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e però egli non intende l'opera della civiltà, che agli occhi suoi altro non è che un vano e puerile travaglio, e volendola considerare dal solo punto di veduta dell'eudemonismo, non intende quanto sia grande e maraviglioso questo secolare lavoro dell'uomo, che disdegnandosi quasi della sua condizion di creatura operata, si sforza di rifarsi in qualche modo con le mani sue proprie, e d'essere in qualche parte il proprio generatore. L'altre creature, il bruto e la pianta, s'appagano del modo come natura li fece, del posto ch'ella loro assegnò; l'uomo non se n'appaga, ma si trasforma, e n'esce con trionfali fatiche, e s'afferma a sua volta operatore e creatore. In questa tracotanza e in questo orgoglio addimostra l'uomo la sua eccellenza e la sua nobiltà.

Come questo sentimento del dolore, procedendo oltre, e poi consumandosi nel proprio tormento e nella propria amarezza, possa risolversi in una specie di attonita pace, in una tranquillità stemperata e figurata come di sogni fuggenti, in alcun che di simile a quel nirvana, a cui, là, sulle rive del Gange, anela il meditabondo seguace del Budda, lo stesso Leopardi ve ne può porgere esempio. E lasciate che a tal proposito io vi ripeta que' pochi versi a cui egli pose titolo l'Infinito:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio;

E il naufragar m'è dolce in questo mare.

E quegli altri più notevoli ancora della Vita Solitaria:

Talor m'assido in solitaria parte,

Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento;
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lungi odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete ;

Ond'io quasi me stesso e il mondo obblío
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica

Co' silenzi del loco si confonda.

Tali essendo, quali io mi sono argomentato di venir mostrando, i caratteri della poesia a' giorni nostri, non poteva fare che de' generi poetici uno non ve

ne fosse più degli altri acconcio a riceverlo. Lo spirito poetico nostro è essenzialmente subbiettivo, e questa è la ragione perchè la musica, di tutte le arti la più subbiettiva, ed anche sino a un certo punto la più perfetta, per l'intima fusione del contenuto e della forma, ricevette in questo tempo si mirabili e nuovi ampliamenti. Ora il genere lirico era, come ognun vede, il più proprio e il più acconcio a ricevere dentro di sè uno spirito così fatto. Più e più volte voi avrete udito mover lamento a taluni di questa presente preponderanza della lirica, e lagnarsi dello abbandono in cui l'epica giace, e dire che una si fatta condizione di cose è chiaro argomento di poetica decadenza. Decadenza? e perchè? S'ei dicessero mutazione, direbbero cosa più giusta e più vera. Certo, fin che sia per durare questo stato presente degli spiriti, il mondo non vedrà più nascere nessuna grande epopea; più non si ripeterà il canto d'Omero, nè avran nuovi compagni i cicli epici del medio evo. Ma non per questo s'ha da accusar d'impotenza lo spirito moderno; le sue forze son anzi cresciute, e a convincersene basta vedere com'esso sia fatto capace d'intendere le cose per tempi e per carattere più remote; ma son mutati i suoi intendimenti, ma egli ha preso per rispetto alle cose una situazione nuova. L'epica è la poesia de' tempi primitivi e di barbarie, de' popoli giovani, o rinascenti, dopo alcun grande smarrimento, a vita novella. Però voi trovate l'epopea

nei primordii della nostra storia, e poi novamente nel medio evo, quando gli uomini di una gran parte di mondo ricominciano in qualche maniera la vita daccapo. In que' tempi di rozza semplicità, e di schietto ed ingenuo vivere, la coscienza umana è tutta vòlta alle cose esteriori, di cui con vivacità nativa e mirabile riceve le immagini e le impressioni, mentre i fatti della vita interiore non vi si riflettono se non in modo confuso e superficiale. Il canto poetico piglia naturalmente allora la forma della narrazione, e l'epopea nasce, l'epopea dove trovate il cielo e la terra, le cose naturali e le umane, gli eroi e i loro fatti, ma dove quella che da noi moderni si chiama l'analisi psicologica dell'uomo, non ha se non pochissima parte. Guardate come nelle epopee di origine popolare e spontanea son descritti gl'interiori movimenti dell'anima il poeta ne mostra i segni esteriori ė visibili, un pallor subitano, un aggrottar di ciglio, un atto della persona, e dice del suo eroe come lo sdegno l'agiti, o la pietà lo vinca, e come in quell'aspetto il sentimento si figuri e si manifesti; ma non va più addentro, ma non iscopre l'operar minuto dei pensieri e degli affetti nella sede lor propria, ma non sospetta nemmeno quell'arte mirabile de' moderni, e di cui ora forse alcun poco si abusa, di metter l'anime sotto gli occhi, e di mostrar come palpitin dentro, e come si movano. E ho detto nelle epopee di origine popolare e spontanea, perchè nelle artefatte e letterarie già di

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quell'arte si comincia a scoprir qualche principio, come, per esempio, nella Eneide, e principalmente nel bellissimo episodio di Didone. La lirica, dunque, che nasce come immediata effusione dell'animo, è la natural forma della nostra poesia, e che tale sia veramente, ve lo dimostra, nonchè altro, lo sterminato numero di poeti lirici, e molti eccellenti, che noi abbiamo avuto in questo secolo, e fra tutte le diversissime genti d'Europa. Se non che ella non solamente si è allargata nell'uso, ma si è allargata ancora nella significazione, e ha detto cose a cui prima d'ora non aveva pensato lo spirito umano. Dalla lirica di Pindaro e di Orazio a quella del Byron e dell'Heine qual differenza, e che accrescimenti! E chi sa che questa forma non sia sola destinata a sopravvivere delle tre che conobber gli antichi? Imperocchè anche la tragedia è morta, ed è giusto che sia, dappoichè il tragico s'è dileguato dalla nostra vita; e l'altre forme del dramma voi vedete che si son tanto accostate alla triviale realtà, che la poesia non ha più che fare con esse, come non ha più che fare col romanzo comune.

Un altro lamento voi udrete far di frequente sopra le condizioni in cui è venuta quella che più propriamente si chiama arte dello scrivere. La forma è poco curata oggidì; le lingue si adulterano e si corrompono, lo stile si stempera in una disordinata e negligente esposizione, e i principii di libertà e di democrazia che movono tutta quanta ormai la vita pub

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