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III.

AD ANGELO MAI,

QUAND' EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE

DELLA REPUBBLICA.

SOMMARIO: Si maraviglia di tante scoperte fatte dal Mai (v. 1-15) — Ne trae buon augurio per l'Italia, di cui descrive l'oziosità e la viltà, maggiori al suo tempo, che mai non sieno state (16–45) — Paragona la scoperta del Mai a quelle che si fecero durante il risorgimento dei secoli XIV-XVI (46–60), e ricorda con desiderio Dante, il Petrarca (61-75), il Colombo, lamentando però che le scoperte di quest'ultimo abbiano distrutto i bei sogni degli antichi (76– 105), Ariosto (106-120), il Tasso, a' cui tempi confronta i nostri molto più infelici (121-150), e l'ultimo grande italiano l'Alfieri. Lamenta la generale mediocrità del secolo presente, e incoraggia il Mai a ridestar l'Italia, proseguendo nelle sue scoperte (151-180). Strofe 12 di 15 versi ciascuna, col seguente schema: A b CBC De F G De F G H H.

METRICA.

abbandonata allora dal Papa e dall'Imperatore, < vedova, sola. Ma il Leopardi nelle Annotaz. cit. dice d'aver usato sola in senso di romita, disabitata, deserta, e difende questo significato con molti esempi.

C. II. Angelo Mai nacque a Schilpario nella provincia di Bergamo, il 7 marzo 1782, si ascrisse all'ordine de' Gesuiti nel 1799 (donde usci nel 1819) e insegnò nel collegio di Napoli. Venuto a Roma nel 1806 e ordinato sacerdote studiò il greco e l'ebraico. Nel 1809 si stabilì a Milano; nel 1811 ebbe un ufficio nell'Ambrosiana, e quivi cominciò le sue maravigliose scoperte di antichi scrittori latini e greci, ch' egli ricavava dai palimpsesti, raschiando abilmente i caratteri sovrapposti da copiatori del medio evo. E le continuò poi con esito anche più maraviglioso nella biblioteca Vaticana, di cui fu primo custode dal 1819 al 1838, e altrove. In quest' anno fu ornato della porpora cardinalizia per la quale non rallentò punto i suoi studj e le sue pubblicazioni. Morì a Castelgandolfo agli 8 settembre del 1854. Quando il Leopardi scrisse la presente canzone (gennaio 1820), il Mai aveva già scoperto e pubblicato frammenti di Cicerone, lettere di Frontone, di Antonino Pio, di Marco Aurelio, orazioni di Simmaco, frammenti di Plauto, un'orazione d'Iseo (che prima si conosceva solo per metà), le Istituzioni di Caio, una parte inedita delle Antichità romane di Dionigi di Alicarnasso, un'orazione di Temistio, alcuni libri delle Sibille, il Chronicon di Eusebio, ec., ec. Nei primi giorni del 1820 si divulgò la notizia della scoperta di lunghi e copiosi frammenti del libro ciceroniano De Republica, che uscirono alla luce nel 1822 (vedi Leop., Epist., lett. al Mai, in data 10 genn. 1820), e il Leopardi scrisse questa canzone, come si rileva da una sua lettera al Mai (27 ottobre 1820): << la canzone fu scritta nei primi giorni di quest'anno, mentre ferveva la fama del suo magnifico ritrovato ciceroniano. » Essa fa pubblicata nel luglio del medesimo anno 1820, Bologna, per le stampe di Iacopo Marsigli, con dedicatoria al conte Leonardo Trissino; dove l'autore lamenta che « eziandio nelle lettere (noi italiani) siamo fatti

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Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe

I nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio? E come or vieni
Si forte a' nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de' nostri,

Muta si lunga etade? e perchè tanti
Risorgimenti? In un balen feconde

Venner le carte; alla stagion presente

servi e tributari.... ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza, > e segue diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze; e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti. »

In questa, come nelle precedenti canzoni, primeggia ancora il concetto che la vera grandezza e felicità era degli antichi, e che i moderni sono inetti e indifferenti ad ogni bell' opera; ma già comincia ad affacciarsi anche un altro concetto più melanconico, che riguarda la infelicità umana, come effetto dell' avere sbandito le belle illusioni della fantasia (vedi v. 76-120). Anche questa canzone mostra un progresso sopra le antecedenti, per un modo di sentire più schietto, più vario, più libero. La forma in qualche luogo è tuttora un po' inceppata e verbosa, ma stupenda è l'intonazione lirica dell'esordio, ben tratteggiati con pochi e vivaci tocchi i caratteri dei grandi antichi, e mirabile il ritornar sulla fine allo stesso incitamento con cui si era incominciato.

1-3. Italo ardito, ec. Stupenda entrata e veramente lirica! Il Mai, scopritore di opere classiche sconosciute, è paragonato ad un taumaturgo, che evoca le ombre de' padri dai loro sepolcri per salute de' vivi. -non posi Di, ec., non cessi, non ti stanchi, non tralasci. Mor. S. Greg., I, 19: Non posa di pensare, ed esaminare continuamente le opere sue. » 4. A questo secol morto, ec. Abbiam visto nei due canti precedenti qual concetto esagerato avesse il Leopardi della inerzia degl' Italiani suoi contemporanei. E tale apparisce pure ad ogni passo delle operette morali. Cfr. Dial. della Moda e della Morte: « questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte. - incombe, pesa. È un latinismo qui felicemente usato. Cfr. Oraz., Od., 3, 30: nova februm Terris incubuit cohors, e Giovenale, 6, 291: suavior armis Luxuria incubuit. II Leopardi nelle Annot. cit. si giustifica di avere adoperato questa ed altre parole non registrate dalla Crusca.

5. di tedio, ec. La mancanza assoluta di vita politica era incresciosissima al giovine poeta, tutto assorto nelle memorie delle antiche repubbliche.

8. Muta si lunga etade, ec. Dai secoli del Risorgimento fino al Mai non si erano più scoperte opere importanti d'antichi scrittori. « Coll'aggett. forte viene a significare la importanza, come col frequente il gran numero delle antiche opere scoperte. Straccali.

9. Risorgimenti, resurrezioni di scritture che si credeano morte per sempre. Nota l'uso nuovo del plurale di questa parola.

9-10. feconde Venner le carte, ec. Gli antichi palimpsesti, per opera del Mai, rivelarono quei caratteri che erano stati coperti da nuovi ca

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I polverosi chiostri

Serbaro occulti i generosi e santi
Detti degli avi. E che valor t'infonde,
Italo egregio, il fato? O con l'umano
Valor forse contrasta il fato invano?
Certo senza de' numi alto consiglio
Non è ch'ove più lento

E grave è il nostro disperato obblio,
A percoter ne rieda ogni momento
Novo grido de' padri. Ancora è pio
Dunque all'Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche immortale:

Ch' essendo questa o nessun' altra poi

ratteri, e così partorirono i dotti sensi dell'antichità. Vedi la nota in principio. A questo passo serve di commento quello che il Leopardi scriveva al Mai, in data 10 gennaio 1820: V. S. ci fa tornare ai tempi del Petrarca e del Poggi, quando ogni giorno era illustrato da una nuova scoperta classica, e la maraviglia e la gioia de' letterati non trovava riposo. Ma ora, in tanta luce d'erudizione e di critica, ec. V. S. sola in codici esposti da più secoli alle ricerche di qualunque studioso.... scopria tesori che si piangono per ismarriti senza riparo sin dal primo rinascimento delle lettere.... è un pregio che vince tutte le meraviglie del tre'cento e del quattrocento» (Epist., Firenze, Le Monnier).

11. I polverosi chiostri, ec. « Ne' monasteri si conservarono lunga età ignorati e polverosi i codici antichi. Castagnola.

14-15. il fato.... O con l'umano Valor.... contrasta il fato invano? Concetto un po' sforzato. Il Leopardi non solo insiste su questo suo fantastico e retorico fato (cioè il destino avverso all'Italia de' suoi tempi). ma ne vien poi a distrugger la forza, col supporre possibile che il valore mano sia più forte del fato stesso. Vero è che in certa guisa si corregge nella strofa seguente, ammettendo una provvidenza celeste pietosa verso l'Italia. - Contrasta con ec. Il Leopardi nelle Annot. cit. difende con esempi questo costrutto.

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16. de' numi: ciò è secondo il vezzo del poeta scettico e classicissimo, di sostituire il cielo, il fato e gli Dei mitologici al Dio unico. Cfr. Virg., Æn., II, 777: Non hæc sine numine divum Eveniunt. -con siglio, decreto, volontà. Di consiglio riferito, in questo senso, alla divinità, vedi il Voc. della Crusca, 5a impress., al § IX di questa voce. 17. Ove, mentre.

18. Obblio, la dimenticanza del nostro onore.

20. Novo grido de' padri, scritture degli antichi classici, novamente scoperte.

21-22. anco si cura Di noi qualche immortale, qualcuno de' numi ac cennati nel primo verso di questa strofa. IMMORTALES absolute sunt ipsi Di. Forcellini.

23 ec. essendo questa o nessun'altra poi L'ora, ec. Credo che voglia dire, esser l'avvilimento degli Italiani trascorso tant'oltre, che, se si aspetta ancora un poco, e non si coglie questo momento in cui tuttora c'è qualche immortale a uoi favorevole, ogni rimedio riuscirà impossi

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L'ora da ripor mano alla virtude
Rugginosa dell' itala natura,
Veggiam che tanto e tale

È il clamor de' sepolti, e che gli eroi
Dimenticati il suol quasi dischiude,
A ricercar s'a questa età sì tarda
Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

Di noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche speranza? in tutto

Non siam periti? A voi forse il futuro
Conoscer non si toglie. Io son distrutto
Nè schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M'è l'avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal che sogno e fola

Fa parer la speranza. Anime prodi,

Ai tetti vostri inonorata, immonda

Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d'opra e di parola

Ogni valor; di vostre eterne lodi

bile. Potrebbe anche supporsi che il poeta alludesse a preparativi di moti politici, se non vi fosse in contrario la str. 3, come vedremo.

24-25. virtude Rugginosa: il valore da lunghi secoli disusato, e quindi fatto simile ad una spada coperta di ruggine. Nota l'armonia aspra di questi due versi per effetto dei tanti r.

27. il clamor de' sepolti, il grido de' morti risuscitati, conforme al concetto dei v. 2-5.

29. a questa età sì tarda, a quest'età, matura finalmente, dopo tanti secoli scorsi invano, al suo risorgimento.

30. Anco ti giovi, ti piaccia, ti sia dilettevole tuttora l'esser codarda, e non ti sii stancata della tua inerzia.

31. o gloriosi: si rivolge ai graudi antichi, risorti per opera del Mai; e, supponendo che essi prevedano futuro, dimanda loro se v'è ancora per l'Italia qualche salute; poichè egli non sa vederla.

34. Io son distrutto, abbattuto, oppresso dalla disperazione.

37. sogno e fola. Petr., Trionf. d'Am., IV: « sogno d'infermi, e fola di romanzi. »

39. Ai tetti vostri, ec. « Nelle case abitate da voi ora sottentrò una plebe, cioè una generazione vigliacca ed ignobile; priva di onore, macchiata di ogni vizio. »

40 ec. al vostro sangue è scherno, ec. Costruisci e intendi: « ogni valore, cioè, ogni atto virtuoso sia di opere, sia di parole, cioè nelle lettere, è oggetto di scherno pe' vostri indegni discendenti Gl' Italiani discesi da voi scherniscono ogni azione gloriosa. »

42. di vostre eterne lodi, ec. « Gli uomini d'oggidì non sentono nè vergogna nè invidia delle lodi che vi si son date e sempre vi si da

ranno. »

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Nè rossor più nè invidia; ozio circonda
I monumenti vostri; e di viltade

Siam fatti esempio alla futura etade.

Bennato ingegno, or quando altrui non cale
De' nostri alti parenti,

A te ne caglia, a te cui fato aspira
Benigno sì che per tua man presenti
Paion que' giorni allor che dalla dira
Obblivione antica ergean la chioma,
Con gli studi sepolti,

I vetusti divini, a cui natura

Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.

43. ozio circonda, ec. Intorno ai monumenti di voi, che foste tanto operosi, stanno gli uomini a poltrire in ozio. »

44. di viltade, ec. I posteri piglieranno cattivo esempio dalla nostra viltà. Questa invettiva contro gl' Italiani de' suoi tempi, è esagerata ed ingiusta, e rivela una fantasia tutta assorta nei tempi romani e greci, e ignara e incurante dello stato vero delle cose, forse a causa del piccolo paese dove il giovane Leopardi vivea confinato. E per verità, l'Italia non scarseggiava neppure allora di valenti uomini, nè la gioventù dormiva tutta e poltriva, ma anzi molta parte di essa preparava que' movimenti politici, che di lì a poco scoppiarono e che pure al Leopardi non doveano spiacere, se ne aveva notizia.

46. Bennato, nato con buone disposizioni. Cfr. Ad un vincitore ec. v. 2. - or quando, ec. poichè ad altri non preme dei nostri grandi padri. » 48. a te cui fato aspira: a cui il fato, il destino (che per il Leopardi è tutt' uno con Dio) spira favorevolmente, dà favore. Aspirare nel senso primitivo di spirare, dare ispirazione o simili, è difeso dall'autore nelle Annot. cit. con vari esempi di scrittori italiani, Virg., En., II, 385: aspirat primo fortuna labori; e IX, 525: Vos, o Calliope, precor, aspirate canenti.

49-50. presenti Paion que' giorni: il secolo, così detto, del rinascimento, quando il Petrarca, il Bruni, Niccolò Niccoli, il Poggio, il Filelfo, il Guarini e tanti altri rimettevano in luce gli antichi scrittori.

50-51. dalla dira Obblivione, dalla funesta dimenticanza. Diro, voce latina, come il greco detvós, a cui etimologicamente sembra rapportarsi, riunisce in sè i vari sensi di grande, mostruoso, crudele, dannoso, ec. - ergeàn la chioma, sollevavano il capo.

53. I vetusti divini, i grandi scrittori greci e romani. - - a cui natura Parlò senza svelarsi, ec., cioè: a cui le cose tutte della natura apparvero velate nelle belle e splendide fantasie mitologiche. Conformemente a' suoi principii filosofici, il Leopardi vuol qui intendere che gli antichi non conobbero il tristo e brutto vero, ma si cullarono nelle favole. Vedi più oltre il Canto Alla primavera.

54-55. i riposi Magnanimi, ec. Costruisci e intendi: «ond' essi colle loro opere letterarie rallegrarono i tempi e le ore in cui i grandi uomini di stato e di guerra prendevan riposo. Il Leopardi insiste anche altrove sul concetto che gli antichi, ne' più bei tempi della loro storia, ebbero degli studi letterarj, cioè come di un'occupazione per riposo ed

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