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I.

Opera naturale è ch'uom favella;
Ma, così o così, natura lascia

Poi fare a voi, secondo che v'abbella.

DANTE, Divina Commedia.

Paradiso c. XXVI, v. 130-132.

Non era questa la terra sorrisa dal cielo, bene

detta in ogni modo, invidiata anche da tutte le altre nazioni?

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Le aquile romane avevano spiegato il libero volo pel mondo, e dalle genti rimaste vinte, tratte le arti e le scienze prigioniere in Roma, là s'erano emancipate, là avevano pigliato bella ed onorata stanza. Il secolo d' Augusto, narro cose a' più zotici non ignote, il secolo d'Augusto segna epoca più feconda per possenti intelletti nella storia della civiltà, e ben pareva che perpetuar si dovesse, e che dall'Italia quella vivissima luce avesse

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benefica a diffondersi per ovunque. Nell'ora del meriggio, quando il sole è nel massimo suo splendore, quando i suoi raggi animano, riscaldano ed ardono la terra, chi può pensare all'ora del tramonto, chi può intuonare il lamento pel giorno che dovrà morire, chi piangere per le tenebre che verranno, pel brivido che ci côrrà per la morte delle cose, senza essere tenuto per dissennato? La gioventù rigogliosa non s' affanna della lontana vecchiezza, nè vede o il come o il quando le verran meno le forze, le si farà più lento il palpito, più tardo il sangue: ma nella sua baldanza ella si crede senza tramonto ed eterna.

E alla sua volta il cittadino romano del pari, ne' bei giorni d'Augusto, avrebbe giurato nella perpetuità della gloria dell'imperio di Roma.

Ma così non avvenne. L'orgoglio, l'inettitudine, la tirannide e il capriccio dei Cesari andarono smagliando la gloria dell'invitta Donna delle provincie, resa grande cotanto dalla virtù republicana per lungo ordine di secoli durata.

Quando Costantino imperatore volse a Roma le spalle e la sedia dell' imperio volle fermata in Bisanzio, parve finalmente ch'egli, prima di andarsene, un tratto si rivolgesse, e d'un soffio spegnesse la luminosa fiaccola della civiltà, si valorosamente per tanto tempo nutrita.

Ma il bujo non piombò sull'Italia completo allora, finchè durò l'imperio di Teodosio; fu non

dimeno come bagliore di fumante lucignolo: perocchè, dopo, le tenebre più fitte non tardassero ad occuparla interamente.

Vennero secoli di servitù: irruzioni di barbari si andarono succedendo senza posa, e sfruttando compiutamente questa nobile possessione, tanta desolazione e lutto a noi portarono, che ci tolsero affatto il senno e la memoria perfino con esso della passata grandezza.

Colla libertà, anche il pensiero italiano era morto adunque, ed ogni reliquia dell'antico sapere distrutta: divenuti barbari noi pure, la storia ci insegna come mai rinascessimo, come la civiltà ritornasse, e quali subissimo trasformazioni. La leggenda de' sette dormienti, che corre nel popolo, e che fanciulli udimmo narrare seduti avanti il domestico focolare, non fu una favola per l'Italia. Noi ci addormentammo che l'idioma nostro era latino, perchè Cicerone, perchè Sallustio, perchè Giulio Cesare ce lo attestano splendidamente; svegliati, ritrovammo usata un'altra lingua, od almeno vedemmo il linguaggio del basso popolo ridivenire illustre, e confinata la nobile favella de' gloriosi oratori romani, orribilmente barbarizzata, nei gretti tabellioni, o negli scritti de' prosaici legulei. La nascente civiltà stendeva la mano alla passata, e da questa ajutata, accennava di voler riprendere l'antico posto e mirare anzi a meta più alta.

A questo nondimeno s'era venuto per gradi.

I primi aliti della nuova vita derivammo dagli Arabi: i tesori della scienza erano presso di loro serbati religiosamente, e non fummo noi certamente i soli che vi ponessimo mano per arricchirci. L'influenza di essi sulla nostra civiltà fu per molti valorosi scrittori provata: dall'Andres dottamente fra gli altri, e meglio forse recentemente dal mio maestro ed amico, il chiarissimo professore di scienze politiche nell'Università ticinese, Dottor Andrea Zambelli '.

Io ristringo le mie parole, come richiegga il subbietto che mi proposi, a dir solo, di qual forma nascesse coll'Allighieri la vera poesia italiana: epperò non debbo toccar del passato che quanto cooperasse a preparar l'opera del nostro sommo Poeta.

Si meriterà tuttavia alcune diffuse parole la questione della lingua volgare od italica; tanto più che io senta in ciò dovermi scostare dalla maggior parte di coloro che in proposito hanno scritto. Non è vaghezza di dar nello strano, o di sottilizzare, che mi induca a rigettare l'opinione dei molti fin qui seguita; sibbene le mie peculiari ricerche e l'intimo convincimento. È tempo che si pensi da sè stesso, nè ci sieno imprescrittibili gli altrui giudizj. Altri venga a persuadermi del torto e darò

1 Le erudite e profonde dissertazioni del prof. Zambelli, che di ciò trattano, le troverà il lettore nel Giornale delPI. R. Istituto di Scienze, Lettere ed Arti di Lombardia anni 1853-1854

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omaggio alla verità, poichè io sappia essere del savio il mutare, secondo verità e giustizia, non il carattere, ma il consiglio!

Gli Arabi, impadronendosi delle Spagne, vi avevano trapiantate le loro costumanze, le ispirazioni del bello: la poesia, cioè, il suono ed il canto; e quando di là cacciati, vi entrarono i Provenzali, questi raccolsero solleciti il prezioso retaggio abbandonato, ed ebbero allora principio le nobili e cavalleresche imprese, le idee amatorie, le Corti d'Amore e la Poesia trobadorica.

La quale spiccò di netto all'araba poesia l'idea del novellare, delle fantasie, il vezzo delle lodi delle più leggiadre donne, e degli erotici argomenti, e ne imitò le rime, i metri, le serventesi, ed il congedo perfino delle canzoni.

Le corti quindi di Tolosa e di Provenza furono i più splendidi ritrovi di questi poeti, e il profumo piacque de' loro canti, ne piacquero le lusinghe, e i nomi de' più famosi furono levati a cielo. Dante ci lasciò memoria di Arnaldo Daniello, he nel dettare

Versi d'amore e prose di romanzi
Soverchiò tutti 1;

1 Di questo Arnaldo, che Dante antepone anche a Guido Guinicelli, da lui tenuto pel primo de' poeti italiani suoi antecessori, parla eziandio più volte nel libro del Volgare Eloquio nel medesimo senso. E degli altri trovatori altresì puossi vedere in questo libro stesso di Dante. Anche il Petrarea, nel Trionfo d'Amore, dà il primato ad Arnaldo.

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