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Alla sua terra natia indirizzò l'Alighieri quella sublime Canzone O patria degna di trionfal fama, in cui più che altrove si appalesano tutti gl' intimi sensi d'amore e di sdegno, che racchiudeansi nel petto di lui:

Tu te n'andrai, Canzone, ardita e fiera,
Poichè ti guida Amore,
Dentro la terra mia, cui doglio e piango.
Canz. iv, St. ult.

Quivi ei la chiama degna di fama trionfale, madre dei magnanimi, sorella di Roma, madre della lode, ostello di salute; e la compiange perchè l' iniqua gente è sempre pronta a mostrarle il falso per vero, ed a congregarsi alla morte di lei. Le ricorda i bei tempi nei quali ella felice regnava, quando i suoi figli vollero che le virtù fossero loro sostenitrici. La rampogna che or sia vestita di dolore e piena di vizi e la conforta a sterpare, senza pietà dei figli degeneri, i maligni rampolli, che hanno bruttato il suo fiore, sì che le virtù risurger possano vincitrici. E quindi predicendole, che se questo farå, ella regnerà serena e gloriosa in sulla ruota d'ogni beata essenza, e il nome suo potrà dirsi eccelso; e chiamando avventurosa l'alma che in lei fia creata, allor che l'affezione sarà il suo ornamento, va gridandole: che elegga omai, se fa più per lei o la fraterna pace, o il rimanersi una rapace lupa.

Nella chiusa d' un' altra sua Canzone, adopra l'Alighieri consimili espressioni, dalle quali se appare il dolore ed il cruccio da lui contro la patria concepito per l'ingiusto esilio, chiaro appare ben anche l'affetto, che ad essa lo lega e fa sì che ella medesima frequente il suo pensiero rivolga:

O montanina mia Canzon, tu vai;
Forse vedrai Fiorenza la mia terra,
Che fuor di sè mi serra
Vota d'amore e nuda di piętate:
Se dentro v'entri, va' dicendo: Omai
Non vi può fare il mio signor più guerra;
Là, ond' io vengo, una catena il serra
Tal, che se piega vostra crudeltate,
Non ha di ritornar più libertate.

Canz. XII, St. ult.

Altrove la sua patria è da lui chiamata il dolce paese (1), ed a gustar questa dolcezza cotanto egli aspira, che non può a meno di prorompere in tali accenti: Se non fosse che per lontananza m'è tolto dalla veduta il bel segno degli occhi miei, lo che m' ha posto in fuoco, reputerei lieve cosa ciò che ora m'è grave: ma ahimè! questo fuoco m'ha si consumato la carne e le ossa, che morte m'ha posto la chiave nel petto. Laonde se

(1) Canz. XI, St. I.

mai ebbi colpa, più lune trascorsero da che fu purgata, quando colpa dileguisi se avvien che l'uomo si penta:

E se non che degli occhi miei il bel segno
Per lontananza m'è tolto dal viso,
Che m'have in fuoco miso,

Lieve mi conterei ciò che m' è grave:
Ma questo foco m' have

Già consumate si l' ossa e la polpa,
Che morte al petto m'ha posta la chiave:
Onde s'io ebbi colpa,

Più lune ha volto il Sol, poichè fu spenta,
Se colpa muore, purché l'uom si penta:
Canz. xvII, St. v.

espressioni, non potremmo dir quanto, piene d'ansia, di pietade e d'amore, le quali d'un'anima grande, affettuosa, sublime proprie soltanto esser ponno.

Se l'amore di patria dovesse per l' Alighieri e per il Petrarca limitarsi alla sola Firenze, noi diremmo essere stato maggiore nel primo che nel secondo: imperciocchè Dante, privato d'ogni sua cosa più cara, dannato alla pena del fuoco, pertinacementé ributtato dai suoi concittadini, non cessò mai di aver nella mente e sugli occhi l' immagine della sua terra, e di agognare l'istante in cui gli venisse concesso di terminare i pochi anni di una travagliata vita entro quelle mura, che racchiudeano il bello ovile, ove altra volta avea dormito agnello: ed il Petrarca, rimesso nelle sostanze ai suoi genitori confiscate, ossequiato con magnifici onori, sollecitato con decorose ambascerie, chiamato a rettore di fiorentina università, non volle se non brevemente, e in occasione di transito, dimorar mai in Firenze, contro la quale nudriva un secreto rancore per l'esilio dai suoi genitori sofferto.

Ma se il Petrarca non ebbe in particolare un amor patrio per Firenze, lo ebbe in generale per tutta Italia; del che posson far fede quelle arringhe piucchè pistole sue, dirette a Papi, Imperatori e Principi, piene di grandi oggetti politici e di un caldo zelo per la salute e libertà di Italia e di Roma, della quale più fortemente perorò la causa, e della quale tentò far risorgere la gloria, come era giunto a far risorgere l'antica eloquenza. Vedi, diceva egli con rammarico al Boccaccio, allor che questi per commissione della Repubblica di Firenze, si portò presso l'amico in Padova, vedi come inestricabile fato guastò la venustà di questa nostra Italia! come ne distrusse il pudre, le passate onorificenze, il potere, lo splendore della sua maestà!

Quando Cola di Rienzo sollevò il popolo di Roma, e si dichiarò restauratore della Romana Repubblica, Petrarca gli porse le sue lodi e i suoi consigli. Pochi mesi dopo, ebbe la mortificazione di risapere che il suo eroe, spenti alcuni nobili ed affannata la plebe, era

fuggito da Roma. Capitò questa novella al Pe- | ta una via a farsi eterno di fama, col ridonare trarca, mentre egli era in cammino verso l'I- alla patria la pristina gloria e potenza ; o tentalia; e nella lettera da lui scritta in tal circo-ta svolgere gl' Italiani dalle pertinaci discorstanza spicca maggiormente l'affetto verso la patria: La lettera del Tribuno, egli dice, mi giunse come un colpo di fulmine. Da qualunque lato io mi rivolga, veggo ragione di disperare. Roma fatta in brani; Italia devastata. Che sarà mai di me in questa pubblica calamità? Dieno altri le ricchezze, la forza, i consigli loro: io per me non ho da dare altro che lagrime (1).

die e dalle mutue stragi, facendoli accorti della prossima loro rovina, del prossimo loro servaggio sotto straniera dominazione, confortando l'unione di quei pochi magnanimi spiriti, cui preme forte la carità della patria, e bandendo la crociata contro i forestieri tutti. Il genio del Petrarca sfoggiava con tutta la sua pompa, in questo genere di grandiloquenza poetica, nella quale non è punto inferiore a Dante istesso.

Ogni qualvolta si presentava al Petrarca la menoma occasione di restituire a Roma il seg- Dante e Petrarca furono due luminari, che gio dell' Impero, tosto gl'interessi di tutti i grandemente rischiararono e quasi dileguaropiccoli tiranni d'Italia, ch' ei talvolta adulò, no le tenebre, fra le quali era avvolta l'italiacedevano a questo illusorio disegno, da lui sic-na letteratura; tracciarono differenti disegni, come da Dante, accarezzato fino all' ultimo ed esercitaron perciò fino a noi differente inrespiro. Dissimili in tutto, in ciò solo si rasso-fluenza. Grandi pregi stanno dall' una parte e migliano questi due caratteri che ebbero sem- dall' altra, molta originalità, immensa dottripre a cuore religione e filosofia, patria e liber-na: il negarlo fora un assurdo. Non poche lodi tà: ambedue cercando sedare le italiane di-si debbono certamente tributare al Petrarca scordie, e credendo trovare l'unione e la feli-qual perfezionatore del gentile idioma del sì. cità della patria loro nel governo di un prin- Ma chi fu ch' al Cantore di Laura rese più agecipe secolare, tentarono liberarla dalla pote-vole quel cammin faticoso, se non principalstà temporale del Pontefice.

mente Dante Alighieri? Questi non sol coi preNon si creda poter quindi dedurre, che cetti, ma pur coll' esempio andò eccitando gli l'Alighieri colle sue acerbe rampogne contro schivi ingegni d' Italia a coltivare una lingua, la potenza e l' egoismo papale volesse dimo- che doveva riuscire non ultima fra le glorie di strar disprezzo per la religione e per ogni ec- lei. Chè se il Petrarca potrà, siccome poeta clesiastica dignità. Con quelle cercava accre- italiano, porre il suo forbito Canzoniere a conscer concorso al suo partito e scemarlo al fronto delle Rime liriche e della Commedia di guelfo. Per lo che, pigliando occasione dagli Dante, qual prosa potrà porre a confronto delabusi de' suoi tempi, morde lividamente la fa-l' elegante libretto della Vita Nuova, della noma di quei Pontefici, che più alle sue brame bile ed impareggiabile scrittura del Convito, si opposero; ma verso la Religione e l'auto- quando le poche cose che abbiamo di lui, nel rità delle somme chiavi conserva sempre inte- nostro idioma dettate, giungono appena alla ra la reverenza, significando in più luoghi, che mediocrità? Eppure al Petrarca non si oppodall' Italia per legge di Dio e merito della Ro-nevano tante difficoltà quante si opposero almana virtů nasceano a scorta e regolamento!' Alighieri, un mezzo secolo innanzi, allor che comune due luminari, Pontificato, ed Impero.il nuovo idioma pargoleggiava tuttora. Se DanSe l'amore non avesse tiranneggiato il poe-te, per servirmi di frase già usata, è col Petico genio del Petrarca, ed assorbito i suoi ta- trarca uno dei lucidissimi occhi della lingua lenti, l' Italia avrebbe avuto in lui il creatore italiana, nissuno a giusto titolo potrà negargli di un nuovo genere di poesia, a cui nè gli an- il merito di essere il destro. tichi nè i moderni niente avrebbero da paragonare, cioè a dire un genere di Canzoni eroiche, di cui abbiamo un saggio in queste poche che egli ci ha lasciate di tale specie:

Il Petrarca, non contento di soprastare a tutti i suoi coetanei, ambiva eclissare la gloria dei grandi italiani, da cui era stato nel magistero delle lettere preceduto. Uno dei suoi difetti era la vanità. Quatunque egli vada affettando non curanza pel Cantor di Beatrice, quantunque ei voglia sembrare schivo di gettar l'occhio sulle opere di quel sommo, pure a chi sottilmente riguardi apparirà manifesto, ch' ei non solamente lesse e ponderò le Rime dell' Alighieri, ma da quelle imitò, e frasi e concetti e bellezze.

O aspettata in ciel, beata e bella; Spirto gentil, che quelle membra reggi; Italia mia, benchè il parlar sia indarno. Per esse il Petrarca o conforta i Principi all' onorata impresa della ricuperazione di Terra Santa, mostrando quanto facile, quanto giusta e dovuta ella fosse; o stimola il suo eroe, il Tribuno romano, a destar dal suo letargo Ro- Quanto al loro verseggiare, il Petrarca afma e l'Italia, a richiamarla al suo antico viag-foga non di rado la realtà in tanto lusso di degio, ponendogli in vista come per lui siasi aper- corazioni ideali, che mentre affissiamo le sue immagini, le vediamo quasi scomparire, e frai raggi d' un' aurea luce eclissarsi. L' Alighieri

(1) Famil. lib. 7, ep. 5 ad Laelium. DANTE. Opere Minori.

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all' opposto sembra che siasi assoggettato alla legge di esser parco ed arguto: il vero buon gusto, fu già osservato, è un eccellente economo, si compiace di produrre grandi effetti con piccoli mezzi. L'oscurità che si rincontra nei versi del Petrarca consiste tutta nelle idee e nelle frasi, assai di troppo studiate; laddove quella di Dante consiste principalmente nei vocaboli: si tolgano questi, e si sostituiscano loro equivalenti, e dai versi di Dante vedremo spiccare un senso il più limpido e il più naturale. Le immagini dell' Alighieri sono prominenti figure, che ci sembrano di alto rilievo, e che crediamo poter quasi toccare con mano, e le cui parti che si ascondono alla veduta vengono prontamente e con spontaneità alla predisposta immaginazione: quelle del Petrarca potremo dirle squisitamente finite da pennello delicatissimo, ma troveremo dilettar più pel colorito loro, che per le forme.

Forse l'ereditaria venerazione, il prestigio dell' abitudine, e l'avidità del piacere fecero riposare soverchiamente gli amatori del bello nel ritmo sonoro dei versi del Petrarca,

e ne esagerarono l'incanto. Evvi però un bello più generale, che attira l'anima non per mezzo dell' udito principalmente, ma per mezzo di tutte le sue potenze, e che piace ad età ed a popoli fra loro diversi. Tale è il bello di Dante.

Invece di scegliere, come fa ognora il Petrarca, le più eleganti e melodiose frasi, l' Alighieri con una lingua ancor rozza, e facendosi talvolta tributarii i dialetti d'Italia, mira più particolarmente a trovar tali combinazioni di vocaboli e modi, che possano rappresentare con esattezza ed evidenza tutto quel ch' ei sente nel cuore, tutte le scene della natura, e tutto il tesoro della sua dottrina; lo che dà ai suoi versi quella tinta di verità, di energia e di grandezza, che lo distingue sopra qualunque poeta: quindi l' armonia di Dante è meno melodiosa di quella di Messer Francesco, ma è spesso il frutto di un più efficace artificio. Non si potrebbe adunque anteporre il Petrarca a Dante se non si volesse preferire la raffinatezza e l'eleganza del gusto alle spontanee inspirazioni dell' anima, ai sublimi ardimenti del genio.

CAPITOLO III.

Ricerche bibliografico-filologico-critiche sulla legittimità delle Poesie liriche
di Dante Alighieri, e note per l'intelligenza delle medesime.

al Canzoniere di Dante per sussidio della memoria.

Sig. Pietro Fraticelli, Amico pregiatiss.
Pisa 3 Aprile 1835.

>> Adempio alla promessa fattavi di raggua» gliarvi di ciò ch' erasi fatto in Milano rela>>tivamente alle Rime liriche di Dante.

Essendochè nella Lettera al Caranenti fu dal Perticari nel 1821 annunziato, che alla gravosa fatica di sceverar dalle false le legittime Rime dell' Alighieri erasi accinto fino da «Debbo queste precise notizie alla cortequalche tempo il Marchese Gian Giacomo » sia ed all'amicizia del benemerito di Dante Trivulzio, talchè i Letterati poteano aspettar- » Sig. Alessandro Torri, il quale, da me insene un' opra degnissima, si venne formando » terpellato, volle su di ciò compiutamente la ragionevole opinione, che quel dotto Si-» ragguagliarmi per mezzo della seguente gnore lasciato avesse morendo molto inoltra-» lettera: to, od anche forse compiuto, il suo lavoro. Anzi con una qualche probabilità si credè, che pure il Monti avesse dato opera a simili critiche ricerche, prestando mano al Trivulzio (siccome fece nella emendazione del Convito) in compiere un' impresa fin allora intentata. Ma le italiane Lettere non furono sì avventu- >> Quando io meditava di ristamparle, mi rose da potere arricchirsi di un simile magi- » rivolsi al Marchese Giorgio Trivulzio con strale lavoro, qual senza fallo riuscito sareb- >> lettera raccomandata al mio amico, Prof. be, se le molte occupazioni e finalmente la » Francesco Longhena, chiedendogli i lavori morte non si fosse opposta al lodevol proget- » ch' erano stati preparati dal Marchese suo to di quei due celebri Letterati. E veramente padre e dal Cav. Monti, com' io supponeva, poco più che progetto da noi dirsi quello po- » intorno alle dette Rime, proponendomi di trebbe, in quanto chè il chiarissimo Gio: An-» pubblicarli insieme a quelle, e di sceveratonio Maggi, il quale ebbe parte insiem col » re colla loro scorta quei componimenti che Trivulzio nell' intermesse critiche ricerche,» all' Alighieri sono malamente attribuiti. II ne certifica che il loro lavoro non si ridusse » prelodato Marchese non ricusava cedermi che ad alquanti appunti presi su fogli unitil » quei lavori, a condizione però che il chia

>>

>> rissimo Gio: Antonio Maggi, che vi aveva >> le Rime di Dante con una lunga chiosa che » avuto parte, ne fosse pur egli contento: ma >> le dichiarasse, accompagnata da ben pon» questi scrisse all' amico mediatore la Let- » derata scelta di varie lezioni; e i Lettera» tera di cui vi do copia qui appresso, e che » ti (come avea predetto il Perticari) pote» m'ha determinato di rinunziare al proget-» vano aspettarsi un' opera degnissima. Ma >>to dell' edizione di esse Rime, scorgendo- » a tanto non bastò la sanità di Gianiaco» la troppo scabrosa a farsi nel modo che mo, la quale alteratasi fece sospendere il io avrei voluto, e che voi più paziente di lavoro, nè forse potrebbe ripigliarsi, poi» me non rifuggiste d' intraprendere. Eccovi» chè egli solo era guida sufficiente e sicu» pertanto la Leitera del Sig. Maggi al sud-» ra in quel buio ». detto amico mio:

» »

» Pregiatiss. Signore

I soli che hanno sparso dei semi in campo si vasto ed incolto possono dirsi il Dionisi, l' Arrivabene ed il Witte; il primo nei » Nella riserva posta dal Marchese Gior- suoi Aneddoti, o piuttosto saggi di critica » gio Trivulzio all' acconsentire alla richiesta sopra Dante, il secondo nel suo Ragionamen>> del Sig. Torri intorno a quei lavori sulle to sugli amori dell' Alighieri, il terzo in al» Rime di Dante, io riconosco la bontà ver- cun suo letterario opuscoletto. Questi semi >>so di me, e l'ottimo discernimento di quel però furono gettati, per così dire, alla rin>> degno Cavaliere. Per corrispondervi quin-fusa, e senza un prestabilito sistema. Le cose » di dal canto mio con tutta schiettezza D da quelli scrittori accennate, le questioni da >> mentre le confermo ciò che a lei fu giá loro toccate, sono mancanti di piano, talora >> dal medesimo partecipato sulla mia coope- erronee o contraddittorie, spogliate le più vol» razione ai suddetti lavori, debbo pur dir-te di dati e di prove, ed insufficienti alfine »le, che tutto quanto trovasi scritto di mia per loro pochezza a produrre, ancorchè in» mano in un libro formato di alcuni fogli sieme riunite, quel frutto sperato dagli ze>> uniti al Canzoniere dell'Alighieri della stam-latori dell' onor letterario di Dante. Conve» pa di Mantova pel Caranenti, non che so- niva dunque che si facessero ulteriori e più » pra altri fogli volanti, non è che un pri- copiose indagini; che si estendessero mag» mo abbozzo degli studi che si facevano in giormente i critici esami; e particolarmente » comune tra me ed il Marchese Gian Gia- poi che si desse al tutto una forma ed un or>> como Trivulzio per sussidio della memo- dine, talchè il lavoro, qualunque si fosse, poria, ed in preparazione della stampa che tesse riuscire all' uopo di un qualche vantag» si meditava. Il lavoro avrebbe poi dovuto gio. Tale era il voto dei dotti. Ma questo voto » esser preso in esame, e rifuso da capo a potrà egli dirsi in ogni sua particolarità sodfondo, perchè moltissimi erano i dubbi che disfatto col libro presente? Non è sì forte il » tuttavia rimanevano, nè per anco si era nostro amor proprio da lusingarci di tanto. >> determinato pienamente quali fossero i com- Basta a noi di aver percorso una parte di queponimenti da escludersi come malamente sta strada, in guisa che le nostre orme pos>> attribuiti al sommo Alighieri. La malattia, sano ad altri più di noi capaci e perseveran»e poscia la morte sventuratamente avve- ti seguir di traccia a compiere il faticoso viag» nuta dell' esimio Cavaliere, che mi onora- gio, e pervenire alla meta. » va della sua amicizia, lasciò ogni cosa in » sospeso; e nella sua biografia inserita nel

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tomo LXI della Biblioteca Italiana io ho » già detto, a carte 404, quello ch'io penso » di tale imperfetto lavoro. ec.

» Da quanto il Sig. Maggi ha esposto voi

desumerete, che il Monti non concorse pun

CANZONE I.

Donne, ch'avete intelletto d'amore. Questa Canzone è la prima di quelle riportate per intiero da Dante nella Vita Nuova, e quivi da lui comentate. Non può dunque cader nissun dubbio sulla sua origina

»to nel lavoro critico intorno alle Rime Dan-lità, poichè altrimenti dovrebbesi supporre

» tesche; e se in alcune Lettere del suo E-apocrifa tutta quell' operetta Dantesca, la qual

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pistolario disse ch'era già tutto in prou- supposizione gareggerebbe in istranezza con

to, convien dire che lo avesse soltanto in

idea, o che fosse altro, e suo proprio e

» sclusivamente, del quale però non rimane
» notizia. ec.

Vostro Affezionatiss. Amico
Alessandro Torri.

quella del P. Arduino, il quale opinava che la Divina Commedia non fosse opra di Dante, ma di alcun settario ed eretico. Nel trattato ancora del Volgare Eloquio Lib. II, cap. XII, e Lib. stesso, cap. XII, trovasi questa Canzone citata. Le varianti da noi riportate son tratte dai tre Codici Magliabechiani, dal Codice Martelli, dalla Vita Nuova edizione del Pasquali 1711 e dall' altra di Pesaro

» Il paragrafo della Biblioteca Italiana, » del quale fa menzione il Sig. Maggi nella sua Lettera, è così concepito: Se ne sta-1829. » va il Trivulzio disponendo l'edizione del- Lo stile delle poesie erotiche dell' Alighie

In questo significato manca nel Vocabolario. Diciamo una volta per sempre, che quando citiamo il Vocabolario intendiamo quello degli Accademici. Se vuolsi un esempio in cui il verbo pensare sia adoprato in ambedue i significati, cioè come verbo attivo e come verbo intransitivo, lo troveremo nella Vita Nuova pag. 29: « Giunse a me tanta volontà di dire che io cominciai a pensare il modo ch'io tenessi; e pensai che il parlare di lei non si convenia, se non ec.

Ivi, v. 9 e 10. Intendi: Ed io non vo' ci

ri occupa il mezzo fra quello di Guido Cavalcanti e quel di Cino da Pistoia. Guido astraendosi colla mente dalle qualità naturali, ond'è circoscritto l'oggetto dell' amor suo, innalzasi alle bellezze universali, ed in esse si spazia; ma per quella sublime contemplazione si rende impassibile ai timori, agli affanni, agli sdegni, ed il suo amore vestendo abito filosofico, spogliasi di quello della passione, e diventa un amore fuori dell'umana natura. Cino senza filosofare siccome il Cavalcanti per mezzo di alti ed elevati concetti, ma servendosi delle materiali idee a pre-mentarmi a parlare di lei si altamente, che ferenza delle spirituali, riesce più naturale, poi divenissi vile, cioè abbandonassi l'impre più tenero ed affettuoso: chè se minore fosse sa, per timore. in lui stata la verbosa prolissità, siccome verace era l'affetto non apparirebbe la sua poesia alcuna volta snervata e languida nello stile. Dante tiene un poco dell' una maniera e dell' altra in ciò ch' esse hanno di migliore, vale a dire alla elevatezza del Cavalcanti ed alla affettuosità di Cino unisce i pregi suoi particolari, la concisione, l'energia, l'evidenza.

Ivi, v. 13. Vui. Invece di voi, suoi, poi ec. abbiamo stampato vui, sui, pui ec. quando la rima cade in ui. In questo ci siamo conformati all' opinione del Dionisi, il quale a chi volesse opporre che deesi stampare voi ec. e pronunziare vui ec., risponde che approverebbe la regola, se fosse sempre mantenuta; ma non vedendosi ciò costante nei testi a penna, e nelle edizioni, stima bene fissare il metodo contrario, di stampare cioè secondo la pronunzia della rima voluta.

St. II, v. 9. E opinione d'alcuno che questo verso debba leggersi così: Che parla Dio? di Madonna intende?

Cosi Dante nelle Rime della Vita Nuova non apparisce tanto vago delle bellezze eterne ed immutabili, che non sia più vago ancora del piacere di contemplare l'amata Beatrice, e di cercare con ansietà di esserle caro. Ei nutriva per questa donna un affetto virtuoso bensì, ma non eroico al segno di reprimere i móti del naturale appetito, e rinunciare a tutti i propri piaceri. Questo gentile, ma pur verace amore, volle Dante rap-lore quasi di perla, vale a dire d'un color presentare in quelle sue poesie giovanili.

Avendo egli stabilito di non dir se non cosa la quale fosse lode di Beatrice, avvenne un giorno mentr' egli passava per una via campestre, lungo la quale un limpido ruscello scorreva, che gli nacque tanta volontà di dire per rima, che la sua lingua parlò quasi di per sè stessa dicendo:

Donne, ch'avete intelletto d'amore,

I'vo' con voi della mia donna dire;

e tale fu il cominciamento di questa prima Canzone, nella quale trattando dei pregi e delle virtù della sua Beatrice, crede conveniente parlare a donne in seconda persona, non a tutte però, ma alle pure e gentili. La Canzone è piena di sentimento e di naturalezza, e sebbene sia la prima che fosse dal'Alighieri dettata, non manca di quei tratti che palesano un genio sovrano e creatore. St. I, v. 5. Pensare è adoprato qui da

Dante siccome verbo attivo. Si trova ancora
aver egli detto altrove:

Mentre io pensava la mia frale vita.
Canz. II, St. III.
E spesse fiate pensando la morte.
Canz. III,

St. Iv.

Ivi, v. 10-14. Per questi versi vedi ciò che abbiamo detto in nota alla pag. LXI.

St. IV, v. 5. Color di perla quasi informa ec. Intendi: Ella ha il volto di un co

pallido, quale si conviene avere a donna gentile, non però fuor di misura. « In sulla fine della Vita Nuova dice Dante ancor più chiaramente, che il volto della sua Beatrice era di un color pallido, o, come si direbbe da un moderno galante, sentimentale. Ovunque questa donna (la donna di cui incominciò ad innamorarsi dopo la morte di Beatrice) mi vedea, si facea d'una vista pietosa e d'un color pallido: onde molte fiate mi ricordava della mia prima nobilissima donna Beatrice, che di simile colore mi si mostrava.

CANZONE II.

Donna pietosa e di novella etade.

Questa Canzone è certamente dell' Alighieri, perchè non solamente vedesi da esso citata come sua nel Volgare Eloquio Lib. II, Cap. XI, ma perchè trovasi riportata per intero nella Vita Nuova. Le varianti son trat

te dall'edizioni e dai Codici alla Canzone I nominati.

Una donna pietosa e di giovane età ( era costei consanguinea di Dante ) adorna assai di umane gentilezze, si trovava presso al letto, dove Dante stava ritenuto da grave infermità, e donde egli spesso invocava la

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