Sayfadaki görseller
PDF
ePub

LE VERSIONI DEL LIBRO DI BOEZIO

499 artem aptissimus, per scholas Italiae continuo frequentatur ». Di là dalle Alpi poi era stato tradotto: in anglosassone, dal re Alfredo, morto il 906, con l'aiuto del maestro Asserio; in antico tedesco, dal monaco Notkero di Sangallo, fiorito nel secolo XI; in fiammingo; e, quel che a noi più importa, in volgare di oil. Una prima versione ne aveva fatta in codesto volgare l'anglonormanno Simon de Fraisne, del secolo XII; un'altra, l'abbate di Ceriziers, elimosiniere di Luigi XIII; e un'ultima, Jehan de Meun, richiestone da Filippo il Bello. « Le livre de la Consolation », osserva Paulin Paris, « était alors en si haute estime dans les écoles, les orateurs religieux en faisaient un si fréquent usage, qu'on se rend compte aisément du désir qu'aurait eu Philippe d'en posséder une traduction française » 1. E Jehan non crede di offrire nulla di prelibato. « À ta royal majesté », scrive nella dedica, << envoye ore Boece de Consolacion, que je t'ay translatẻ de latin en françoys, jasoit ce que tu entendes bien latin; mais toutesvoies est moult plus legier à entendre le françoys que le latin >>. Egli ha tradotto liberamente: « car se je eusse espout mot å mot le latin par le françoys, le livre en feust trop obscur aux gens lais, et les clercs neïs lettres ne peussent pas legierement entendre le latin par le françoys ».

La versione di Jehan potè esser nota a Brunetto Latini 2; e non è inverosimile supporre che questi portasse con sè dall'esilio quel libro, che in Italia, o per lo meno in Firenze, non era più conosciuto da molti », e fosse lui quindi ad indicarlo a Dante. Il quale poi gli assicurò una miglior fortuna nel rinascimento della cultura. La versione in volgar fiorentino, che ne fece nel 1332 Alberto della Piagentina stando rinchiuso

1 Jean de Meun traducteur et poète, nella Hist. littér. de la France, vol. XXVIII, p. 409.

2 V. indietro, p. 129.30.

nelle carceri di Venezia, è infarcita di versi e di frasi dantesche; anzi, quest'altro povero esule, nel dar ragione dell'o pera sua, non sa far di meglio che parafrasare un celebre luogo del Convivio. « El qual verace e sovran libro della Filosofica Consolazione, io », egli dice, « naufragato e senza legno che mi levi, percosso dal secco vento che vapora la dolorosa ruota che m'ha sommerso, rivol gendo nell'animo, affaticato per le severe e disumane persecuzioni, memoria spessa di tanto famosissimo autore che in tribulazione posto consolasi, ho redutto di gramatica in volgare, a utolitate de'volgari, che sanza lettera hanno intrinseco abito virtuoso » 1.

Di quanta parte della dottrina e dell'arte sua Dante vada debitore a Boezio, non potrebbe esser questo il luogo di ricercare 2. Spesso quasi traduce. « At vero », scriveva Boezio (I, 4), « hic etiam nostris malis cumulus accedit, quod existi

1 Cfr. Conv. I, 3: Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà..... ». — Nel cod. magliabechiano 1035, cl. VII, si conserva un frammento del testo latino del libro di Boezio, trascrittovi « anno dñj ccc. xlij.». Cfr. RAJNA, nel Giorn. Stor. XIII, 1. Circa la conoscenza che di Boezio ebbe il Petrarca, cfr. DE NOLHAC, P. et l'humanisme, p. 300 ss. Il concetto fondamentale dei Trionfi parve al GASPARY (Storia, I, 489) derivato dal De Consolatione II, 7.

2 Antonio Pucci fe' venire anche la Musica a piangere sulla bara del morto poeta, e le mise in bocca:

Or chi avrà pietà del mio tormento,

Poichè perduto ho l'allegrezza e 'l canto?

O Dante mio, che non fu mai stormento
Al mondo con sì dolce melodia,

Nè che facesse ogni uditor contento,
Come la tua solenne Commedia,

Che accordò sì le corde al suono umano,

Che 'l pregio di Boezio s'andò via.

Evidentemente qui si allude al trattato De institutione musica, attribuito a Boezio. « Composuit Musicam, quam transtulit de Pithagora et Ptolomeo graecis, dice l'antica biografia (ediz. Peiper, p. XXXII). Forse Dante lo conobbe, e imparò anche da esso la dottrina pitagorica dei suoni. Cfr. lo studio del mio scolare LUIGI PAPINI, D. A. e la musica, nel Giornale Dantesco, a. III, qu. 1.

[blocks in formation]

matio plurimorum non rerum merita sed fortunae spectat eventum, eaque tantum iudicat esse provisa quae felicitas commendaverit. Quo fit, ut existimatio bona prima omnium deserat infelices. Qui nunc populi rumores, quam dissonae multiplicesque sententiae, piget reminisci. Hoc tantum dixerim ultimam esse adversae fortunae sarcinam, quod dum miseris aliquod crimen affingitur, quae perferunt meruisse creduntur. Et ego quidem bonis omnibus pulsus dignitatibus exutus existimatione foedatus ob beneficium supplicium tuli ». E Dante (Conv. I, 3): « Poichè fu piacere de' cittadini..... di Fiorenza di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno....., per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato1, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata..... E sono vile apparito agli occhi a molti, che forse per alcuna fama in altra forma mi aveano immaginato; nel cospetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, si già fatta, come quella che fosse a fare ». E ancora nel Paradiso (XVII, 52 ss.):

La colpa seguirà la parte offensa

In grido, come suol.....

La imitazione dei concetti e delle espressioni derivava purtroppo dalla somiglianza dei loro casi; chè anche Boezio, << procul a patria pulsus », avea da lamentare d'esser « mi

1 Onde poi la sua simpatia per Romeo da Villanova, che, ingiustamente sospettato,« partissi povero e vetusto dalla corte del suo signore, e trascinò gli ultimi suoi anni (Par. VI, 127 ss.)

Mendicando sua vita a frusto a frusto;

e la sua indulgenza verso Provenzan Salvani, che (Purg. XI, 136 ss.), per trar l'amico suo di pena

Che sostenea nella prigion di Carlo,
Si condusse a tremar per ogni vena.

serum exsulemque » (I, 5), « exsulem et expoliatum propriis bonis » (I, 6), o, come lo dirà il suo grande imitatore (Conv. II, 13), « cattivo e discacciato »>.

Mette però conto di far qui un'osservazione. Parlandosi delle ricchezze, nel Convivio (IV, 13) s'insegna: «Puossi vedere la loro possessione essere dannosa..... Cagione è di male, chè fa, pure vegghiando, lo possessore timido e odioso. Quanta paura è quella di colui che appo sè sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegghiando, ma dormendo, non pur di perdere l'avere, ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie, che 'l vento fa dimenare, li fan tremare, quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di sicurtà cantando e ragionando fanno lor cammino più brieve. E però dice il Savio: 'se vôto camminatore entrasse nel cammino, dinanzi a' ladroni canterebbe.... E quanto odio è quello che ciascuno al posseditore della ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione? » Or questo luogo, come gran parte di tutto il trattato sulle ricchezze, Dante lo derivava quasi per intero dal De Conso latione; dov'è scritto (II, 5): « Atqui divitiae possidentibus persaepe nocuerunt, cum pessimus quisque eoque alieni magis avidus quidquid usquam auri gemmarumque est se solum qui habeat dignissimum putat. Tu igitur qui nunc contum gladiumque sollicitus pertimescis, si vitae huius callem vacuus viator intrasses, coram latrone cantares ». Parrebbe dunque che il Savio' di Dante fosse, in questo caso, Boezio. Sennonchè, pur nella Satira X (v. 22) di Giovenale è detto:

Cantabit vacuus coram latrone viator.

E codeste Satire eran note a Dante; chè dall' VIII di esse attinse non poco di quanto nel Convivio (IV, 29) ebbe a dire

GIOVENALE

503 sulla nobiltà di sangue » 1. Per quel « poeta satiro » mostra anzi un rispetto quasi superstizioso, così da esclamare, una volta che si permette di dissentire da lui (Conv. IV, 29): «e in questo, con reverenza il dico, mi discosto dal poeta ».

1 GIOVENALE, VIII, 19-20:

Tota licet veteres exornent undique cerae

Atria, nobilitas sola est atque unica virtus.....

Cfr. Conv. IV, canz. Le dolci rime:

È gentilezza dovunque è virtute,

Ma non virtute ov'ella.....

E cfr. il commento, al c. 29: « Alla prima quistione risponde Giovenale nell'ottava Satira, quando comincia quasi esclamando: ́Che fanno queste onoranze.....?' Poi appresso dice a questo tale: Da te alla statua..... ». Ma non del solo Giovenale Dante si giovò nel trattato sulla nobiltà. Quando scriveva:

Ancor segue di ciò che innanzi ho messo
Che siam tutti gentili ovver villani,
O che non fosse all'uom cominciamento;
Ma ciò io non consento,

Nè eglino altresì, se son cristiani..... ;

egli ormeggiava Boezio (III, v. 6):

Omne hominum genus in terris simili surgit ab ortu:
Unus enim rerum pater est, unus cuncta ministrat.....
Mortales igitur cunctos edit nobile germen.

Quid genus et proavos strepitis? si primordia vestra
Auctoremque deum spectes, nullus degener extat,
Ni vitiis peiora fovens proprium deserat ortum.

E quando soggiungeva:

Però nessun si vanti

Dicendo: per ischiatta io son con lei...;
Chè solo Iddio all'anima la dona... ;

ripensava fors'anco a quel delle Metamorfosi (XIII, 140-1):

Nam genus et proavos et quae non fecimus ipsi,
Vix ea nostra voco.

E pur quella famosa esclamazione del Paradiso (XVI, 1 ss.):
« O poca
nostra nobiltà di sangue ecc., pare non sia indipendente da quest'altro
luogo di Boezio (III, 6), cui Dante stesso rimanda nel Convivio (I, 11):
Iam vero quam sit inane quam futile nobilitatis nomen, quis non vi-
deat? quae si ad claritudinem refertur, aliena est. Videtur namque esse
nobilitas quaedam de meritis veniens laus parentum. Quod si claritudi-
nem praedicatio facit, illi sint clari necesse est qui praedicantur. Quare
splendidum te, si tuam non habes, aliena claritudo non efficit. Quod si
quid est in nobilitate bonum, id esse arbitror solum, ut inposita nobi-
libus necessitudo videatur, ne a maiorum virtute degeneret».

« ÖncekiDevam »