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forse che il commuoversi per un disgraziato, che con insano e vano desiderio mediti un delitto, voglia significare partecipazione alla perfidia di lui? È bensì vero che san Tommaso ne insegna che « secondo la colpa per la quale avversano Dio son da odiare tutti i peccatori, anche il padre, la madre, i parenti »; ma Dante, che caccia in così basso inferno quel suo congiunto, forse che ne esalta la colpa? O forse, solo perchè ora ha da fare con un parente, deve comprimere ogni sentimento d'umanità, e non mostrarsi pio con Geri, lui che s'era mostrato triste e pio con Francesca ed avea lagrimato per la spiacente pena di Ciacco? Il mite san Bonaventura aveva del resto già ben chiarito il concetto evangelico a cui si riferiscon le parole di san Tommaso: i peccatori, egli dice,« sono bensi da odiare per ragion della colpa per cui son divenuti dissimili da Dio, ma sono da amare per ragion naturale » 1.

Sennonchè vi ha parole di Dante che sembrano appunto consentire alla perfidia di Geri. « La frase morte non ancor vendicata », ha osservato il Del Lungo, « suona rammarico e minaccia, e l'altra, consorte dell'onta, dice aperto quali doveri imponeva, anche per Dante, la comunanza del sangue e degli affronti ». Ma, e non potrebbero codeste frasi esser qui pronunziate per mera convenienza drammatica, per ispiegare cioè, a chi non fosse addentro nei costumi fiorentini, quale fosse il cruccio di quel dannato, e perchè lui, il poeta, suo consorte e fiorentino, se ne sentisse commosso? L'uso delle faide, se Dio vuole, non lo aveva inventato Dante! Tuttavia non si può negare che nell'animo del lettore le parole del poeta lasciano una vaga impressione di consenso a quei crudeli propositi; e perfin l'Ottimo, che pure indovina la se

1 L'Alighieri, a. II, p. 56 ss. e 68 ss.

greta intenzione di Dante d'infamare « il pestilenzioso animo dei Fiorentini, che mai non dimenticano la ingiuria, nè perdonano senza vendetta l'offesa», è costretto a dichiarare che ei ciò faccia << tacitamente ». Or perchè, invece di lasciarlo partir muto e minaccioso, Dante non ha preferito indirizzargli una di quelle sue intemerate, alla maniera che poco prima avea fatto con Niccolò III? (Inf. XIX, 88). Curiosa domanda da rivolgere a un poeta; alla quale questi potrebbe in ogni caso rispondere che la sua arte gli ha consigliato di fare altrimenti! E poi, appunto perchè poco prima egli ha levata la voce a cantar note molto gravi contro i papi simoniaci, ora è nella necessità di trovare un motivo drammatico diverso. E se già quella sfuriata, non ostante sonasse duro ammonimento pei papi futuri ed incontrasse l'approvazione di Virgilio, a ripensarci gli pareva quasi una follia; non gli sarebbe dovuta parere follia più imperdonabile predicar morale a quell'anima dannata di suo zio? E ne sarebbe stato al caso in quel momento? Intanto si pensi che tutto ciò che Geri avrebbe potuto dirgli è mirabilmente riassunto in quell'atto minaccioso e in quella disdegnosa noncuranza; e soprattutto si badi che l'apprezzamento morale del poeta è da cercarlo non in questa o quell'altra frase, bensì in tutto il contesto dell'episodio, anzi in tutta la Commedia.

Riesce sempre istruttivo l'osservare come gl'interpreti dimentichino sul più bello che quel maraviglioso mondo d'oltretomba che han dinanzi non è in fin dei conti che tutta una invenzione del poeta; il quale v'incontra chi e dove e come vuole, che tutti fa parlare ed operare come meglio gli piace, che tutto subordina e coordina a un suo altissimo concetto morale non meno che artistico. Se Geri è così atrocemente ed esemplarmente punito nell'inferno, non ve lo ha condannato che Dante, quel Dante medesimo il quale vede fortezza

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MARZUCCO E GUIDO DI MONFORTE

101

d'animo nell'atto del buon Marzucco di baciare la mano all'uccisore del proprio figliuolo 1, e caccia nella cruenta riviera dei violenti in altrui quel Guido di Monforte che in grembo a Dio vendicò la morte del padre. Ed è quel Dante mede

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1 Purg. VI, 17-8. Marzucco, cavaliere e dottore in legge, nel 1287, per uno spavento avuto, si fece frate minore (non gaudente, come dice il FRATICELLI, frantendendo, proprio lui!, il fraticellus de domo di Benvenuto). « Avvenne caso, racconta il BUTI, che Farinata suo figliuolo fu morto da uno cittadino di Pisa; unde lo detto m. Marzucco, colli altri frati di Santo Francesco andato per lo corpo del detto suo figliuolo, come usanza è, fece la predica nel capitolo a tutt'i consorti, mostrando con bellissime autoritadi e verissime ragioni che nel caso avvenuto non era nessuno milliore rimedio che pacificarsi col nimico loro; e così ordinò poi che si fece la pace, et elli volse baciare quella mano che aveva morto il suo figliuolo » . Dovett'esser di quegli avvenimenti che più levaron rumore in Toscana durante la giovinezza di Dante, e che, per quanto più remoto dai costumi del tempo, per tanto dovè riuscire a meglio commuovere le fantasie. Rassomigliava a certi episodi della vita di san Giovanni Gualberto e di sant'Andrea Avellino. PIETRO DI DANTE addita nell'uccisore di Farinata dominus Beccius de Caprona.- Non tutti i commentatori raccontano il fatto allo stesso modo. L'ANONIMO FIORENTINO, seguito da BENVENUTO che dice saper la cosa dal Boccaccio, narra invece: « Questo Farinata per uno trattato gli fu mozzo il capo in Pisa, al tempo che di Pisa era signore il Conte Ugolino, et lasciato stare più di così smozzicato in sulla piazza. Finalmente <m. Marzucco suo padre, trasfigurato et sconosciuto, andò un dì al Conte Ugolino dicendo: Signore, piacciavi che quello sventurato, ch'è in sulla piazza, sia sotterrato, acciò che 'l puzzo che già ne viene di lui non faccia noia alla vicinanza. Il Conte Ugolino guardò costui et riconobbelo. Dissegli: La tua fortezza ha vinta la mia pertinacia et la mia durezza; va, e fanne quello che tu vogli». E ancora una terza versione dei fatti danno il LANA e l'OTTIMO. Essi fan di Marzucco l'uccisore del pisano (quel da Pisa) che Dante trova nell'antipurgatorio: uccidendolo, avrebbe mostrata la sua fortezza! Il Lana soggiunge ch'ei fece ciò con grande affetto (alla larga !), e l'Ottimo, contra effetto (?). — A Marzucco indirizzò una canzone (Messer Marzucco Scornigian, sovente) e una lettera (Nobile e molto magno seculare...) Guitton d'Arezzo. Cfr. su di lui FERRAZZI, Manuale, IV, 405; e G. SFORZA, Dante e i Pisani, Pisa 1873, p. 129-32, 155-59.

* Inf. XII, 119-20. Anche quest'altro avvenimento dovè levare molto rumore, specialmente in Toscana, durante la fanciullezza di Dante. È narrato così dal VILLANI (VII, 40): « Li anni di Christo 1270,... in Viterbo, avenne una laida et abominevole cosa sotto la guardia del re Carlo. Che, essendo Arrigo fratello di Adoardo figliuolo del re Ricciardo d'Inghilterra in una chiesa alla messa, celebrandosi in quell'hora il sacrificio del corpo di Christo, Guido conte di Monforte, il quale era per lo re Carlo vicario in Toscana, non guardandosi a reverentia di Dio nè del re Carlo suo signore, uccise di sua mano con uno stocco il detto Arrigo, figliuolo del re d'Inghilterra, per vendetta del conte Simone di Monforte suo padre, morto a sua colpa

simo che si mostra così severo e villano con frate Alberigo, il cui scellerato tradimento non fu ordito che per vendicare l'ingiuria dello schiaffo, alapam magnam, ricevuto da un suo congiunto nel calor d'una disputa (Inf. XXXIII, 109 ss.). E lui che nel girone degl'irosi sul purgatorio esalta la mansuetudine di Pisistrato, il quale rispondeva « con viso temperato » alla moglie che lo spronava a vendicar l'oltraggio fatto alla figliuola (Purg. XV, 94 ss.), e quella di san Stefano che, tra i martirii, orava all'alto Sire « che perdonasse ai suoi persecutori » (106 ss.). Ed è lui che fa dagl'irosi << pregar per pace e per misericordia L'Agnel di Dio che le peccata leva » (XVI, 16 ss.). Che se è anche lui che fa dalla vedovella desiderar vendetta del suo morto figliuolo (X, 73), si pensi che qui vendetta non vuol significare che giustizia legale, e che ad ogni modo il poeta non esalta la donna che la domanda

cero.

-

per lo re d'Inghilterra. Onde la Corte si turbò, dando di ciò riprensione allo re Carlo; che ciò non dovea sofferire, se l'havesse saputo; e se nol sapeva, non lo dovea lasciare passare impunito. Ma il detto conte Guido, proveduto di gente a piede e cavallo per sua compagnia, non solamente li bastò d'havere fatto quello homicidio, perchè uno cavaliere il domandò c'havesse fatto, rispose: Ie a fet ma vegianze! E'l cavaliere disse: Commant? vostre pere fu trané. Incontanente ritornò nella Chiesa, et prese Arrigo detto, così morto, per li capelli, et tranollo infino fuori della Chiesa, vilmente; et fatto il detto sacrilegio et homicidio, si partì di Viterbo, et andonne sano et salvo in Marema, nelle terre del Conte Rosso suo suoDante Per la verità storica, cfr. BLANC, Saggio, p. 124-25. lo mette in disparte dagli altri propter singulare maleficium enormiter commissum, chiosa BENVENUTO. Ed è notevole che questo commentatore si affanni per giustificare la condanna del poeta. Ben fece, egli dice, e perchè Guido fu un grande spargitore di sangue, anche nelle molte guerre che combattette per Carlo; e perchè commise quest'ultimo nimis excessivum homicidium in chiesa, in persona d'un figlio di re, e per ingiusto motivo, giacchè il re d'Inghilterra avea fatto morire suo padre resosi colpevole di lesa maestà; e perchè, finalmente, con questo suo delitto procurò vergogna ed infamia al re Carlo suo signore. Da siffatte considerazioni si lasciò forse persuadere il BARTOLI (Storia, VI, II, 47 ss.) a supporre che il poeta, condannandolo, ubbidisse più a un sentimento di odio partigiano per il masnadiere dell'Angioino > che di giustizia « per l'uccisore del figliuolo del re d'Inghilterra. Ma una tale supposizione sembra per lo meno eccessiva ed arbitraria.

DANTE ATTORE E DANTE POETA

103 con si viva insistenza, bensì l'imperatore che gliela concede. E un'altra cosa par che dimentichino gl'interpreti: che cioè quel personaggio Dante che va peregrinando attraverso il regno della morta gente, piangendo o adirandosi, mostrandosi tenero o crudele, provocando dalla sua guida carezze o rimproveri, è un Dante moralmente diverso dal poeta. Questi è già un uomo perfetto, che appunto quel viaggio oltramondano ha reso « puro e disposto a salire alle stelle» (Purg. XXXIII, 145); quegli invece è il peccatore la cui mente è ancora annebbiata dai vapori del vizio. Tornato dal suo viaggio d'espiazione, il poeta racconta, in pro del mondo errante, la drammatica storia dei suoi traviamenti e del graduale e soprannaturale suo emendarsi; a quella guisa che, per esempio, sant'Agostino fece la triste confessione dei suoi errori giovanili. La singolarità stessa della grazia concessagli mostra quanto grande fosse oramai l'abisso tra l'uomo antico, in preda alle pravi inclinazioni del suo tempo e della sua città, e il nuovo, pervenuto al divino dall'umano, all'eterno dal tempo, «e di Fiorenza in popol giusto e sano» (Par. XXXI, 39). Spesso quindi gli atti, gl'impeti istintivi, le parole di Dante attore non sono per l'appunto quelli che possa approvare Dante poeta: il quale perciò si lascia correggere dal dolce pedagogo o da Beatrice, che rappresentano il vero e squisito sentimento dell'animo suo rinnovellato.

IV.

Nella nona bolgia al poeta si presentano, orribilmente conciati, gli autori di scismi politici e religiosi: degli antichi, Curione, Maometto ed Ali; dei moderni, Bertram dal Bornio e il Mosca; dei suoi conoscenti, Pier da Medicina. Si arrestano a riguardare quello straordinario pellegrino, « per maraviglia

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