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relazioni fra uomo e uomo e fra gente e gente si fan più gioconde e amichevoli, man mano insomma che la guerra ed il travaglio spariscono dall'arena della vita esteriore, cresce, quasi a compenso, il dissidio dentro di noi, e la pace par che sia sbandita per sempre dagli animi nostri turbati e sconvolti per tanto incorrere d'idee repugnanti e d'inconciliabili affetti. Prendete due termini estremi paragonate Achille ad Amleto. L'uno tutto azione di fuori, l'altro tutto azione di dentro; l'uno tutto conseguente e immediato, l'altro che continuamente si frange nella burrasca della propria coscienza; l'uno fatto tutto d'un pezzo, l'altro formato, se così mi lasciate dire, di un infinito numero di cicli e di epicicli imposti gli uni sugli altri; l'uno è un eroe, l'altro è un pensatore e un fantastico. La poesia, ho detto, è un immediato efflusso dell'anima nostra; qual maraviglia dunque s'ella, che già si compiacque di narrare le pugne della vita esteriore, quando l'anima umana era tutta riversata di fuori, si compiace di narrare ora, poichè la coscienza s'è come accentrata, queste pugne silenziose e intestine? Se con tanta cura e tanta sollecitudine raccoglie tutte le voci più secrete dell' anima nostra? Se con tanto amore si ravvolge per i mille intricatissimi aggiramenti della nostra coscienza, dove, popolo vario e affaccendato, s'urtano e si riurtano fantasmi infiniti d'ogni generazione? Ella cantò l'angelico e il satanico della nostra natura, e si fermò, interrogatrice ostinata, davanti a quell' ultime

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porte chiuse di essa, dove sguardo curioso non è potuto ancor penetrare. E creò strane e spaventose figure d'uomini, sfingi viventi, la cui anima è come uno spiraglio aperto nell'infinito, e in cui, non senza raccapriccio, ognuno, per qualche parte, si specchia. Dopo molti anni passati, io non posso ancora senza terrore rappresentarmi quel Lara del Byron, che a tarda notte passeggia insonne e solitario, nelle lunghe logge vetriate del suo castello. Di marmo è il suo volto ; i suoi passi cadono in misurata cadenza sul pavimento; dentro immani pensieri gli arrapinano l'anima, a'quali non può dar forma il comune linguaggio degli uomini.

A questa poesia fu dato il nome di psicologica, e voi vedete com'essa ha penetrato il romanzo ed il dramma. Amleto, Fausto, Werther, Manfredo, Rolla, Armando, e finalmente il Nerone dell'Hamerling son sue creazioni, e non sarebbe studio gettato quello di chi prendesse a confrontar tra loro queste bieche e dolorose figure per vedere che cosa sia in esse di comune, che ne fa quasi una sola famiglia, e che cosa siavi in pari tempo di personale e di diverso. Tutte rappresentano da una qualche parte le lotta intestina della coscienza e del pensiero. Amleto è il primo della serie, e, per anticipazione mirabile, precede di gran tratto tutti gli altri. Egli rappresenta il dissidio della ragione e del sentimento, e il travaglio d'un'anima che presa in mezzo da contrarie potenze smarrisce la facoltà del volere, di

cui si generan l'opere; la ragione è per giunta scissa in lui dal contrasto della vita con l'idealità morale dell'idea del bene che troviam nella nostra coscienza, col fatto del male che, ad ogni passo, troviamo nel mondo. Di qui quel suo angoscioso rampollar di pensieri sopra pensieri. Fausto è tutt'altro: egli rappresenta il travaglio che nasce dalla inadeguabile sproporzione ch'è in noi fra il desiderio da una parte e la potenza di soddisfarlo dall'altra; fra il desiderio che non conosce termini di spazio, nè di tempo, nè di natura, e il potere che così angustamente è limitato dalla condizione del nostro viver terreno. Egli consunse la vita nello studio non per altro che per arrivare a conoscere un giorno tutta la profondità della sua ignoranza; egli ha potenza di proporsi il formidabile problema delle cose, e non ha potenza di sollevar nemmeno un lembo del fitto vel che lo copre; egli si sente dentro una divina facoltà di volere, e questo volere, per sè stesso, non vale a muovere un fuscellino da terra. Un beveraggio infernale gli ridà la giovinezza, quella giovinezza dalla cui condizione, prima ancor che con gli anni, ei s'era con lo spirito allontanato. Fausto stanco e disilluso torna sulla sua via, dov'altra stanchezza ed altre disillusioni lo attendono; così ciascuno di noi, dopo aver corso un tratto questa carriera dolorosa della vita, dopo aver con angoscia e con sudore superata la via che conduce allo scopo, dopo essersi lungamente apparecchiato a godere un premio che non verrà, si

volge disiosamente agli anni fuggiti, e con la fantasia, non potendo altrimenti, si ritorna bambino.

Werther rappresenta la lotta fra la passione e il dovere, e in questa lotta egli stesso soccombe, non già l'una o l'altra delle potenze contrastanti. In Manfredo troviamo il rimorso, e il dissidio della coscienza e della fantasia; in Rolla il dissidio che nasce dalla impotenza di coordinarsi a nessuna interna od esterna legge. Armando è lo sfacelo di tutte le virtù dello spirito; Nerone il trascorrer disordinato di uno spirito in cui l'una dopo l'altra tutte le potenze divengon predominanti, e che non riesce a fermarsi in nessuno stabile equilibrio. Nerone è l'eroe dell'uggia e del fastidio, morbo perniciosissimo di questi tempi: il poeta nello sceglierlo a protagonista, dice di volerci cantare un poema della sazietà e della soprassazietà. E' dice una cosa che molti scrittori di romanzi e di drammi fanno tuttodì, senz'altrimenti avvertirne i lettori od il pubblico. Più d'una voce s'è alzata contro la tendenza che i letterati hanno universalmente oggimai a cercare nel trambusto delle violente e snaturate passioni, nei travolgimenti e nelle gazzarre del vizio, nell'amaro tripudio della colpa, gli argomenti che valgano a scuotere e ad agitare le neghittose anime nostre, e più e più libri mostruosi vedeste nascere, frutto di così fatta tendenza, ai quali ne giova che non manchi almeno la esecrazion degli onesti. Ma la colpa s'ha ella a dar tutta ai loro autori? Non è ella anco nostra in gran

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parte? Sono i libri come le piante che si nutron degli elementi che trovano nella terra, e un pessimo libro che si legga è sempre l'opra di molti, sebbene un solo v'apponga il nome. Se non che mal s'avviserebbe chi dalla sconcezza e dalla ferità di una letteratura troppo corrente a questi giorni volesse trarre argomento a giudicare del costume e della pubblica morale. Il libro sconcio e il libro tristo non son fatti veramente il più delle volte per dar pascolo adatto e gradevole ad anime disoneste o maligne, ma bensì per iscuotere in qualche modo anime intorpidite e indurate, e questo può recare qualche scusa così a coloro che li scrivono come a color che li leggono.

L'altro obietto della poesia è la natura, la natura a cui le necessità del viver nostro indissolubilmente ci legano e a cui noi più ci leghiamo, con riversar su di lei continuamente i pensieri e i sentimenti nostri. Si suol dire che noi moderni abbiamo della natura un più vivo ed intimo sentimento che non avessero gli antichi, e di questo più vivo ed intimo sentimento si suol fare anche un carattere distintivo fra molti altri della nostra poesia per rispetto alla poesia dell'antichità. Che v'ha egli di vero in questa opinione, e in che termini s'ha ella da contenere? Imperocchè se alcuno volesse dire che gli antichi non fossero capaci di commozione allo spettacolo delle cose naturali, e' farebbe un giudizio evidentemente falso ed assurdo. Basta aprire i volumi di que' primi poeti per vedere anzi

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