Agli amici suoi di Toscana. Amici miei cari, sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent' anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto; e credo ormai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, miei cari amici, e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a passar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro Leopardi. Firenze, 15 Dicembre 1830. O All'Italia. patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l'erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond' eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Tra le ginocchia, e piange. Piangi, chè ben hai donde, Italia mia, E nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; Che, rimembrando il tuo passato vanto, Chi ti tradi? qual arte o qual fatica O qual tanta possanza Valse a spogliarti il manto e l'auree bende ? Da tanta altezza in così basso loco? Agl' italici petti il sangue mio! Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi In estranie contrade Pugnano i tuoi figliuoli. Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli, E fumo e polve, e luccicar di spade Come tra nebbia lampi. Nè ti conforti? e i tremebondi lumi Piegar non soffri al dubitoso evento? (1). Procomberò vale soccomberò. Non era difficile che il Leopardi incogliesse in qualche vocabolo che sapesse di latino, per la gran familiarità che aveva con questa lingua. A che pugna in quei campi L'itala gioventude? O numi, o numi! Oh misero colui che in guerra è spento, Ma da nemici altrui, Per altra gente, e non può dir morendo: La vita che mi désti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette Per la patria correan le genti a squadre; O tessaliche strette, (1) Dove la Persia e il fato assai men forte Narrin siccome tutta quella sponda Coprîr le invitte schiere De' corpi ch' alla Grecia eran devoti. Allor, vile e feroce, Serse per l'Ellesponto (2) si fuggia, (1). Stretto o passo delle Termopili in Tessaglia, e credo soverchio il ricordare come esso fu celebrato dalla strenua difesa e dalla morte di Leonida e dei suoi 300 Spartani, acciaccati dall'esercito formidabile dei Persiani. (2). Serse, re e condottiero dei Persiani, vinto, disfatto e posto in fuga dai Greci, riattraverso l'Ellesponto, stretto di mare che separava la Grecia dall'Asia, per tornarsene in Persia. |