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V.

Dirvi chi sia, saria parlare indarno,

Chè 'l nome mio ancor molto non suona.
Purg. c. XIV, v. 20-21.

Il sonetto venne nelle mani de' migliori che poetassero a que' giorni; come appunto fosse stato desiderio di Dante.

Siffatta composizione recava certamente una bizzarra visione; ma considerato essere quello il primo tentativo d'un giovinetto nel poetico arringo, esso doveva destare l'attenzione di chicchessia fosse stato d'invidia scemo, e dicasi anche la maraviglia. E noi pure non possiamo a meno di tenerne buon conto; .tanto più se ci facciamo a leggere le cose che i più saputi di que' tempi scrivevano, e che le più strane immagini usavano colle

più barbare ed oscure dizioni. Valga ad esempio la canzone del Guinicelli stesso per me in addietro riferita, che si godeva la massima estimazione fra i migliori trovatori di quella età.

Cino da Pistoja e Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, quegli ricordato nel libro della Volgare Eloquenza, siccome benemerito del dire italico' e questi onorato vieppiù nell' anteporlo perfino a Guido Guinicelli:

Così ha tolto l'uno all'altro Guido
La gloria della lingua,

rescrissero colla maggior cortesia del mondo al novello poeta il sentimento loro ne' seguenti sonetti. Cino da Pistoja a D. Allighieri.

Naturalmente chere ogni amadore

Di suo cor la sua donna far saccente,
E questo per la vision presente

Intese dimostrare a te Amore

4 Veggasi di lui nell'opera De Vulgari eloquio, ove Dante si chiama amico suo, lib. I, c. 10, 13, 16; líb. II, c. 2, 5, 6. Loda le canzoni di lui e dice che: in un alle sue aveano «< innalzato il magistero e la potenza del dire italico, il quale essendo di vocaboli tanto rozzi, di perplesse costruzioni, di difettosa pronunzia, di accenti contadineschi, era stato da essi ridotto così egregio, così districato, così perfetto e civile. » Dopo ciò, non si sa come avvenisse che di nessuna maniera ne introducesse il nome nel poema, di che Cino gliene seppe male, e in un sonetto si vendicò di quell'oblio e dell'oblio della sua Selvaggia. In verità a me le rime del Pistojese, buje nella forma e lambiccate, non pajon degne di più gloriosa menzione, come quella che fe' Dante del Cavalcanti, in cui inoltre la lingua è più forbita.

In ciò che dello tuo ardente core
Pasceva la tua donna umilemente,
Che lungamente stata era dormente
Involta in drappo, d'ogni pena fuore.
Allegro si mostrò amor venendo

A te, per darti ciò che 'l cor chiedea,
Insieme due coraggi comprendendo;
E l'amorosa pena conoscendo,

Che nella donna conceputo avea,
Per pietà di lei pianse dipartendo.

Guido Cavalcanti a D. Allighieri.

Vedesti al mio parere ogni valore,

E tutto gioco, e quanto bene uom sente,
Se fosti in pruova del signor valente,
Che signoreggia il mondo dell'onore,
Poi vive in parte, dove noja muore,
E tien ragion nella pietosa mente:
Si va soave ne' sonni alla gente,
Che i cor ne porta senza far dolore.
Di voi lo cor se ne portò, veggendo
Che vostra donna la morte chiedea:
Nudrilla d'esto cor, di ciò temendo.
Quando t'apparve, che sen gia dogliendo,
Fu dolce sonno ch'allor si compiea,

Che 'l suo contraro lo venia vincendo.

E riconoscente il nostro Dante che que' reputati poeti così seco lui cortesemente avessero adoperato, replicò ad entrambi con due altri distinti sonetti, a' quali e Cino e Guido risposero nuovamente; perocchè fra anime bennate spesso avvenga la gara di nobili sentimenti.

E fu questa occasione che avesse principio fra il giovinetto Allighieri e Guido Cavalcanti una sì

grande amistà, che nella Vita Nuova ei lo avesse a chiamare il primo de' suoi amici, e tale, che dettasse anzi per lui in volgare la stessa Vita Nuova, secondo ei dichiara nel fine del § XXXI '. S

Anche Cino gli divenne amico per ciò, e nella Volgar Eloquenza l'Allighieri ce lo fa sapere. D'altre parti vennero altri versi, a soluzione della proposta tesi; ma Dante da Majano, pigliando a scherno l'opera dell'Allighieri, lo venne ingiuriando, quasi fosse dissennato, e rimandando al medico, perchè curar si facesse, collo spedirgli il seguente sonetto.

Dante da Majano a D. Allighieri.

Di ciò che stato sei dimandatore,
Guardando, ti rispondo brevemente,
Amico meo, di poco conoscente,
Mostrandoti del ver lo suo sentore.
Al tuo mistier così son parlatore:
Se san ti truovi, e fermo della mente,
Che lavi la tua collia largamente,
Acciocchè stinga, e passi lo vapore,
Lo qual ti fa favoleggiar loquendo:
E se gravato sei d'infertà rea,
Sol c'hai farneticato, sappie, intendo.
Così riscritto el meo parer ti rendo;
Nè cangio mai d'esta sentenza mea,
Finchè tua acqua al medico no stendo.

1 « E se alcuno volesse me riprendere di ciò, che non iscrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, scusomene, perocchè lo intendimento mio non fu da principio di scrivere altro che per volgare; onde, conciossiacosachè le parole, che seguitano a quelle che sono allegate, sieno tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se io le scrivessi; e simile intenzione so che ebbe questo mio amico, a cui ciò scrivo, cioè, che io gli scrivessi solamente in volgare. >>

Dante da Majano era rimatore di poca vaglia, e ne potete giudicare da voi medesimi, o lettori ; pure allora godeva estimazione nell'universale. Anch'egli sospirava e cantava per una bella, tema obbligato per qualsivoglia poeta di quel tempo; ma nè egli, nè la sua Nina si ricorderebbero certamente adesso da noi, nè posto per avventura avrebbe trovato nella storia delle italiane lettere, dove il suo nome non si fosse legato, per la scortesia del surriferito sonetto, alla prima poesia del maggiore de' poeti.

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