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Avrebbe voluto una Roma libera e potente, capo d'Italia; e fallitagli la speranza, si acconciava anche ad un impero di cui l'Italia fosse il giardino. Queste opinioni furono in lui abbastanza efficaci per fargli comporre di belle poesie, ma non abbastanza per farlo operare romanamente. Se l'uomo conoscesse a che è buono, non disperderebbe le sue forze inutilmente, spesso a danno di quella causa che vuole e non sa difendere, e sempre con suo disdecoro. Il Petrarca era nato non all'opera, ma allo scrivere; e la parte meglio spesa della sua vita fu quando, secondato il natural genio, si tirò dalle faccende e si ridusse in solitudine: ivi o compose o terminò o concepì i più importanti de' suoi lavori. Ma in grazia delle sue opinioni, disviò, e fece come chi spendesse la vita alla ricerca della pietra filosofale. La sua pietra filosofale fu lo scopo chimerico di pareggiare gli scrittori latini, errore di quel tempo. I dotti disprezzavano la lingua italiana come volgare, e poco degna a' loro alti concetti, non ostante il grande esempio di Dante. Ed il gusto era ancora così grossolano, che i Bonati, i Mussati, i Lovati, erano tenuti quasi redivivi Orazii e Virgilii. È impossibile scrivere letterariamente in una lingua morta. Perchè la vita della parola non è nel suo significato materiale, che solo sopravvive, ma nelle immagini, nelle idee accessorie, in certe fine gradazioni, che sono un sottinteso aggiuntovi dal popolo. Le parole latine giacciono senz'anima, come in un dizionario; hanno perduto la fisonomia e il

calore, e nè il Petrarca, nè nessuno può risuscitarle. Fece un poema, e la natura non gli avea dato fantasia da comporre ed animare un vasto ordito. Nondimeno fu questo il principal titolo della sua incoronazione e della sua fama; i contemporanei salutarono con ammirazione il nuovo Virgilio. Sali tanto alto, che i popoli gli andavano incontro, e lo festeggiavano, acclamato principe della parola e della poesia. E venne in tanta grazia de' principi, che gareggiavano a tirarlo ciascuno dalla sua. Il Petrarca ebbe il buon senso di rifiutare i carichi politici offertigli da re Roberto, da' papi, da' principi, non volendo essere frastornato ne'suoi studii. Accettava però volentieri legazioni, poco rileva da chi o per che, e divenne il cicerone ambulante dei principi italiani. Traevasi da tutte le parti a sentire il legato che con rimbombo ciceroniano predicava comuni verità, applauditissimo. Era nell'opinione un Virgilio ed un Cicerone, nè gli bastò; imitò altri scrittori latini. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino. Mutò Petracco, il suo cognome, in Petrarca; mutò i nomi degli amici, che diventarono de' Socrati e de' Lelii, e i Socrati e i Lelii con giusto cambio chiamavano lui Cicerone, dando il nome di Tullia alla sua figliuola. Pajono bambinerie: delle quali rideremo meno, quando penseremo ai Bruti ed ai Catoni della rivoluzione francese. Sono le sublimi follie dell'umanità; e quanto a me, amo meglio i tempi pieni di fede e di forza, ne' quali si può fare di tali follie, che i tempi scet

tici, ne' quali se ne può ridere. All' ultimo scrisse epistole a' più illustri dell'antichità, co' quali viveva in ispirito, a Cicerone, a Seneca, a Pollione, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, conversando con loro dimesticamente, mescolando lodi e biasimi, talora con molta giustezza di criterio. Poco innanzi di morire, indirizzò un' epistola alla posterità, dove le si raccomanda, rassegnandole tutto quello che avea scritto per farsene degno. Ma di tutto quello che ha scritto, non è sopravvivuto che il suo epistolario, e non già come opera letteraria, ma per un gran numero di circostanze e di fatti che ce lo rendono prezioso. Notabili soprattutto sono le familiari, e più particolarmente le epistole senili, che si possono considerare come le sue Memorie. Sono uno specchio fedele del suo carattere e della sua vita ne'tratti più confidenziali, e dove non di rado trovi un accento che gli viene dall' anima e te gli affeziona. Talvolta vi esprime con effusione de'sentimenti che hai già letti felicemente condensati in qualcuno de' suoi versi italiani.

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Giunse il Petrarca alla posterità, ma per un'altra via. E se alcuno avesse potuto dirgli: tu sarai grande non per quello in cui hai occupata tanta parte della vita, ma per le tue rime; ne sarebbe rimasto stupefatto, lui ed i suoi contemporanei. Quelle rime fu più volte tentato di bruciarle, e si dice che ne abbia bruciate un gran numero. Nondimeno in vecchiezza, veggendo l'universale favore in cui erano, con giusto presentimento attese ad ordinarle, a li

marle; e ne uscì il Canzoniere. Le sue fatiche di erudito gli hanno acquistato uno de' primi luoghi tra i benemeriti delle lettere; ma la gloria, il nome di grand'uomo glie l'hanno acquistato le sue rime. E giunto a noi, accompagnato con Laura.

II.

Il Petrarchismo.

Il Petrarca vide la prima volta Laura in chiesa. Aveva appena ventitrè anni, e quella vista gli fece tanto più impressione, quanto che infino allora, seppellito ne' suoi studii, erasi tenuto puro di tutta quella licenza di costumi, che ha reso trista la corte papale di Avignone. L'amore creò in lui un nuovo indirizzo. Scrisse latino per acquistarsi fama; scrisse versi italiani a sfogo ed a sollazzo.

La vita nel principio è condizionata dal mondo esteriore, l'anima fa non secondo quello che vuole, ma secondo quello che trova, cullata dolcemente dalle prime impressioni, spesso tanto potenti, che la non si può sciogliere più da quella prima involontaria oscillazione: di che nasce la legge del progresso, la persistenza del pensiero umano nel variare degl' individui, quella specie di eredità che il passato lascia al presente. Il Petrarca trovava, cominciando a poetare, una scuola poetica generalmente ammesso, con un contenuto e con leggi proprie. Ora i grand' ingegni si possono così poco, come

i mediocri, difendere dalle false opinioni di una scuola poetica dominante; ed il Petrarca non se ne seppe difendere. Sicchè, se vogliamo ben comprendere il suo Canzoniere, non basta lo studio dell'uomo, dobbiamo ancora gittare uno sguardo su quella scuola.

La poesia amorosa era da lungo tempo in voga. Non è bisogno ricordare i Trovatori. In Italia era già cominciata una poesia popolare, plebea e rozza. Il dialogo di Ciullo di Alcamo, che c'è rimasto, fa già supporre tutto un ciclo poetico. A quel tempo non ci è ancora propriamente una lingua, ma un misto di latino, di provenzale, di municipale, con una tendenza già verso quell' unificazione, che fu effettuata in Toscana. Nella poesia di Ciullo domina il dialetto siciliano, non senza qua e là dei versi interi di uno schietto stampo italiano. I sentimenti sono ancora grossolani; vi è rappresentato un Don Giovanni da taverna, che cerca di sedurre ed anche di far forza ad una giovane: l' una degna dell' altro. Nondimeno tu leggi con piacere, perchè il dialogo è vivace e ricco di movimenti e situazioni drammatiche. Già fin da quel tempo, sotto gli auspicii di Federico II, entrava in corte e nelle classi colte una certa pulitezza di lingua e di sentimenti, e concorrendo nelle maggiori città d' Italia i trovatori provenzali, cominciava a sentirsi la loro presenza nella poesia. A' rozzi canti popolari seguitò una poesia dotta ed imitatrice; si poetò non secondo l'accento che veniva dal di dentro della na

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