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tato quindicesimo volea dunque l'Alighieri | la Virtù (facendo cioè alcun atto di geneporre e comentare la presente Canzone, il cui subbietto si è parlare acremente contro gli avari, ed in cui rincontrasi accennato il motivo pel quale si caro costa quello che si priega:

Qual con tardare, e qual con vana vista,
Qual con sembianza trista,

Volge il donare in vender tanto caro,
Quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir, s'è piaga?
Tanto chi prende smaga,

Che'l negar poscia non gli pare amaro;
Cosi altrui e sè concia l'avaro.

St. VI.

St. I, v. 7. Amore. Quest' Amore non è il faretrato Cupido, che aveva sua reggia in Tespi, ma quell' Amore celeste, che fa soggiorno, come dice il poeta nella St. II, nella beata Corte.

Ivi, v. 14. Ed a costui, cioè ad Amore. Ivi v. 17, Poichè non è virtù, ch' era suo segno. Intendi: Poichè la bellezza non può essere per sè stessa una virtù, la quale peraltro si aveva in mira da Amore, quando, o Donne, eravate da esso formate si belle.

St, II. v. 6. al suo fattor, cioè all'Amore celeste,

St. III, v. 1, 2. Servo non di Signor, ma di vil servo, cioè del vizio, si fa quei che si scosta da cotal Signore, cioè dall' Amore della virtù.

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St. IV, v. 6 9. Corre l'avaro, ma più fugge pace col numero che ognora a passar bada. Nel Convito Tratt, III, Cap. XV, troviamo la dichiarazione di questo passo: E in questo errore cade l'avaro maledetto, e non s'accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere.

Ivi, v. 10. Che infinito vaneggia, cioè che vaneggiando s'imagina poter diventare grandissimo, infinito.

Ivi, v. 11. a colui che ne pareggia, cioè alla morte che mette alla pari poveri e ricchi.

Ivi, v. 18. Che non si perde al cane, imperciocchè il cane presta pure alcun utile servigio all'uomo.

St. V, v. 12. io son presa, cioè sopraffatta, la ragione.

St. VI, v. 6-17. Intendi: Poichè la virtù (quella virtù ch'è opposta al vizio dell'Avarizia, cioè la Generosità) si è aggirata d'intorno all' Avaro, invitandolo replicatamente a venirle dappresso, ella, cui tanto cale l'emenda del vizioso, gitta il pasto verso di lui, « cioè espone a lui i suoi filosofici argomenti; ma quegli, immerso nel fango, non vuole aprire le ali della sua mente. E se talvolta si piega « alle persuasioni di quel

rosità), » quando ella poi è partita (fatto cioè ch'egli abbia quell' atto generoso), tanto par che gl' incresca, quanto non può far si che non esca lode alcuna del fatto benefizio. Io voglio (prosegue il Poeta) che mi oda ciascuno: Chi con tardanza, chi con atto vanitoso, chi con rincrescevol sembianza volge il dono in vendita tanto costosa, quanto sa solo chi è costretto a pagare un simile acquisto, cioè quanto sa solo chi è costretto a ricevere un benefizio porto in simil guisa! A questo passo di Dante si conformo il Boccaccio, dicendo (Gior. 10, Nov. 9): « le quali (cortesie) molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, si mal far le sanno, che prima le fanno assai più comperare che non vagliono ». Dante poi avea detto nella Commedia, che il pane altrui sa di sale.

St. ult. In nissuna delle edizioni questa Stanza si trova, cosicché la Canzone è stata sempre stampata senza il Commiato. A simil difetto ho potuto supplire coll' aiuto del Codice Martelli.

CANZONE XVII.

Tre donne intorno al cuor mi son venute.

Questa Canzone è un perfetto modello di filosofia morale, si che quand' anche non avessimo altri dati che il sommo suo pregio e l'autorità dell' Edizione Giuntina, che col nome di Dante la stampò a c. 44 retro, potremmo locarla nel Canzoniere di lui. Ma già nissuna delle edizioni omise di riportarla; molti Codici, siccome quello Martelli, varii de' Riccardiani, e i due de' Laurenziani a pag. CXCVIII, a Dante l'attribuiscono, ed uomini dottissimi, siccome Dionisi, Ginguéné, Perticari ed altri, la tennero incontrastabilmente per lavoro Dantesco. Finalmente ad esuberanza di argomenti riporteremo, che di essa fa parole Leonardo Bruni nella Vita di Dante, e che ad essa, e precisamente ai seguen¬ ti versi della St. III.

Soyra la vergin onda

Generai io costei che m'è da lato,
E che s'asciuga con la treccia bionda;
Questo mio bel portato

Mirando se nella chiara fontana

Generò quella che m'è più lontana,

fa allusione nel suo Poema intitolato l'Acerba quell' ardito dispregiatore di Dante, e suo contemporaneo, Francesco Stabili, detto Cecco d' Ascoli, laddove parlando della Nobiltà va ironicamente in tal guisa dicendo (lib. III, cap. 10):

Ma qui mi scrisse dubitando Tante:
Son duoi figliuoli nati in uno parto,
E'l più gentil si mostra quel d'avante,

DI P. 1. FRATICELLI

E ciò e converso come tu già vedi:
Torno a Ravenna, e di lì non me parto;
Dimme, Ascolano, quel che tu ne credi.
Rescrissi a Dante, intendi tu che leggi, ec.

Le quali frasi, se per una parte confermano ad evidenza l'autenticità della Canzone, porgono argomento per l'altra a dedurné ch'essa sia stata dettata dall' Alighieri negli ultimi anni della sua vita, quand' ei trovavasi presso Guido Polentano in Ravenna.

St. I, v. ult. quel ch' io dico, cioè quell'Amore che ho nominato di sopra. Non intendasi però l'Amore carnale, ma l'Amore della Virtu,

St. II, v. 6. man tiene. Tutte le edizioni hanno erroneamente mantiene.

Ivi, v. 13. O di pochi vivanda. Così dice la Réttitudine ad Amore, perché dell'Amore della virtù pochi si cibano.

Ivi, v. 17. suora alla tua madre, cioè sorella della Giustizia, la quale è madre dell'Amor della virtù.

St. III, v. 10. Di fonte nasce Nilo picciol fiume, cioè a dire il Nilo ha origiue da una fonte, e così nasce picciolo fiume, sebbene nel suo corso diventi poscia grandissimo.

Ivi, v. 11, 12. Ivi, dove le frondi dei salici tolgono alla terra la gran luce del Sole ec.

Ivi, v. 17. nella chiara fontana, cioè in quella chiara fonte, che dà origine al Nilo, è che ha nominata di sopra.

St. IV, v. 6. drizzate i colli, cioè alzate le fronti. Così nel Par. II, v. 40:

Voi altri pochi che drizzaste il collo Per tempo al pan degli Angeli. Ivi, v. ult. Che questo dardo farà star lucente. Ecco la solita speranza dell' Alighieri. Egli si lusinga che pur verrà gente, la quale ritornerà lucenti gli oscurati dardi delle derelitte Virtù.

St. V, v. 6. che il mondo versi i bianchi fiori in persi, cioè che il mondo cangi in neri i fiori bianchi, vale a dire, che il mondo perseguiti siccome rei gli uomini giusti

e virtuosi.

CANZONE XVIII.

Io miro i crespi e gli biondi capegli. Questa Canzone non è di Dante. In essa non riscontrasi il solito stile elevato, sentenzioso e conciso, siccome in tutte le altre

(1) La Canzone, da cui il Sign. Prof. Ab. Melchior Missirini trae principale argomento per delineare il ritratto di Beatrice, e dedurne quindi l'identità con quello ch' ei possiede in una dipinta Tavola antica, è appunto questa che noi rifiutiamo. Quindi, (senza per al

in

che sono di lui. In essa si parla della don-
na, di cui mostrasi innamorato il poeta,
un modo minuzioso e prolisso, che non è il
proprio di Dante:

Poi guardo l'amorosa e bella bocca,
La spaciosa fronte e'l vago piglio,
Li bianchi denti, e'l dritto naso el ciglio
Polito e brun, talchè dipinto pare.

Poi guardo la sua svelta e bianca gola,
Commessa ben dalle spalle e dal petto,
E il mento tondo, fesso e piccioletto.

Poi guardo i bracci suoi distesi e grossi,
La bianca mano, morbida e pulita,
Guardo le lunghe e sottilette dita.

E nonostantechè ai tempi dell' Alighieri il
gusto non fosse ancora formato, pure quel
paragonare la sua donna ad un pavone,
una gru,

ad

Soave a guisa va di un bel pavone, Diritta sopra sè come una grua, pone viepiù in dubbio che la Canzone possa essere di quel sommo poeta, il quale fu il padre della maschia e grave poesia italiana, ed il quale parlò sempre di Beatrice in un modo gentile sì, ma dignitoso. Infatti nella Proposta alla voce induare ci dice il Monti che questa Canzone ha tutta l'aria dello stile di Fazio, a cui realmente un rarissimo Codice, posseduto dal Perticari, la restituisce.

Col nome di Dante Alighieri non ritrovasi in alcuno dei tanti Codici da noi veduti; col nome di lui non ritrovasi nell' edizione Giuntina, ma sivvero a c. 122 retro con quello d'incerto. Su quale autorità la potremmo adunque creder di Dante, quando nissun Codice a Dante l'attribuisce, quando lo stile esclude la possibilità che a Dante appartenga, quando l'edizione principale e la più sicura a Dante la nega? Vero è che col nome del nostro poeta vedesi stampata nella veneta edizione delle Rime antiche del 1518, sulla cui sola autorità la riprodussero poscia il Pasquali, lo Zatta ed altri; ma questa edizione pei tanti suoi strafalcioni e inesattezze non merita alcuna o ben picciola fede. Quindi si ritenga, che la Canzone è spuria (1).

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la al medesimo non avremmo che la sola au- dell'esilio (volontario o coatto che fosse) del torità della veneta, non molto sicura, edi- Cantor di Madonna Selvaggia. Ma non apparzione delle Rime antiche del 1518, sulla cui tiene a noi il pronunziar su di ciò definitifede la riprodussero il Pasquali, lo Zatta e va sentenza: basta solo il poter dire che la i successivi editori. Non l'abbiamo rinvenu- Canzone, non avendo dato nessuno per supta in nessuno dei tanti Codici, da noi esa-porla di Dante, debbesi escludere dal Canminati, contenenti le Rime liriche di Dante, zoniere di lui.

nè col nome di Dante l'abbiam riscontrata nella Giuntina edizione del 1527, ma sivvero con quello d' incerto (c. 118 retro). Niccolò Pilli fino dal 1559 l' avea collocata fra le Poesie di Cino Pistoiese, del quale egli mise in ordine e pubblicò il Canzoniere; e il Prof. Sebastiano Ciampi la riprodusse nella sua più compiuta edizione del 1813: l'uno e l'altro editore si appoggiarono all'autorità di vari Codici.

CANZONE XX.
Perchè nel tempo rio.

CANZONE XXI.

Dacchè ti piace, Amore, ch'io ritorni.
CANZONE XXII.

L'uom che conosce è degno ch'aggia ardire.
CANZONE XXIII.

L'alta speranza che mi reca Amore.
Queste quattro Canzoni non sono di Dan-

Se le ragioni sovraccennate non bastasse-te, ma sivvero di Cino da Pistoia. Furono ro a far conoscere, che manchiamo di dati sicuri od almeno probabili per attribuir la Canzone all' Alighieri, aggiungeremo che nella Raccolta de' Poeti del primo secolo della Raccolta italiana (Vol. I, pag. 96, Firenze 1816), ov'è riportata questa Canzone, si dà la notizia che l'antico Codice Vaticano 4823, il quale s'intitola ricopiato dall' antichissimo 3793, l'assegna a Guido Guinicelli. Inoltre collo stesso nome di Guido Guinicelli si legge nella Raccolta di Rime antiche toscane stampata a Palermo nel 1817, Vol. I, pag. 410.

all' Alighieri malamente attribuite dall' inesatta edizione veneta del 1518: i Giunti per altro nella loro edizione del 1527 eliminarono dal Canzoniere di Dante questi illegittimi componimenti, e si contentarono di stainparli sotto il nome d'incerto autore in fine della loro Raccolta, il primo a c. 127, il secondo a c. 117, il terzo a c. 124, il quarto a c. 121. Di oltre venti Codici, da noi esaminati, nissuno porta pur una di queste quattro Canzoni col nome di Dante Alighieri, mentre in vari Codici fiorentini le veggiamo con quello di Cino. Fra le poesie infatti di La Canzone non appartenendo a Dante, questo Giureconsulto Poeta le stamparono il resterebbe a vedersi a chi degli altri due, Pilli e il Prof. Ciampi sull' autorità di più od a Guido od a Cino appartenesse. Sebbe- Codici. II Cod. Bossi, il Cod. Bembo, il Cod. ne il suo merito non agguagli quello delle Medici, ora nella Trivulziana, ( dei quali dà Canzoni Dantesche, pure non gli cede d'as- ragguaglio il Prof. Ciampi nella sua edizione sai. È dettata in uno stile terso e polito; gli del 1813) le attribuiscono altresì al medeaffetti vi sono assai ben maneggiati cosic-simo Pistoiese Poeta. Il Corbinelli nella Belche Guido Guinicelli bolognese, il quale, la Mano, il Trissino nella Poetica, il Quaper testimonianza dell' istesso Dante e di al- drio nella Storia della volgar Poesia, le citri, fu principe de' poeti dell' età sua (cioè del 1220), ed il quale colle sue dolci e leggiadre Rime d'amore procurò l'avviamento del lustro dell' italica lingua e poesia, potrebb' esser pur troppo l'autore di essa. Ma queste medesime ragioui militano d'altronde per farne credere autore pur anche l'amico di Dante, cioè Cino dà Pistoia. Che anzi paragonato lo stile a quel dell'uno e a quel dell' altro, io vedo maggior conformità collo stile del Pistoiese, che collo stile del Bolognese; ed in tale opinione più fortemente mi fondo, in quanto che i versi della Stan

za II,

tano pur essi non come di Dante, ma come di Cino. Finalmente lo stile loro più verboso di quello delle Canzoni Dantesche, e i confronti paralleli che noi abbiam fatti, e che ciascuno, volendo, può fare da sè, ne certificano, che non a Dante appartengono, ma sivvero al di lui grande amico, a Cin da Pistoia.

In proposito della Canz. XXII L'uom che conosce dobbiamo aggiungere un'osservazione, ed è questa: che Dante siccome poeta di sommo accorgimento, fu parchissimo nell'uso della Rimalmezzo; e dove ei l'adoprò, lo fece con grandissima grazia, come può vedersi nella Canz. V Morte poich'io non trovo e nella Canz. XV Posciach' amor. Ma Cino, prendendo in questo ad imitare Guido Cavalcanti e Guido dalle Colonne, scrisse più Canzoni, nelle quali fece sfoggio di simile rima intermedia. Ora la Canzone L'uom che conosce anche per questo lato sente più delsembrano accennare le dolorose circostanze la maniera di Cino, che di quella di Dante,

S'io fossi là dond' io mi son partito
Dolente sbigottito,

e gli altri del Commiato,

Com' io non spero mai

Di più vederla anzi la mia finita,

imperciocchè le Stanze della medesima sono | aspri monti dell' Appennino, lo che certamencosì architettate:

Perchè mai non avea veduto Amore,
Cui non conosce il core,-se nol sente,
Che pare propriamente una salute,
Per la vertute, della qual si cria;
Poscia a ferir va via-come un dardo
Ratto, che si congiunge al dolce sguardo.
CANZONE XXIV.

Oimè lasso, quelle treccie bionde.

Tutte le medesime ragioni, or ora allegate per provare l'illegittimità delle quattro Canzoni antecedenti, militano egualmente per questa; vale a dire, che fu pur questa malamente attribuita a Dante dalla poco accurata edizion veneziana del 1518, e che i Giunti saviamente la rifiutarono, limitandosi a ristamparla in fine della loro Raccolta a c. 128 col nome d'incerto autore; che col nome di Dante non trovasi nei molti Codici da noi veduti, mentre che in altri stà col nome di Cino; che il Pilli e il Prof. Ciampi appoggiati a buone autorità la produssero siccome del Pistoiese Poeta, e che qual componimento di Cino, e non già dell' Alighieri, la citano il Trissino, il Quadrio ed altri; che lo stile passionato sì, ma verboso, ne persuade appartenere al Cantor di Selvaggia, mentre che niun dato, niun argomento abbiamo per supporla del Cantor di Beatrice, perciocchè sulla mal sicura fede della veneta rammentata edizione la riprodussero il Pasquali e lo Zatta con altri.

te non accadde di Beatrice, perchè morta in Firenze, nè per quanto sappiamo, della lucchese Gentucca?

Ohime! vasel compiuto

Di ben sopra natura,

Condotto fosti suso gli aspri monti,
Dove t'ha chiuso ohimè! fra duri sassi
La Morte. . . . .
St. II.

Qual senso pertanto più naturale e più vero possiamo dare a queste parole, se non che il poeta parli della morte di Selvaggia, accaduta nel tempo della ritirata sua col padre in montagna? Ad esuberanza di argomenti faremo osservare, che il ritratto della sua donna, fatto qui dal poeta, è pienamente conforme a quello di Madonna Selvaggia, fatto altrove da Cino. Nel Sonetto CLIV ei dice così:

Treccie conformi al più raro metallo,
Fronte spaciosa e tinta in fresca neve,
Ciglia disgiunte tenuette e breve,
Occhi di carbon spento e di cristallo;
Gote vermiglie, e fra loro intervallo
Naso non molto concavato e leve,

Denti di perla e parlar saggio e greve,
Labri non molto gonfi e di corallo;
Mento di picciol spazio e non disteso,
Gola decente al più caro monile,
Petto da due bei pomi risospeso;
Braccia tonde, man candida e sottile,
Corpo non già da tutti ben inteso,

Son le bellezze di Selva gentile. Nella presente Canzone va poi delineando l'immagine della stessa donna coi tratti medesimi: ei va piangendo le treccie conformi al metallo il più raro:

Ma a togliere ogni scrupolo che nei più
dubbiosi potesse tuttavia restare, basterà il
dire che la donna della quale qui si piange
la perdita, si è Selvaggia Vergiolesi, l'amo-
rosa di Cino. Che questa donzella facesse non
breve dimora alla Sambuca (Castello pian-
tato sugli aspri monti dell' Appennino nella
Pistoiese Provincia, nel quale erasi rifuggito
per le cittadinesche fazioni il di lei padre va
Filippo), e che ella poi vi morisse, lo dicono
gli scrittori della vita di Cino, lo dice lo sto-
rico Pandolfo Arfaroli, lo dice finalmente lo
stesso Cino nelle sue poesie:

Com'io passai per il monte Appennino,
Ove pianger mi fece il bel sembiante,
Le treccie bionde, e'l dolce sguardo fino,
Ch'Amor con la sua man mi pose avante.
Cino, Son. LXXIX.

To fui 'n sull'alto e'n sul beato monte,
Ove adorai baciando il santo sasso,
E caddi 'n su la pietra ohimè lasso!
Ove l'onesta pose la sua fronte.

Cino, Son. LXXV.

Ora, la donna, della quale nella presente Canzone si deplora la perdita, non si dice forse con vocaboli chiari e precisi morta in sugli

Oime! lasso! quelle treccie bionde,
Dalle quali rilucieno

D'aureo color li poggi d'ogni intorno;
piangendo le gote vermiglie:

Oimè! 1 fresco ed adorno
E rilucente viso;

(lo che non potea dirsi di Beatrice, la quale avea, siccome rilevammo, un color pallido, un colore di perla); va piangendo i candidi denti e i labbri di corallo:

la bianca neve Fra le rose vermiglie d'ogni tempo, ec. Non si voglia dunque più togliere a Cino la presente Canzone per darla a Dante, cui non appartiene per certo.

CANZONE XXV.

Non spero che giammai per mia salute.

Nelle antiche stampe delle Rime di Dante non si rinviene la presente Canzone. Col

nome di lui fu stampata nell' edizione di Ro- | bio sulla sua originalità (1). Cotanto l'Alighieri vetta 1823, nella quale si dà la notizia che si compiacque di questa sua filosofica Canfu tratta dal Cod. 7767 della R. Biblioteca zone, che volle rammentarla nel Paradiso, di Parigi. Conforme a quel testo, che pre- Canto VIII, v. 37. A maggiore intelligenza senta una lezione oltremodo lacera e guasta, della medesima si potrà leggere il Trattato fu riprodotta nell' ultima edizion fiorentina II. del Convito. 1830: noi però l'abbiamo alquanto rettificata coll'aiuto di altre anteriori edizioni, sconosciute all' editor fiorentino.

St. I, v. 1. Voi che intendendo, cioè Voi angeliche intelligenze, che ec.

condizione.

St. II, v. 2. Un soave pensiero, cioè il dilettoso pensiero di Beatrice, il quale mi portava a contemplare il regno de' Beati, ove si trova in gloria quella mia prima doma.

Ivi, v. 6. l'anima dicea: i' men vo' gire, cioè me ne voglio andare ove se ne gia il soave pensiero, di cui ha parlato di sopra.

Ivi, v. 7. Ora apparisce chi lo fa fuggire. Intendi: Ora apparisce il pensiero del filosofico amore intellettuale, il quale fa fuggire il primo dilettoso pensiero dell' amor sensuale.

La Canzone non è di Dante. Non solo non Ivi, v. 4. Il ciel che segue ec. Intendi: ritrovasi nelle antiche edizioni delle Rime Il cielo che gira per vostra virtù, (ch'è quelDantesche, non nelle più recenti del Pasqua-lo di Venere), mi ha tratto nella presente li, dello Zatta, del Caranenti, ma neppure nei tanti Codici che noi abbiamo esaminati. Se chi ordinò l'edizione Rovettana e la Fiorentina avesse gettato l'occhio almeno sull'edizione delle Rime di Cino da Pistoia, procurata dal Professor Sebastiano Ciampi in Pisa nel 1813; se avesse consultata almeno la Raccolta dei Poeti del primo secolo, Firenze 1816, e la Raccolta delle Rime antiche toscane, Palermo 1817, non sarebbe caduto nel grave abbaglio di reputare inedito e di Dante quello che già era edito e di Cino. E di Cino infatti dobbiamo dirla, non solamente perchè trovasi in tutte le edizioni del Canzoniere di lui; non solamente perchè vedesi siccome di Cino citata dal Trissino e dal Quadrio; non solamente perchè per lo stile apparisce essere del pistoiese poeta; ma perchè questa Canzone (nonostantechè nella Raccolta di Firenze 1816 sunnominata (Vol. I, pag. 154) e nell'altra di Palermo 1817 (Vol. I, pag. 288) stia col nome di Noffo d'Oltrarno), ma perchè, io diceva, da Dante Alighieri, da quell' istesso poeta, cui fu senza niun dato probabile attribuita, vedesi citata nella Volgare Eloquenza (lib. II, cap. V) non già come sua, ma come di altri, e precisa mente come di Cino da Pistoia.

Ivi, v. 10. Questi mi face una donna guardare. Intendi: Questo nuovo pensiero mi fa guardare una donna, e quest' era la Filosofia, ec.

Ivi, v. 12. gli occhi d'esta donna, cioè le dimostrazioni d'essa Filosofia.

Ivi, v. ult. S' egli non teme angoscia di sospiri, Intendi: Se non teme fatica di studio.

St. III, v. 6. Questo pietoso, cioè quel primo pietoso pensiero che avea consolato l'anima del poeta dolente per la partita di Beatrice.

Ivi, v. S. che tal donna gli vide? cioè che gli occhi di tal donna incontrarono i

miei?

Se l'istesso Dante ne certifica, che la Can- Ivi, v. 11. gli miei pari. Col Cod. Pal. zone è di Cino, resterà dunque inutile un al-e con altri leggo piuttosto le mie pari, pertro argomento, che potrebbe dedursi dall'av- chè è l'anima che parla. E la dov' e' dice vertenza intorno la Rimalmezzo, fatta già per le mie pari, s'intende le anime libere dalle la Canzone XXII qui innanzi, e che potrebbe miserie e vili dilettazioni e dalli volgari cofarsi pure per questa, perciocchè qui pure è stumi, d'ingegno e di memoria dotate. (Dansfoggio di rime intermedie. te, Convito, Tratt. II, cap. XVI).

CANZONE XXVI.

St. IV, v. 3. uno spiritel d'amor gentile, cioè un pensiero che nasce dallo studio filosofico.

Voi ch'intendendo, il terzo ciel movete. La presente Canzone è la prima di quelle St. V, v. 2. tua ragione, cioè tuo ragioriportate da Dante e comentate nel suo Con-namento, tua sentenza. vito: laonde non può esservi il minimo dub

(1) Per provare l'originalità di questa e di alcun'altra Canzone, l' Arrivabene (p. CCXX) ricorre all'autorità o del Petrarca o del Tasso del Trissino ec. Ma a che serve qui l'autorità di questi Personaggi quando abbiamo l'autorità dell'istesso Alighieri? Può affacciarsi forse alcun dubbio sulla sua autenticità, quando Dante istesso ci manifesta esser queste o

Ivi, v. 3. forte, cioè oscura. Così nel

pera sua, quando egli ce ne dichiara tutti i sensi più ascosi, tutte le allegorie le più oscure? Non per quelle Canzoni, la cui legittimità era certissima, ma per quelle più particolarmente, le quali erano e dubbie ed incerte, dovea l' Arrivabene impiegar le sue indagini e le sue critiche analisi.

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