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fixe et la mer comme mobile 1). Mais on a un sens tout à fait satisfaisant et une description exacte d'un lever de soleil, si d'umet mar on fait une expression figurée signifiant la mer d'humidité "la mer de vapeurs, et si l'on traduit: le soleil attire (absorbe) la mer de brouillard. Il s'agit du brouillard que la nuit a répandu sur la terre, duquel le spectateur est entouré de toutes parts ou qu'il observe d'une hauteur, et qui est aspiré, pompé par les premiers rayons de l'astre du jour. Dans mon hypothèse, je traduis donc le premier vers ainsi: L'aube paraît: le soleil aspire l'humide mer [de brouillards].

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Pour le second vers, il est traduit ainsi par M. Monaci:

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Après qu'elle (l'aube) passe Vigil, voilà lumière (sur) Tenebras Vigil est le Vigil-Joch près de Meran, Tenebras serait le nom d'une montagne voisine (mais non retrouvé). Mira est un mot rétoroman qui veut dire " voilà, et clar un autre qui signifie "lumière", clarté. Les difficultés sont qu'il faut suppléer "sur, et que Tenebras, qui n'a d'ailleurs pas une allure de nom de montagne, n'a pu être identifié. La version suivante me semble à la fois beaucoup plus simple et beaucoup plus naturelle: Puis il (le soleil) passe le Vigil: voilà les ténèbres clarté (c'est-à-dire: voilà les ténèbres devenues clarté, changées en clarté).

PAUL MARCHOT.

1) Ce ne serait pas la découverte de Galilée avant Galilée, mais une figure poétique.

ROMAN FLAUTARE

L'a. fr. dit flaüter, le prov. flautar, l'esp. flautar, le port. frautar, l'ital. n'a que le substantif flauto, de même que le roumain qui dit flaut m., flaută f. Aucune langue romane ne reporte donc à une forme plus complète que flautare, et c'est celui-ci qu'on est bien obligé de considérer comme le thème.

Impossible, même en admettant que flaüter ait produit les autres formes romanes, de le rattacher d'une façon quelconque à FISTULA FISTULARE, FISTULA donnant en a. fr. le phonétique flestre 1) (en fr. mod. féle, terme de technologie, voir le Dict. génér.). Personne ne croit certainement plus maintenant au *FLATUARE (de FLATUS) de Diez, que dans son Supplément M. Korting semble déjà retirer d'après l'opinion de M. Stürzinger. Un *FLATUTITARE de *FLATUTUM (Horning, Zeitschrift de Groeber, XXII, 484) est forgé pour les besoins de la cause, cf. la critique qu'en fait M. G. Paris dans la Romania, XXVIII, 143.

Considérons donc le thème roman complet flautare. Il se laisse le plus simplement du monde ramener à un primitif *FAUTLARE, qui aurait subi une métathèse banale. Or, *FAUTLARE, chacun le voit, ne peut pas être autre chose que jouer une variation sur la mélodie fa ut la.

1) Rom. de Troie, Godefroy s. v.

Cette dérivation est possible, chronologiquement, le mot flaüter n'apparaissant qu'au XIIe siècle et les noms de la gamme ayant été inventés au commencement du XI. Le plus ancien exemple de flaüter est de 1165 environ: cil fleüte (Erec, dans Godefroy, v. chalemeler), le plus ancien du subst. flaüte est d'un peu après 1170: sonent flaütes et fresteles (Chev. au lion, 2352, éd. Forster) 1).

Il est probable que le mot flaüter se sera dit pour un instrument primitif, le frestel, par exemple, sorte de pipeau, qui, d'après M. A. Schultz (Höfisches Leben, I, p. 557), n'avait que trois trous; flaute aura été créé pour désigner l'instrument légèrement transformé, amélioré par l'addition d'un ou plusieurs trous. D'après Lacroix (Les Arts au moyen âge), "la flûte simple ou à bec, dans le principe, est un tuyau droit, de bois dur et sonore, d'une seule pièce, percé de quatre ou six trous „2).

PAUL MARCHOT.

1) Les exemples du Dict. génér. sont plus récents.

2) On pourrait aussi partir de la combinaison fa la ut, mais la disparition de l'a initial semble être une difficulté.

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

RECENSIONI

GIORGIO ROSSI, L'infanzia di Gesù, poemetto provenzale del sec. XIV ristampato e corredato di una nota critica e di un glossario. In-8° di pp. 107. Bologna, 1899. Zanichelli.

Il testo, che ci sta davanti in nitida edizione, è quello stesso già pubblicato tutt'intero dal Bartsch nei Denkmäler der provenzalischen Literatur, Stuttgart, 1856 (pp. 270-305), libro ormai diventato molto raro, e il prof. Rossi ci fa sapere di averne curata la ristampa per comodo e in servigio degli studenti della facoltà filologica dell'Università di Bologna, dove quest'anno il professore Giosuè Carducci nelle sue lezioni di letterature neolatine intende parlare del poemetto provenzale sull'Infanzia di Gesù nella redazione fatta conoscere dal Bartsch, 1). Di cotesto special fine a cui la novella edizione è indirizzata conviene naturalmente tenere, e terremo, il debito conto nel discorrerne. Ma anzitutto colla franchezza che piace al Carducci, nella cui scuola e sotto la cui guida sapiente e amorosa ci avviammo noi pure agli studj provenzali, ci sia lecito esprimere qualche dubbio sull'opportunità di mettere un testo siffatto nelle mani anche di coloro i quali principiano ad apprendere gli elementi di quella lingua e letteratura. È, come si sa, un poemetto composto nel decadere della poesia provenzale, trascritto nell'estremo nord della Francia, a Tournay, nel 1374, e sotto la penna del trascrittore coloritosi, com'era facile che accadesse, di francese. Anche presenta qualche fenomeno linguistico non de' più comuni, come quello del tramutamento di s in r 2)

1) Il volumetto è uscito, credo, nel marzo; l'avvertenza preliminare dove sono le parole sopra riportate, reca la data del 15 gennaio. 2) Su questo fenomeno fermò per primo l'attenzione P. Meyer nella Romania IV, 184 sgg. raccogliendone gli esempj anche dal poemetto dell'Infanzia, il solo testo poetico e tanto o quanto letterario fra quelli da lui esaminati. Sullo stesso fenomeno ritornò poi a scrivere più d'una volta nello stesso periodico il Meyer e scrissero anche C. Chabaneau e A. Thomas (vedi la Tavola della Romania sotto il titolo: Du passage d's, z à r et d'r à 8, z en provençal). L'ultimo ad occuparsene fu A. Blanc nello studio intitolato Narbonensia e pub

e non pure tra vocali ma anche nel gruppo -st, non mantiene più la distinzione tra le forme flessionali del caso retto e dell'obliquo e confonde quindi anche quelle del singolare e del plurale, ha esempj d'insolite cadute di consonanti finali, assimilazioni consonantiche e congiungimenti e agglutinamenti enclitici e proclitici che in altri testi non ricorrono colla stessa frequenza di qui, ed oltre a ciò è deturpato da veri e proprj errori di vario genere, che non è sempre facile dire se sieno soltanto di trascrizione. E lasciamo stare che, come fu già notato da altri, è arido e monotono e si ripete spesso tal quale, e nella lingua, nello stile, nella versificazione si manifesta fattura di autor grossolano.

Un tale testo, come può essere soggetto di utili osservazioni e raffronti per chi possieda cognizione abbastanza sicura del tipo più comune e regolare della lingua letteraria trovadorica e di alcuno dei suoi migliori componimenti narrativi, non sembra, o c'inganniamo, il più adatto ai principianti. Sennonché probabilmente il Carducci più che dall'aspetto esteriore intese di esaminare il testo nella sua composizione e nelle varie versioni, e sebbene anche per questa parte dubitiamo non ci sia molto da aggiungere a ciò che fu già notato da altri, tuttavia un tale studio fatto coll'accorgimento proprio di così dotto e abile maestro potrà certamente servire agli allievi di modello per consimili esercitazioni.

Venendo all'edizione, si desidererebbe subito che il testo del Bartsch non fosse stato riprodotto senz' essere riveduto sul codice parigino. Una collazione, si sa, è sempre utile, e così la ristampa, rimasta ignota al Rossi, fatta dall'Appel, Provenzalische Chrestomathie, Leipzig, 1895, p. 48 sgg. di 222 versi del poemetto riveduti sul codice 1), lascia scorgere alcune differenze, sieno pur poche e lievi, fra questo e l'edizione del Bartsch. La quale a noi non è dato verificare se sia stata riprodotta dal Rossi colla fedeltà che era nella sua intenzione, ma, a giudicare dalla diligenza, almeno esteriore, che spira, per così dire, da tutto il libretto, si direbbe di sì 3).

blicato nella Revue des langues romanes, anno 1897, fasc. di febbraio. Il Meyer, il quale per l'addietro inchinava a credere che il Rodano segnasse l'estremo confine orientale del fenomeno, rendendo conto del lavoro del Blanc nella Romania del 1897, avvertiva (p. 475n) che dopo aver scritto sullo stesso argomento aveva raccolto un gran numero di nuovi esempj appartenenti alla Linguadoca e alla Provenza, e che forse li avrebbe quando che sia pubblicati.

1) Sono i versi 832-1053.

3) Qualche lieve differenza c'è fra la stampa del Rossi e quella che di una parte del poemetto curò il Bartsch nella Chrestomathie provençale, 4° ediz., col. 385-92; ma non avendo dinanzi i Denkmäler possiamo anche credere che alcune correzioni sieno state introdotte dal

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