Sayfadaki görseller
PDF
ePub

esempio e non uscir da Geremia, fa da questi esclamare su Gerusalemme: Terra terra terra, audi sermonem Domini (XXII, 29); ed attribuisce al Signore Iddio le minacciose parole le quali ci richiaman subito alla mente i nobili versi d'un moderno che dal Testamento antico derivò spesso il colorito immaginoso, come dal nuovo la mitezza immacolata del sentimento -: Et dispergam eos ventilabro in portis terrae. Dove, checchè voglian supporre alcuni interpreti, non si parla che di Gerusalemme, a cui immediatamente prima il profeta avea detto: Quis enim miserabitur tui, Jerusalem?..... Tu reliquisti me, dicit Dominus....., et extendam manum meam super te (XV, 5-7); e nei Threni (IV, 12) dirà che non crediderunt reges terrae.....; quoniam ingrederetur hostis et inimicus per portas Jerusalem.

Anche nell'adoperar le Scritture bisogna però andar cauti, per non riuscir loro « come spade...., In render torti li diritti volti » (Par. XIII, 128-9); giacchè terra e principi si trovano in quelle carte, come del resto negli scrittori latini e negli italiani, usati più o meno indifferentemente, perfin nello stesso versetto, in tutti i significati che abbiam già visti in Dante. Una volta, in Isaia (XIV, 9), c'è addirittura un principes terrae. Il superbo tiranno di Babilonia, dice il profeta, cadrà pure nell'inferno; ed ecco gli si son suscitati contro i giganti, e omnes principes terrae surrexerunt de soliis suis, omnes principes nationum, per dirgli: tu pure sei stato fiaccato e sei divenuto simile a noi. Il senso non è certo molto chiaro; ma se i 'principi delle nazioni' son certamente i sovrani del mondo, come anche il Diodati intende, è probabile che gli altri saranno oi principali uomini del mondo', o magari quelli che nella terra infernale hanno un posto cospicuo. Farebbe interpretare in quest'ultimo modo la vicinanza dei giganti, ed il riscontro con un luogo del

LA LETTERA AI PIÙ COSPICUI CITTADINI

395

Genesi (XXXIV, 2), dove si racconta di Giacobbe, che pose le sue tende in terra Chanaan.... iuxta oppidum, e di Sichem filius Hemor Hevaei, princeps terrae illius.

A buon conto, di questo gli argomenti sacri e profani ci fan sicuri: che nella frase della Vita Nuova non si parla di sovrani del mondo, bensì dei più cospicui cittadini della gran villa sull'Arno. Mi sembra che non possano non convenirne nemmen coloro che pur si volessero ostinare a non iscorgere nella epistola latina a quelli diretta un altro di quei prenunzi ed addentellati, onde il libello giovanile si congiunge al divino poema così da potersene considerare quasi il prologo terreno.

I GIGANTI NELLA COMMEDIA

Saggio sulla topografia morale dell'Inferno.

I.

Che nel secondo cerchio dell'Inferno sian puniti i lussuriosi, nel terzo i golosi, nel quarto gli avari e i prodighi, nel quinto gl'irosi, Dante lo dice così chiaramente, da non far lecito di cavillarci sù. Il guaio è che quelli che dalla Chiesa sono indicati come vizi che producan la morte dell'anima non son solamente codesti quattro. E qual luogo d'inferno attosca dunque i rei di superbia, d'invidia e d'accidia? Il poeta non lo dichiara, o non par dichiararlo, espressamente in alcun testo; e più d'un interprete s'è messo a rifrugar la valle d'abisso, ed ha creduto scovarveli. Ma in verità noi restiamo, dopo le loro dimostrazioni, « d'esser contenti più digiuni, che se ci fossimo pria taciuti », e, a conti fatti, « più di dubbio aduniamo nella mente ».

Accenniamo intanto le opinioni principali. Il figlio di Dante, Pietro, aveva già con procedimento sommario stivati que' rei nella palude Stige, insieme con gl'iracondi che il poeta indica esplicitamente: ira condi e superbi starebbero a galla; occultati nel limo, accidiosi ed invidi'. Ma Pietro non si curò

[ocr errors]

1 Nella palude fingit puniri apparenter iracundos et superbos, et non apparenter et occulte, idest in limo talis paludis, fingit puniri accidiosos et invidos, in diversis partibus dictae paludis ».

[blocks in formation]

di addurre prove che giustificassero un tale accozzo; sicchè quelli degl'interpreti posteriori che, non sapendo escogitar nulla di meglio, si vollero appigliare alla sua esposizione, dovettero acconciarsi a supporre, come fece il Tommaseo, che Pietro sapesse la cosa « dalla viva interpretazione del padre >>. Supposizione rischiosa, che non si potrebbe poi circoscrivere alla sola questione presente, e che dovrebbe finir col dare al commento di Pietro un'autorità troppo maggiore ed estesa di quella non si sia disposti ad accordargli.

Dalle parole scritte di Dante non si può ragionevolmente e lo vedremo meglio più innanzi argomentare se non che in fondo allo Stige, al disotto degl'iracondi, intristiscano gli accidiosi: come pur asserirono, con notevole accordo, anche Jacopo Alighieri, l'Ottimo, l'Anonimo Fiorentino, il Boccaccio e il falso Boccaccio, Benvenuto, il Buti, il Bargigi, il Landino, il Talice, il Vellutello, giù giù fino al Blanc, al Bianchi, allo Scartazzini, al Fraticelli, all'Andreoli.

[ocr errors]

Sofisticando su alcune espressioni del testo ciò pure vedremo appresso, altri ha potuto supporre che Dante confondesse gl'i ra condi coi superbi; ma nessuno è valso a torturar così bene i versi della Commedia da strappar loro un solo indizio che fra gli appiattati nel limo siano anche gl'invidio si. Certo, a furia di arzigogoli si potrebbe, fors'anche con fortuna, dimostrare, com'ha fatto il Tommaseo, che irosi, accidiosi e superbi farebbero molto bene a star insieme; ma non bisognerebbe poi dimenticar mai che, nell'interpretar Dante, a noi non importa punto d'ogni altra speculazione che non sia quella di Dante. Il che gl'interpreti dimenticano spesso, sicchè avviene non raramente di vederli obliati in un ingenuo filosofare sulla maggiore [o minore convenienza delle pene che Dante ha distribuite pel suo Inferno e pel suo Purgatorio, proprio come se anche queste fossero qualcosa di divinamente rivelato;

allo stesso modo che anche noi altri, spiacenti a Dio pel nostro torpore nelle cose spirituali, siam capaci di sentire non so che rammarico se Dante incrudelisca contro l'Argenti o contro Bocca o contro Alberico, o se il dolcissimo Virgilio si ammalinconisca nel ripensare ch'ei dovrà restar li nel Limbo in eterno desio senza speme.

Nel Cinquecento, Bernardino Daniello fastidi non solo l'opinione eccessiva di Pietro, che aveva affollata la palude di quattro ordini di peccatori, ma pur quella discreta degl' interpreti che aveano uniti agl'iracondi i soli accidiosi: e pretese che nello Stige gl'iracondi sguazzassero a tutto lor agio. Dei quali fece due categorie: quelli che stanno a galla, pagano il fio dell'ira bollente; quelli che s'attristano nella fanghiglia, scontano l'ira repressa, il rancore cioè e la vendetta che covarono in seno perchè scattasse più violenta. Quanto agli accidiosi, li mandò a stare, in compagnia degli << sciaurati che mai non fur vivi », nell'Antinferno.

1

Oggi poi le cose stanno così: mentre prevale tuttavia quella che in ogni tempo fu l'opinione vulgata, ira ed accidia appaiate nello Stige, v'è però qualcuno che autorevolmente difende o l'una o l'altra delle due opinioni estreme, che in passato fecero capolino; quella cioè dell'accozzamento dei quattro peccati, che risale a Pietro di Dante (Tommaseo, Del Lungo, ecc.), e quella dell'ira isolata, che mette capo al Daniello (Bartoli, ecc.).

II.

Per quanto poco valore oggettivo possa avere nei nostri tempi la filosofia medievale, pure, chi voglia darsi ragione della dottrina che s'asconde sotto il velame poetico della Com

[ocr errors]

1 Dicevo < oggi nel novembre del 1888, quando questo scritto comparve la prima volta, nella Nuova Antologia.

« ÖncekiDevam »