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i nostri umanisti. Cominciò il Petrarca, con quella lettera al Boccaccio, che a me sembra un capolavoro di perfidia. « Age ergo», gli diceva, « illam ingenii tui facem, quae tibi in hoc calle quo magnis passibus ad clarissimum finem pergis, ardorem praebuit ad lucem, celebra et cole, ventosisque diu vulgi plausibus agitatam, atque ut sic dixerim fatigatam, tandem veris, teque seque dignis laudibus ad coelum fer....... Quam tandem veri faciem habet ut invideam illi qui in his aetatem totam posuit, in quibus ego vix adolescentiae florem primitiasque posuerim, ut quod illi artificium nescio an unicum, sed profecto supremum fuit, mihi iocus atque solatium fuerit, ingenii rudimentum? Quis hic, precor, invidiae locus? Quaeve suspicio est? Nam quod inter laudes dixisti, potuisse illum si voluisset alio stilo uti, credo aedepol. Magna enim mihi de ingenio eius opinio est: potuisse enim omnia quibus intendisset, nunc ex quibus intenderit palam est. Et esto iterum: intenderit, potuerit, impleverit; quid tandem ideo, quaeve inde mihi invidiae et non potius gaudii materia? At cui tandem invideat qui Virgilio non invidet? Nisi forte sibi fullonum et cauponum et lanistarum coeterorumve, qui quos volunt laudare vituperant, plausum et raucum murmur invideam, quibus cum ipso Virgilio, cumque Homero carere me gratulor. Novi enim quanti sit apud doctos indoctorum laus; vel nisi mantuanus florentino cive mihi carior est credendus, quod origo per se ipsam, nisi quid aliud accesserit, non meretur..... Unum est quod scrupulosius inquirentibus aliquando respondi, fuisse illum sibi imparem, quod in vulgari eloquio, quam in carminibus aut prosa clarior atque altior assurgit. Quod neque tu neges, nec rite censentibus aliud quam laudem et gloriam viri sonat. Quis enim non dicam nunc extincta complorataque iam pridem eloquentia, sed dum maxime floruit in omni eius parte summus fuit? » (Famil. XXI, 15).

L' AMMIRAZIONE DI COLUCCIO PER DANTE

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Le accuse furono poi concretamente formulate da Leonardo Bruni aretino, nel Dialogus de tribus vatibus florentinis 1; che mise queste in bocca a Niccolò Niccoli, e la difesa affidò a Coluccio Salutati. Il quale sostiene: che il valore dato dal poeta alla frase virgiliana sulla « fame dell'oro » sia giustissimo, dacchè l'avarizia e la prodigalità son vizi derivanti tutti e due dal cattivo uso delle ricchezze ; che abbia rappresentato Catone vecchio per convenienza artistica; e che la ragione d'aver collocato Bruto nell'ultimo pozzo dell'inferno sia da ricercare nel concetto che il poeta si era formato della legittimità dell'impero.

Coluccio, come si sa, fu grande estimatore di Dante; e non isdegnò di escogitare anche lui, e di proporre, nuove interpretazioni ai punti più controversi del poema. In una lettera del 28 giugno 1383 a Benvenuto da Imola, che gli aveva mandato a leggere il Commento all'Inferno, scriveva esortantandolo ad adoperare uno stile più elevato. « Quis enim tot divinarum et humanarum rerum dignitatem, tantam nobilium

1 Cfr. l'ediz. del WOTKE, Vienna 1889.

2 L'erronea traduzione continuò naturalmente ad esser rimproverata a Dante, anche da chi nulla seppe del Niccoli e del Salutati. Non parve vero ai nostri pedanti buon'anima, faziosi partigiani del Petrarca, d'aver un'occasione per fare i sopracciò col barbaro poeta. BELLISARIO BULGARINI sanese, nelle Ragioni in risposta al primo Discorso sopra Dante, scritto a penna sotto finto nome di m. Speron Speroni (Siena 1616), scriveva (p. 20): Da Vergilio, maestro e guida finta di Dante, si lassarono scritti quei versi, che pur male furon poi tradotti per esso Dante, nella sua Commedia: Auri sacra fames... E m. Lodovico Ariosto, nel principio d'uno de' suoi canti dell'Orlando Furioso [c. 43, 1], a imitazione di lui, disse benissimo: Oh esecrabil Avaritia, o ingorda...... E a p. 16 faceva questo parallelo tra i due nostri sommi poeti: « E qui si può rinfrescare il vero, con ridursi a memoria la graziosa invenzione di quell'ac corto Pittore, che dipense e mostrò Dante e 'l Petrarca insieme in un amenissimo Prato, nel quale il Petrarca a uno a uno sceglieva i più bei fiori e' più odoriferi, le più fresche e vaghe erbette, facendone leggiadri mazzetti; là dove Dante, in quello, con una Falce fenaia atterrava ogni cosa; segando e facendo, senza alcun risguardo (come si dice), d'ogni erba fascio».

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hystoriarum seriem, tot subtilissimos sensus, tam inauditas tamque digestas explanationes in illa stili tenuitate legendo sine indignatione percurret?» E propose una nuova maniera di leggere e d'interpretare i versi (Inf. I, 70-1):

Nacqui sub Julio ancor che fosse tardi

E vissi a Roma sotto il buono Augusto.

<< Puto igitur », concludeva, «sic illos duos versiculos construendos: natus sum sub Julio; et quod huic subiungatur versiculus sequens: et vixi Rome, quanvis fuerit tardum, sub optimo Augusto, tempore falsorum et mendacium deorum; ut, licet illa oratio infinitata: quanvis fuerit tardum, sequentem coniunctionem videatur in textu precedere, debeamus tamen illam in ordinatione vere sententie sine dubio postlocare ».

E in un'altra lettera, del 2 settembre dello stesso anno, discute con Francesco Bartolini della interpretazione del verso (Inf. V, 60):

Tenne la terra che il Soldan corregge.

Altri aveva creduto che Dante vi accennasse alla Babilonia egiziana: << quam calumniam », ripiglia Coluccio, << aliquando factam, sepius memini me risisse. Cum enim appellatione terre, non solum civitatem Babylonie, quam multis post Ninum seculis in Egypto constat edificasse Cambysem, sed etiam totam Egypti provinciam, cui profecto et Beli filius, a quo seculares inchoantur hystorie, Ninus et ipsa Semyramis imperaverunt, intelligere valeamus ; quis audet dicere Dantem, omnium rerum divinarum humanarumque doctissimum,

1 V. indietro, p. 383.

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de civitate, que post illam inceperit, et non de regione potius tunc sensisse? » 1

E finalmente, nel poemetto De fato et fortuna, tradusse quel che Dante aveva, nel c. VII Inf., dissertato della Fortuna, e quanto altro sul libero arbitrio aveva insegnato (Purg. XVI) discorrendo con Marco Lombardo. Nel trattato De Tyranno, difese davvero la condanna dal poeta inflitta a Bruto. E, se è da credere al Mehus, voltò in versi latini una parte della Commedia, e narrò la vita di Dante 2.

III.

Quando, dopo il funesto giugno del 1290, Dante si sprofondo negli studi filosofici, è verosimile che, oltre le istituzioni grammaticali dell'uno o di tutti e due i famosi trattatisti, conoscesse pur qualche scrittore latino; in ispecie poeta, più specialmente Virgilio. Donato ne aveva descritta amorosamente la vita; e d'un centinaio di citazioni di passi d'autori, che s'adducon come esempi nell'Ars maior, ben quasi ottanta erano attinte alle opere sue. Prisciano poi, che dispone d'un tesoro di dottrina infinitamente maggiore, cita Virgilio più di mille e duecento volte; ed è notevole che le citazioni di Te

1 Epistolario di COLUCCIO SALUTATI a cura di F. NOVATI; Roma 1893, v. II, p. 76 ss. e 101 ss. Di Dante si parla spesso anche nel III volume dell'Epistolario, ch'è in corso di stampa. Il Salutati fu in corrispondenza epistolare con Menghino Mezzani, che ebbe la fortuna di conoscer personalmente Dante, e pare scrivesse una specie di commento al poema. Cfr. RICCI, L'ultimo rifugio di D. A.; Milano 1891, cap. II e append. I.

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2 MEHUS, Vita Ambrosii Camald., p. 309 e 228. Coluccio chiama il poeta divinissimus compatriota noster Dantes Alagherius; e il poema: opus divinissimi Dantis nostri (cfr. O. ZENATTI, La divina Commedia e il divino poeta; Bologna 1895, p. 34). In un altro luogo però asserisce che, per la dolcezza del ritmo, il Petrarca, omnium consensu, et compatriotam suum Aldegherium Dantem, divinum prorsus virum, et ceteros antecessit. Cfr. NOVATI, Epistolario di C. S., I, 183.

renzio, che son numerosissime rispetto a quelle di Cicerone, di Plauto, di Orazio, di Giovenale, di Sallustio, di Stazio, di Ovidio, non raggiungono nemmeno la metà delle virgiliane'.

Il << lungo studio » sull'Eneide, del quale l'Alighieri mena vanto (Inf. I, 83), dovè cominciare ben per tempo. Che se è vero che « le liriche di Dante non hanno assolutamente che fare coll'arte antica, e molto meno coll'arte virgiliana », giacchè esse, « così nel sentimento come nella forma, sono tutte di ragione moderna »; è vero altresì che in esse era per la prima volta brillato quel bello stile, il dolce stil nuovo, che avea fatto onore al poeta novello. Certo, nel poema, il classico magistero dello stile, appreso imparando a mente il gran poema latino, avrà più campo di mostrarsi; ma quando l'un poeta se ne mostra grato all'altro, la Commedia, nonchè conosciuta, non era peranco scritta. Gli è che, nel concetto di Dante, lo stile è da riferirsi, « non tanto alle forme dell'arte, quanto alla ragione subbiettiva di questa, ragione che può essere identica anche in due poeti diversissimi per ordine di produzione poetica e per qualità di forme artistiche ». Tutti sanno che esso consisteva nel poetare («notare ») solo quando Amore ispirava, e nell'esprimere sinceramente quel ch'ei dettava dentro (Purg. XXIV, 52-4):

Io mi son un che quando
Amore spira, nota; ed a quel modo
Che ditta dentro, vo' significando.

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1 Cfr. COMPARETTI, Virgilio nel m. evo, I, 93 n. Non mi pare si possa supporre che Dante conoscesse il libro di Macrobio. Sarebbe stato per lui una vera miniera di erudizioni! Lo conosceva però Jehan de Meun, che se ne giovò nella continuazione del Roman de la Rose. Cfr. LANGLOIS, Origines et sources du R. de la R., p. 135-6; e v. indietro, p. 201. E lo conobbe, e con molto profitto, il Petrarca: Macrobe.... a été pour lui, dans sa pénurie relative de documents, un guide précieux pour les usages romains, l'histoire, la mythologie, la littérature ». Cfr. DE NOLHAC, P. et l'humanisme, p. 298.

2 V. indietro, p. 188 ss.

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