma se non ci sarebbero gravi difficoltà ad ammettere che fin dal 1291 o '92 Dante vagheggiasse un'opera quale riuscì il Convivio, sarebbe presso che assurdo il pretendere che fin d'allora almanaccasse di travisare allegoricamente i fatti che seguiron la morte di Beatrice, e che proprio in quel momento ei narrava con cara ingenuità e spensieratezza giovanile. Tra la Vita Nuova e la Commedia i rapporti sono intimi ed evidenti, e fin da prima voluti e messi in mostra dal poeta; quelli tra la Vita Nuova e il Convivio son fittizi, e solo posteriormente escogitati dall'esule, quando temette cioè il passionato libello non nuocesse alla

1 Conv. I, 1: « E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo siccome ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Chè altro si conviene e dire e operare a una etade, che ad altra » ecc.

2 Conv. I, 2: « Da due macole mondare intendo primieramente questa sposizione..... L'una è, che parlare alcuno di sè medesimo pare non licito; l'altra si è che parlare sponendo troppo a fondo, pare non ragionevole > есс. SCHERILLO, Biografia di Dante.

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sua riputazione d'uomo politico, e non se n'accusasse di leggerezza l'autore, per aver dettate, dopo quelle per la gentilissima, le Rime per la nuova « pargoletta » 1.

IX.

Alcuni interpreti mostran di non credere che la morte di Beatrice avvenisse quasi d'improvviso, e voglion riconoscere come di Dante una canzone, che sarebbe stata scritta durante l'ultima malattia di lei, per impietosire e allontanare la Morte. Il D'Ancona, riferendosi alle parole della Vita Nuova in cui si dice che di quella morte non si ha intenzione di trattarne qui, ne deduce che « molto probabilmente se Dante avesse voluto darci maggiori particolari della malattia e morte di Beatrice, avrebbe qui trovato luogo la canzone Morte perch'io, fatta quando la donna amata era mortalmente inferma » 2. E, tolto di mezzo ogni dubbio, il Casini asserisce: « è a questo punto che si ricongiunge alla Vita Nuova la canzone Morte perch'io, scritta poco prima della morte di Beatrice »; e, più avanti, si giova di codesta canzone per convalidare una certa sua interpretazione. Anche il Witte l'avea creduta dantesca. E per tale poi l'han pure data il Fraticelli ed il Giuliani: all'uno dei quali essa sembra « una delle più affettuose dell'Alighieri, ed improntata di tali bellezze, che non puossi dubitare un momento (nè infatti alcuno il potè) della sua ori

1 Conv. I, 2: « Movemi timore d'infamia... Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le soprannominate canzoni in me avere signoreggiato. La quale infamia si cessa per lo presente di me parlare interamente; la quale mostra che non passione, ma virtù si è stata la movente cagione >.

2 D'ANCONA, V. N., p. 203.

3 CASINI, V. N., p. 153 e 155.

4

WITTE, Dante Alighieri's lirische Gedichte, vol. I, p. 47.

แ MORTE PERCH' 10..... "

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ginalità » 1; e all'altro sembra che « chiunque ben la riguardi, non sarà difficile a persuadersi che essa fu scritta allorchè Beatrice cadde malata e stette in pericolo della vita » 2.

Ma appunto a riguardarla bene, essa si chiarisce merce di contrabbando. Certo, il considerare quale criterio supremo, nelle questioni di legittimità, il gusto dell'editore o del critico, è cosa non iscevra di pericoli. Gli è che quel gusto, il più delle volte, non è abbastanza fine e sicuro. Ma insomma la voce del buon gusto non può rimanere inascoltata, quando questo insorge per dimostrare la propria ripugnanza ad accogliere per opera di Dante o del Petrarca qualunque bruttura un copista abbia, per ingenuità o per frode, loro attribuita. Di quel criterio bisognerebbe usare con garbo e discrezione, e dopo d'essersi accertati che non ci siano prove anche materiali; le quali, in ogni caso, potrebbero dar rincalzo a sentenze ispirate da più sottili motivi, e acquetare gli scrupoli de' molti, usi a creder solo ad argomenti palpabili.

Siffatte prove nel caso nostro fortunatamente non mancano. Prima di tutto, quell'occorrer nella canzone << de' pensieri e modi di dire che si ritrovano in altre opere del solenne Maestro, e singolarmente nella Vita Nuova », che al Giuliani sembrava attestazione valida di autenticità, desta subito sospetti. Tornerebbero in campo gli angeli:

Morte, deh! non tardar mercè, se l'hai;
Chè mi par già veder lo cielo aprire,

E gli angeli di Dio quaggiù venire,
Per volerne portar l'anima santa

Di questa, in cui onor lassù si canta.

1 FRATICELLI, Il Canzoniere di D. A.; Firenze 1861, p. 117.

2 GIULIANI, La V. N. e il Canzoniere di D. A.; Firenze 1883, p. 321-4. Il GINGUENE (Hist. litt. d'Italie, I, 405) aveva anch'egli ritenuta dantesca la canzone, e giudicata remplie de très-beaux vers».

Che un rimatore voglia ricalcare le orme di Dante, s'intende; non però che volesse ricalcar le proprie chi avea cantato con tanta squisitezza di suoni e d'immagini (canz. 2): Levava gli occhi miei bagnati in pianti,

E vedea, che parean pioggia di manna,
Gli angeli che tornavan suso in cielo,
Ed una nuvoletta avean davanti

Dopo la qual cantavan tutti osanna.

E s'intende pure che convenga studiar Dante con Dante; non però per concluderne che qui anche le cose dette altrove << piglino un nuovo aspetto e come una grazia nuova, manifestando ognora la potenza del dolce stile nuovo » !

Nè mi par solenne o leggiadro, benchè conforme all'uso trovatoresco dal Petrarca seguito nella canzone S'i'l dissi mai, e ad ogni modo è discorde dal comune uso dantesco', quell'intonar tutte le strofi, meno l'ultima che fa da commiato, con una identica parola, Morte; la quale è anche ripetuta ben cinque altre volte nel contesto, insieme con morta, morire, muore, mortale. E discordi dallo stile dantesco delle canzoni son pure quelle sfilate di versi, nella seconda e nella terza strofe, comincianti con la stessa o le stesse parole, alla maniera dell'epigrafe messa sulla porta dell'inferno:

19. Se guardi agli occhi miei di pianto molli,

Se guardi alla pietà ch'ivi entro tegno,
Se guardi al segno ch'io porto de' tuoi.

34. Tu discacci virtù, tu la disfidi;

Tu togli a leggiadria il suo ricetto;
Tu l'alto effetto spegni di mercede;
Tu disfai la beltà ch'ella possiede ;

41. Tu rompi e parti tanta buona fede. 2

1 D'OVIDIO, Saggi critici, p. 432 n.

2 Quanto ai motivi che possono aver consigliato il poeta a ricorrere nella Commedia a ripetizioni di questo genere, cfr. l'articoletto del D'OVIDIO (argutissimo, al solito; e valido complemento a quanto ho già osservato

NORME PROSODICHE DI DANTE

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E non sarebbe di buona prosodia il porre una rima equivoca, e nella sola prima stanza:

La donna che con seco il mio cor porta,
Quella ch'è d'ogni ben la vera porta;

quando pure non fosse proprio Dante a consigliar di astenersi il più possibile, nelle canzoni, da ogni aequivocatio (V. Eloq. II, 13). Nè è secondo l'uso dantesco il finire la seconda stanza col verso: « Vorrò morire e non fia chi m'occida », e ripigliar la terza con l'altro: « Morte, se tu questa gentile occidi». E se si vuol avere il coraggio di creder degna di Dante la costruzione de' due primi versi:

Morte, perch' io non truovo a cui mi doglia,

Nè cui pietà per me muova sospiri,

o il dir la sua faccia Dipinta in guisa di persona morta » 2, e lo scongiurar la canzone di farsi avanti a Morte « con quella umiltà che tiene addosso », e il pregar motteggiando quella crudele: « Raffrena un poco il disfrenato ardire »; non si ha però il diritto di crederlo capace, per bisogno della rima, di scriver face per faccia! Scrisse bensì face

indietro, p. 189), comparso mentre correggevo le stampe, Cristo in rima nella D. C., nella Rassegna critica del PERCOPO e dello ZINGARElli, a. I, p. 39 ss.

1 Nel poema però se ne permise. Cfr., p. es., Par. IX, 121-3 e 127-9: Ben si convenne lei lasciar per palma

In alcun cielo dell'alta vittoria

Che s'acquistò con l'una e l'altra palma.....

La tua città, che di colui è pianta

Che pria volse le spalle al suo fattore,

E di cui è la invidia tanto pianta.....

2 Cfr. CAVALCANTI, ballata La forte e nova mia disavventura:

E il GUINIZelli:

qual mira de fore,

Vede la morte sotto al meo colore.

Ch'eo porto morte scritta nella faccia.

E Vita Nuova, 23: Dolcissima Morte..., tu lo vedi che porto già lo tuo colore ».

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