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numento di filologia, di filosofia e d'arte, un soggetto di polemiche per la gente erudita.

Ci proponemmo dunque con questa nuova ristampa dei Canti del Leopardi, i quali noi facciamo seguire da una scelta delle sue prose, di toccare lievemente della vita di lui, evitando di accennare alle troppe profonde discussioni dei dotti sopra la sua filosofia, e di facilitare la lettura dei Canti con qualche nota esplicativa intercalata nel testo, talora valendosi delle stesse note filologiche dell'autore, talora di quelle d'insigni professori, talora del nostro criterio, fidando del resto che altri in seguito faccia più completamente e con miglior risultato quello che noi tentiamo di fare adesso come meglio possiamo.

Fu nel 1798 che dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici nacque Giacomo Leopardi a Recanati nelle Marche. Fanciullo, ebbe da pedagoghi mantenuti e salariati in casa, tutta l'istruzione ch'essi pctevano dargli; poi da sè più che con i maestri, e molto giovandosi della ricca biblioteca paterna, egli tentò di saziare la inestinguibile bramosia di sapere, che gli avvampava la testa come una febbre. Seppe il francese, lo spagnuolo, l'inglese e perfino l'ebraico, mentre che già nella filologia greca e nella latina andava per la maggiore fra gl'Italiani non solo, ma fra i sapienti più noti delle altre nazioni.

Gracile di costituzione, divenne malaticcio nel crescere, forse per la smoderata disciplina di studî cui gli piacque di asscggettarsi con tanta passione; mentre i dolori fisici e morali che lo afflissero lo resero a

mano a mano sempre più malinconico e tetro; talchè avvicinandosi alla virilità, gli occhi gli s'infossarono, dimagrì, incurvò, e divenne anche un poco deforme e gibboso. Ma da fanciullo fu sano, allegro, e qualche volta perfino romoroso e prepotentello in casa. Nel paterno castello, dove

Sonavan voci alterne e le tranquille
Opre dei servi,

con i fratelli ed i cugini il futuro cantore della Ginestra inventava mille giuochi, levava la sua voce fioca e sottile, e qualche volta fu veduto rappresentare gli eroi trionfatori dell'antichità, trascinato dalla giovine comitiva su la carretta che serviva al trasloco dei vasi del giardino!

Il conte Monaldo fu uomo rigido, di teorie sanfedistiche, stomachevoli, il quale ebbe il grave torto di non secondare il genio meraviglioso del figlio, opponendosi, per tema dei contatti, a che si allontanasse da Recanati e si aprisse presto una strada gloriosa nel mondo. La contessa Adelaide, influentissima nei domestici divisamenti, tutta intesa con bella onestà a soddisfare gli antichi debiti che pesavano su la famiglia e a riattivare il patrimonio cadente, usò con i figli tale una parsimonia rigorosa, che non ci fu mezzo che nemmeno si parlasse del mantener Giacomo in un qualche centro, dove il suo talento potesse, per gli attriti morali, educarsi maggiormente, tosto rivelarsi, e procurare al giovane una bella posizione sociale. Il quale, di tenera età, avea pur dato alla luce

belle prove del suo ingegno fenomenale, canti belli di peregrini concetti, traduzioni di forma gastigata, e lavori critici, dove l'erudizione e l'acume filologico stupivano i dotti anche fuori d'Italia.

La prigionia di Recanati affliggeva e prostrava il povero Giacomo oramai non più giovinetto; e l'ambiente angusto per il vasto intelletto, e le teorie rugginose dei suoi lo chiudevano in un cupo riconcentramento, dove le sue idee di pessimista assumevano proporzioni sempre più desolanti. La biblioteca, il suo solo conforto, il suo mondo, era stata da lui sfruttata; si era saturato del classicismo di tutti i tempi; onde ebbe a dire il De Sanctis che in quella biblioteca il Leopardi entrò Recanatese, e ne uscì cittadino del mondo.

E sulla sua vita infelice ed orrenda, si disfogava col fratello Carlo, o nelle lettere a Pietro Giordani, l'insigne filologo piacentino.

È anche da aggiungere come un branco di preti abitasse il palazzo, partecipando ai pasti della famiglia, e da ricavare quanto avessero da consonare i discorsi spropositati, le considerazioni impossibili che correvano fra gli ospiti e il conte Monaldo, col criterio tanto elevato di Giacomo, che del resto si era appigliato al partito di tacersi disperatamente. Su questo scriveva un giorno al Giordani: « Nella mia brigata << domestica, che non è poca, se ne sentono alla gior« nata delle così belle, che è una meraviglia. Ma io « ci ho fatto il callo e non mi fanno più male. »>

Nel 1822 finalmente, il conte Leopardi consenti a mandare suo figlio a Roma; era un po'tardi. Al giovine peraltro pareva, fuggendo a quell'odiata provincia, a quella gente zotica e vile, com'ei la chiamava, di lasciar le sue pene, di guadagnarsi la quiete e la salute, di sentirsi risorgere lo spirito abbattu

to. Ma era impossibile oramai; il suo corpo infermo, i suoi tetri pensieri ei recavali seco dovunque; il pessimismo era la lente attraverso la quale egli vedeva costantemente le cose e la gente. Trovò la vita romana un romore assordante e nojoso; giudicò i romani peggiori dei recanatesi: s'incontrava in donne che gli facevano stomaco e in uomini che gli facevano rabbia e misericordia. Questo si rileva dalla più parte delle sue lettere. Benchè qualche momento umano dovesse pure averlo se si dà retta a quello che scriveva una volta: « Non ti parlo dell'impressione che mi ha prodotto il ballo veduto con la lorgnette. Ti dico in genere che una donna, nè nel canto nè in ogni qualunque altro mezzo, può tanto innamorare un uomo quanto col ballo. »

Molti anni dopo tornato in Roma, il poeta confessava al Ranieri di essersi riconciliato con quelle eterne bellezze. Ma anche allora, nonostante la protezione dell'illustre consigliere Niebhur, che brigò per ottenergli un impiego, egli lasciò il Campidoglio senza quiete nè conforti, e con esso l'illusione che nelle grandi città si possa rinascere alla speranza; e dopo aver rifiutato d'indossare l'abito prelatizio che il cardinale Consalvi gli offriva con impiego e beneficio non lieve e promesse, tornò a Recanati, vieppiù disgustato degli uomini e delle cose, a menare più trista vita della prima.

Si sentiva oramai disperato; provava crudelmente il vuoto dell'esistenza come cosa reale che fortemente premesse l'anima sua; e il nulla delle cose era la sola cosa che per lui esistesse.

Nel 1825 accettò la proposta del libraio Stella di Milano di andare a dirigere l'edizione del Cicerone, e lasciò nuovamente la casa paterna. Fu a Bologna, a Milano e in seguito a Firenze, a Pisa e altrove; del re

sto ogni qualvolta rimpatriava era costretto a fuggir via, perchè la sua salute non poteva più tollerare il clima frigido di Recanati, nè il suo spirito quella solitudine angosciosa. Pisa lo incantò: scrisse alla sorella Paolina dei lungarni, della gente, del clima di cotesta città con vero entusiasmo. Anche per la nostra Firenze ebbe una speciale predilezione. « Quivi gli si scoperse una nuova scena: non la romana, non la lombarda: ma una più bella ed incantevole, e pure sempre italiana. L'olezzo dei fiori, l'armonia della lingua, la grazia inenarrabile delle donne, l'innocenza del reggimento, le curve svelte e, per così dire, aeree dell'architettura, un non so che di carezzevole e di casalingo, che gli parve arcanamente scusare le pareti domestiche, un non so che d'attivo e di leggierissimo ond'egli sorvolò più mesi il suo dolore, ed osò nuovamente credere alla felicità »>

Così il Ranieri.

E dappertutto l'ammirazione dei dotti e l'affette dei buoni circondavano l'infelice poeta. Ma ciò non valeva a farlo sorridere alla vita, e salvo brevi e fugaci intervalli, egli fu sempre la vittima del suo pessimismo, del suo scetticismo, e delle molte infermità fisiche, le quali a tanto giungendo, e mal resistendo il gracile corpo alla corrosione dell'animo irrequieto, dovè recarsi per consiglio dei medici a Napoli.

Quello che egli soffrisse compendia il Ranieri dicendo: «Giacomo Leopardi, questo grande e imperdonabile peccato non so se più d'Italia o della fortuna, sostenne, nella sua brevissima vita, una buona parte si può quasi dire delle più gravi malattie che si conoscono sotto il sole. »

A Napoli per sette anni le cure amorose dello stesso Ranieri tentarono alleviargli le angosce e i do

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