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ma di ben altri molti si potrebbe qui recare buon testimonio e per le gesta e per i canti di cavalleria, se il bisogno lo richiedesse.

Questi poeti visitarono l'Italia nostra, e prima a commuoversi a' loro canti fu Lombardia; perocchè l'esempio si imitasse da' nostri più prontamente; e noi avemmo ben presto cantori egregi, che, a difetto di lingua poetica, cantarono nella stessa lingua provenzale; come di presente, rifuggendo da' bisbetici dialetti parlati, nello scrivere e poetare ci vagliam noi della comune lingua italiana, la qual con essi di sovente ha poco o nullo vincolo di relazione. Il mantovano Sordello ebbe nome d'assai valente, e l'Allighieri del pari fa onorevole menzione di lui nel Purgatorio, ponendogli anzi in bocca le più generose parole che italiano di allora favellar mai potesse'. Fama non minore ottennero Bartolomeo Giorgi di Venezia e Bonifazio Calvo di Genova.

Per Italia intanto incominciavasi a meglio apprezzare la lingua che, parlata dal volgo, volgare appunto appellavasi, come la si chiami assai spesso tuttora; abbenchè dopo più comunemente italica si dicesse. Il dottissimo Lodovico Antonio Muratori sostenne l'influenza della lingua de' popoli barbari invasori dell'Italia, essere stata possente nella prima formazione della nostra lingua, e questa sentenza fu tenuta presso che inappellabile e giusta. Parole celtiche, fu da lui detto, franche, germaniche, longo1 Purgatorio. Canto VI.

bardiche, pronunciate latinamente s'inframmisero al latino, che già molto imbastardito parlavasi a Roma, e molto più ancora corrotto nelle altre parti d'Italia, e così la gente nostra, credendosi ritenere ancora la sua lingua nativa, si trovò a poco a poco, per la forza dell'uso, a parlare un linguaggio diverso, il quale non era che una mescolanza dei dialetti della lingua latina, bruttata di gotico fango.

La cosa sarà avvenuta probabilmente così, se la più parte de' filologhi col Muratori convennero; ma se mi è concesso il dir alla mia volta ciò ch'io senta in proposito, e' mi pare non si abbia a spregiare affatto la ipotesi di Leonardo Bruni, scrittore del quattrocento, che l'idioma italiano affermò fosse già una lingua parlata dalle infime classi del popolo latino: che la lingua degli oratori fosse dei soli nobili e letterati uomini, la qual dal volgo non fosse tampoco compresa; del modo istesso che dal volgo moderno non s' intenda la messa latinamente celebrata '. Ed aggiunge il medesimo scrittore che la turba, come nelle concioni, così ne' ludi, o rappresentazioni teatrali, non capisse pur verbo, avendo linguaggio a sè, il quale dal latino propriamente detto, differenziasse per terminazione, inflessione, significato, costru

1 « Præstantes igitur homines, oratorem latine litterateque concionantem præclare intelligebant; pistores vero et lanistæ et hujusmodi turba sic intelligebant oratoris verba, ut nunc intelligant missarum solemnia. » Epist. Leonard. Brun, lib. 6, epist. 8.

zione ed accento; tale insomma che chiamarla alla spiccia per noi si debba adesso italiana.

Nè restò solo nell'opinione il Bruni: il Gravina così vi si accostò: « si può fondatamente credere la nostra presente favella sia stata volgare anche in tempo degli antichi Latini, sparsa delle parole, che ancora riceviamo nell'uso presente, ma che non ritroviamo ne' libri; e che con la natural mutazione delle cose e col commercio de' Goti, Eruli e. Longobardi, abbia mutato figura, non nel corpo e nella sostanza, ma nell'esteriore e nelle desinenze; le quali al tempo de' Latini, benchè fossero meno distinte che non erano le grammaticali, pur erano più distinte che nella volgar presente non sono 1. »

E come avviene negli uomini che si soglia, per amore di propugnare una cotal opinione che abbia d'uopo di valido sostegno, o non per anco sia stata dall'universale accettata, spinger oltre le cose e gli argomenti; così il Quadrio, nella Storia e Ragione d'ogni poesia, pronunziò che ad un parto solo con la lingua latina e sorella d'essa, nascesse l'italiana odierna favella dalla pelasga, dall'osca, dalla greca e fors❜anco dall'ebraica... Nè per ciò che la volgare sia in qualche parte cangiata in oggi, per quelle inevitabili conseguenze delle vicende de' tempi, dir si può che non sia più quella;

1 Ragion Poetica. Lib. 2, cap. 5.

perchè non è ita essa di mano in mano cangian- ̈ dosi che negli accidenti '. Prima di lui tuttavia, Pier Francesco Giambullari aveva nel Gello asserito derivarsi l'italico idioma dall'arameo, e siffatta sua asserzione, che tentò convalidar con esempj e confronti, suscitò si grave scalpore in seno all'Academia della Crusca, che sorse oppositore in capo a tutti Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca; e quel consesso si divise in due parti, l'una detta degli Aramei, perchè fautori al Giambullari, e l'altra degli Umidi appellata, perchè regolata dal Lasca, e così fur prodotte le cose, che si venne alle personalità e si dovette ricorrere al Principe, senza che la questione guadagnasse punto.

Ma il dottissimo bresciano Angelo Mazzoldi, non sempre a ragion combattuto dal Corcia e dal Bianchi-Giovini, in taluna delle sue profonde indagini sulle Origini Italiche, non solo non trovò spinte le opinioni surriferite del Quadrio e di Pier Francesco Giambullari; ma più ancora egli s'avanzò di loro, portando ben più ardimentosa sentenza, la quale espresse così da non permetterci in conto veruno che si abbia recisamente a rilegare fra le strane ed infondate congetture.

Scrive egli:

« Erodoto cercando quale potesse essere la lingua di quei forestieri ch' erano venuti a render

1 Tom. I, lib. I, Diss. I, cap. 2, part. IV.

civile la Grecia, confessa di non sapervi trovare il filo. Aggiugne però che a giudicare da quella che si parlava dai Pelasghi che abitavano sopra i Tirreni in Crotone, dagli abitatori di Placia e Scilace sull' Ellesponto, e da quella di tutte le altre terre pelasgiche che permutarono il nome, poteva argomentarsi esser dessa una lingua forestiera. Io tengo che la lingua di questo popolo navigatore non potesse essere se non l'attuale volgare italiano; e che grandemente errassero coloro (non escluso il Lanzi) che ammisero in Italia una lingua euganea, una lingua volsca, una lingua osca, una lingua sannitica, una lingua umbra, una lingua etrusca, credendo che questi popoli italiani non si differenziassero se non pel modo di pronunciare e scrivere una medesima lingua comune, come noi veggiamo avvenire tuttodì dei dialetti delle città nostre '. E tanto più mi raffermo in questa opinione quando penso che gli antichissimi Italiani si reggevano a un solo governo, che si stendeva dall'uno all'altro mare e per oltre le somme Alpi. L'Italia mutò, a dir vero, parecchie volte la lingua nobile, dappoichè una parte di essa per certo tempo usò la greca, poi tutta intera la lingua latina; all'ultimo col

1 Il Passeri fu, a quanto pare, il primo che sospettasse le iscrizioni etrusche antiche essere scritte non già in una lingua particolare alla Toscana, ma nel comune volgare italiano. Vedi Tom. XXII degli Opuscoli Scientifici. Venezia, 1740.

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