TAIDE 519 compivano la loro opera distruttrice, e che quindi quell' ingentes fosse il ringraziamento di tanto misfatto! Perciò quella femmina ei forse non puni nel secondo cerchio. La vicinanza d'una tal sozza sarebbe riescita troppo grave alle nobili e regali e passionate peccatrici d'incontinenza amorosa! Ed ei se la fa da Virgilio non solo additare, ma descrivere, con tinte perfin troppo acconce a destare lo schifo (Inf. XVIII, 127 ss.), laggiù nel lurido fosso della seconda bolgia: Codesta non è punto la Taide storica, la « famosissima » etèra, Attica di nazione, la quale fu anche amata da Tolomeo che divenne poi re1. Il poeta giudice ha lasciato troppo correre la fantasia; e su pochi indizi ha ricostruita una storia che non risponde alla realtà. La sua sentenza infamante, Dio gliela perdoni, è, questa volta almeno, ingiusta e calunniosa. 1 Εὐδοκιμοῦσα μάλιστα Θαῖς ἡ Πτολεμαίου τοῦ βασιλεύσαντος ὕστερον ἑταίρα, γένος Ἀττικὴ, τὰ μὲν ἐμμελῶς ἐπαινοῦσα, τὰ δὲ παίζουσα πρὸς τὸν ̓Αλέξανδρον, ἅμα τῇ μέθῃ λόγον εἰπεῖν προήχθη τῷ μὲν τῆς πατρίδος ἤθει πρέποντα, μείζονα δὲ ἢ κατ ̓ αὐτήν. ΡLUTARCO, Alessandro, c. 38. Avranno contribuito a rendere spregevole agli occhi di Dante quel nome pur gli accenni ovidiani, ch'egli forse riferiva tutti, senza beneficio d'inventario, alla Taide ateniese. Ars amatoria III, 603-4: Quae venit ex tuto, minus est accepta voluptas: Ut sis liberior Thaide, finge metus! Remedia amoris, 383-6: Quis feret Andromaches peragentem Thaida partes? Thais in arte mea 'st: lascivia libera nostra'st; Di Alessandro Dante ha ancora altre volte occasione di toccare. Nel Convivio (IV, 11) lo loda per li suoi reali beneficii. E in ciò egli segue la tradizione medievale. A partir de la seconde moitié du XII siècle, et jusqu'à la fin du moyen âge, dice PAUL MEYER, Alexandre le Grand dans la littér. franç. du moyen âge, II, 372-3, le mérite pour lequel Alexandre est universellement célébré... est surtout et par dessus tout sa largesse ». Nel Tresors, Brunetto ne cita un aneddoto insigne di generosità bene intesa. Mais Alixandres, racconta (p. 412), le fist mieulx; car quant il dona une cité à I home, cil li dist que il estoit de trop bas afaire à avoir cité; Alixandres li respondit: Je ne pren pas garde quel chose tu dois avoir, mais quel chose je doi doner. E più avanti (p. 418), ricorda anche lui, riferendola da Cicerone (De Officiis II, 15), la lettera che il re Filippo scrisse al figlio, « quant Alixandres se porchacoit d'avoir la bone volenté de ceulx dou regne son pere, ce est de Macedoine, por deniers qu'il lor donoit ». - Nel De Monarchia (II, 9) poi, Dante accenna: « Alexander rex Macedo maxime omnium ad palmam Monarchiae propinquans, dum per legatos ad deditionem Romanos praemoneret, apud Aegyptum, ante Romanorum responsionem, ut Livius narrat, in medio quasi cursu collapsus est ». E qui, anzichè quella di Livio, seguiva l'autorità di Lucano (cfr. Schüсk, p. 267; e MOORE, Dante's references to Alexander the Great, nell'Academy del 26 gennaio 1889, p. 58-9). E nella Commedia, il nome di Alessandro ricorre in una similitudine (Inf. XIV, 31 ss.): Quali Alessandro in quelle parti calde Fiamme cadere infino a terra salde; Con le sue schiere, perciocchè il vapore Me' si stingueva mentre ch'era solo. E questo particolare egli desumeva dal De Meteoris di Alberto Magno (I, iv, 8), dove era scritto: « Admirabilem autem impressionem scribit Älexander ad Aristotilem in epistola de mirabilibus Indie, dicens quemadmodum nivis nubes ignite de aëre cadebant, quas ipse militibus calcare precepit (cfr. TOYNBEE, nella Romania, XXIV, p. 400-1: e per la storia della questione, MOORE, 1. c., p. 58; TOYNBEE e SKEAT, nell'Academy del 2 febbraio 1889, p. 75-6; SYMONDS, nell'Academy del 9 febbraio 1889, p. 96; TOYNBEE, nell'Academy del 20 febbraio 1892, p. 183). Per simili espedienti, si può vedere anche quel che si racconta nel Tresors circa il modo che Alessandro tenne per ammazzare i basilischi, p. 193, e combattere gli elefanti, p. 243. - E in quale angolo dell'oltretomba l' ha il poeta relegato? Ci aspetteremmo di trovarlo in compagnia di Cesare armato con occhi grifagni (Inf. IV, 123); e invece ci è additato sommerso << infino al ciglio fra i « tiranni Che dier nel sangue e nell'aver di piglio». Il centauro Nesso indica (XII, 106 ss.): Quivi si piangon li spietati danni; Quivi è Alessandro e Dionisio fero, Che fe' Sicilia aver dolorosi anni. Qualche interprete non vuol acconciarsi a credere che codesto sia lo stesso Alessandro lodato nel Convivio; e preferisce riconoscervi Alessandro tiranno di Fere in Tessaglia. Nel momento anzi in cui scrivo, mi ALESSANDRO 521 vien mostrata un'arguta chiosa del DOBELLI (nel Giornale Dantesco, a. IV, quad. 1-2, p. 68 ss.); il quale, movendo da alcune mie considerazioni sugli accoppiamenti dei dannati nell' Inferno dantesco, sostiene vigorosamente questa candidatura, messa la prima volta in campo dal Landino. L'accoppiamento di Alessandro e Dioniso, egli argomenta, fu suggerito al poeta da quel luogo del De Officiis (II, 7) dove si dice: «Etenim qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est. Quid enim censemus superiorem illum Dionysium quo cruciatu timoris angi solitum, qui cultros metuens tonsorios candente carbone sibi adurebat capillum? quid Alexandrum Pheraeum quo animo vixisse arbitramur? qui, ut scriptum legimus..... » ecc. Il qual passo ciceroniano si trova anche riferito nel Tesoro del Latini tradotto da Bono Giamboni. Sennonchè è poi verosimile che Dante pensasse bensì ad ospitare nel suo inferno quest'oscuro tirannello, e ne lasciasse fuori il tiranno famoso? E dicendo Alessandro, senz'altro appellativo, poteva egli voler indicare un Alessandro che non fosse quello che tutti riconosciamo come il più famoso ? Cum dicimus Alexander, debet intelligi per excellentiam de Alexandro Magno », osservava già Benvenuto. D'altra parte, a consigliare il poeta a porre il tiranno macedone accanto all'immanissimo Azzolino, non sarà stato il solo Lucano, che lo chiamò (X, 21) felix praedo; chè, come il TOYNBEE (in Romania, XXIV, 392-3) ha rilevato, Paolo Orosio lo aveva proclamato gurges miseriarum atque atrocissimus turbo totius orientis (III, 7), e aveva narrato com'egli « humani sanguinis inexsaturabilis sive hostium sive etiam sociorum, recentem tamen semper sitiebat cruorem (III, 18), e come « per duodecim annos trementem sub se orbem ferro pressit (III, 23). E Benvenuto, che aveva presente la narrazione di Orosio, concludeva la sua chiosa riaffermando che il dannato di Dante fosse dunque il Macedone, quia iste fuit violentissimus hominum » e << maximus autor violentiarum in terris ». Tuttavia, il riscontro dal DOBELLI notato tra l'accoppiamento dantesco e il ciceroniano conserva sempre un gran valore. E a me non parrebbe avventata la congettura, la quale invece riuscirebbe a metter tutti d'accordo, che insomma Dante può aver confuso l'un Alessandro con l'altro. Anche Cicerone scambiò una volta (Tuscul. V, 22; De Off. III, 10: onde poi Tresors, p. 455) Dionisio il minore col maggiore. Dante poi non avea modo di controllare le sue erudizioni, che spesso non si fondavano se non sopra interpretazioni fatte da lui alla meglio, Dio sa su quali testi. Del resto, la confusione non era difficile. Cicerone non accenna al tiranno Fereo se non due altre volte. Nel De Divinatione (I, 25) scrive: < singulari vir ingenio Aristoteles et paene divino ipsene errat an alios vult errare, cum scribit Eudemum Cyprium, familiarem suum, iter in Macedoniam facientem Pheras venisse, quae erat urbs in Thessalia tum admodum nobilis, ab Alexandro autem tyranno crudeli dominatu tenebatur...... Or chi non vede che qui e Aristotile e la Macedonia paion tirati in ballo proprio per imbrogliare il povero Dante? Nel De Inventione (II, 49) si narra brevemente la morte del tirannello: « Alexandrum, qui apud Pheraeos in Thessalia tyrannidem occuparat, uxor sua, cui Thebe nomen fuit, noctu, quum simul cubaret, occidit». E con maggiori particolari nel passo allegato del De Officiis (II, 7): «qui....., cum uxorem Theben admodum diligeret, tamen ad eam ex epulis in cubiculum veniens barbarum, et eum quidem, ut scriptum est, conpunctum notis Thraeciis, destricto gladio iubebat anteire praemittebatque de stipatoribus suis, qui scrutarentur arculas muliebres et, ne quod in vestimentis telum occultaretur, exquirerent. O miserum, qui fideliorem et barbarum et stig. matiam putaret quam coniugem! Nec eum fefellit; ab ea est enim ipsa propter pelicatus suspicionem interfectus. Ora, pur questo genere di morte favoriva la confusione; chè del Macedone si sapeva solo (cfr. CICERONE, Philippica V, 16) che fosse morto di trentatrè anni, dubium a vinolentia an veneno, come affermava Ampelio (XVI), e Brunetto Latini confermava (Tresors, p. 37): et à la fin morut par venim que si privé li donerent desloiaument. Nel che Brunetto seguiva un autore caro al medioevo, a sè stesso e a Dante, Paolo Orosio. Il quale, si badi, non parla di Alessandro Fereo, ma biasima aspramente il Macedone, e ne descrive fugacemente la morte violenta (III, 20): « Alexander vero apud Babylonam, cum adhuc sanguinem sitiens male castigata aviditate ministri insidiis venenum potasset, interiit ». SOMMARIO I. PREFAZIONE II. III. pag. VII-XX Ragione di questo volume. Gli studi moderni. di Dante. L'ANNO DELLA NASCITA pag. 1-17 Il nòvero dei battezzati in Firenze. L'anno della nascita quale Il verso: Nel mezzo La data del Bruni. del cammin di nostra vita. La data del Boccaccio. - Quale Interpretazione del donna giovane |