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era venuta svolgendosi in quel paese. Lo spirito cavalleresco unito alla festevolezza, all'amor della galanteria e della donna, sollevò poi a dignità di arte quella poesia, accese le gare fra i cultori di essa ed apri loro un campo franco nelle corti principesche e nei castelli feudali. Il trovatore era spesso un potente barone od un valoroso guerriero, a cui la perizia nel trovare e nel trarre soavi melodie dalla mandòla accresceva pregio ed amabilità. Ma furonvi anche trovatori di povera origine, i quali, mercè l'ingegno loro, trovando nuovi vezzosi concetti e canti armoniosi, dai più umili uffizi salivano in fama ed in ricchezza, onorati in tutti i castelli, desiderati in tutte le feste, oggetto invidiato dei sospiri di superbe marchesane.

Inferiore al trovatore era il giullare (joglar), il quale faceva la professione del poeta per mestiere. Spesso seguiva il trovatore, ne accompagnava con la musica i versi e partecipava ai trionfi di lui; ma v'erano giullari che per conto proprio andavano di castello in castello, recitando o cantando. le poesie dei più celebri trovatori, adattandovi la musica e, talora componendo versi essi stessi. Oltre che musico e poeta il giullare era anche propriamente un saltimbanco, esperto nel toccare ogni sorta di strumenti e destro ad ogni sorta di esercizi e di giuochi. Esso intratteneva di solito il popolino nei trivii, mentre il trovatore ornava della sua persona e dell'arte sua i geniali ritrovi della nobiltà feudale.

L'arte del trovatore consisteva nel trovare, come s'è detto, imagini ed espressioni nuove atte a sviluppare e colorire quel pensiero d'amore che a lui sorrideva nella fantasia. E non a caso ho detto pensiero e non sentimento, fantasia e non cuore. I trovatori, per i costumi cavallereschi in mezzo a cui s'educavano e vivevano, erano certo portati a sentire e sentivano in effetto vivamente l'amore, profonda passione del cuore, passione veramente umana, a cui anche spesso quelli si ab

bandonavano con impeto brutalmente sensuale. Ma se così fatto era in pratica l'amor dei trovatori, non è però tale quello che noi vediamo cantato nella lirica loro, anzi immedesimato con essa per modo che amore e poesia sono sinonimi nel linguaggio della corte, tanto che il primo trattato di versificazione provenzale ha per titolo: Las leys d'amors « Le leggi d'amore ».

Il poetare era una moda geniale, un esercizio gradito ed ammirato onde s'allietava la vita monotona e severa dei castelli feudali. Esso non era un mezzo col quale l'animo potesse liberamente sfogare la piena degli affetti che gli tumultuavano dentro, poichè il canto non restava già chiuso nel pensiero come solitario e intimo sfogo o conforto, nè, come avviene oggidì per le stampe, si diffondeva tra la moltitudine a cui il poeta può manifestare candidamente sè stesso, perchè in tanta lontananza di spazio e di relazioni l'oggetto de' suoi sospiri resta pur sempre ignorato dai più. Ma allora, nella cerchia anzicheno ristretta della nobil società feudale, il trovatore era non pur conosciuto e segnato a dito come l'autor dei tali canti, il maestro ammirato dei tali esercizi, l'eroe invidiato delle tali avventure, ma era eziandio ad una volta il cantore e il musico de' proprii versi. Ora è facile comprendere come la cerimoniosa etichetta delle corti e il geloso e vendicativo sospetto dei feudatari dovessero imporre un assai scrupoloso riserbo alle manifestazioni erotiche del trovatore. Il quale adunque obbediva ad una ferrea necessità tenendosi in tutto sulle generali, usando frasi e complimenti di convenzione, lodando vagamente nella dama de' suoi pensieri i pregi generici della virtù, della gentilezza, dell'intendimento, della cera soave, del portamento nobile, ecc., ma tacendo di quelle particolari note e circostanze che avrebbero troppo facilmente svelato il pericoloso segreto. Onde avviene che l'amore presso i poeti

provenzali è una scienza più assai che un sentimento; e come c'era questa scienza d'amore, saber de drudaria, così il trovatore n'era il maestro. Da ciò segue che la lirica occitanica ha molto artifizio e quasi punto calore d'affetto. Il motivo al trovare, cioè al poetare, non è interiore, non viene dal cuore pieno del sentimento che trabocca e sforza perciò il poeta ad effonderlo nel canto; ma viene dal cervello che cerca bei soggetti di lode, bei partiti di frase e imagini e similitudini e complimenti nuovi e leggiadri. Così il canto invece di prorompere spontaneo e caldo dal vivo cuore, procede riflessamente pacato e simmetrico e trae l'intonazione dal di fuori, cioè dalla natura che ringiovanisce a primavera, dagli uccelli che cantano, dalle acque limpide che scorrono, dai verzieri che fioriscono, eterno ritornello della massima parte della lirica erotica dei provenzali. Si può dire che quasi tutte quelle poesie comincino con una descrizione o, almeno, contengano un accenno di quegli spet tacoli della natura ond'era gioconda quella contrada e che furono già una delle non ultime cagioni del florido sviluppo che l'arte così precocemente vi ebbe.

Le principali forme che prese la lirica trovadorica sono: a) la canzone, il cui argomento è generalmente l'elogio dell'amore, l'omaggio alla bellezza.

b) il sirventèse (sirventes), componimento d'indole politica, quasi fatto in servigio d'un principe dal poeta cortigiano. Cantava la guerra, l'odio, la vendetta, ora violenta invettiva, ora satira amara, ora sottile ironia.

c) la tenzone, disputa fra due o (raramente però) più poeti sopra una data materia, a volte amorosa come la canzone, a volte politica come il sirventese.

Sonvi poi altre forme secondarie, tra cui la romanza, pic colo poemetto narrativo, ove il trovatore narra con vivacità drammatica qualche avventura amorosa; la ballata da can

tarsi nella danza; la pastorella, che di solito descrive un incontro amoroso con una pastora; la sestina, artificioso componimento la cui invenzione si attribuisce ad Arnaldo Daniello, un poeta del Perigord, reso celebre fra noi dal Petrarca e principalmente da Dante, che gli mette in bocca alcuni versi provenzali nel ventesimosesto del Purgatorio (1).

III. I primi trovatori, dei quali ci sien rimaste poesie, sono due baroni: Guglielmo IX, conte di Poitiers, ed Ebles di Ventadorn (e fiorirono verso la fine del secolo XI), i quali, pieno l'animo di spiriti cavallereschi, corsero una vita avventurosa fra imprese d'ogni maniera, tra i canti, gli amori e le giocondezze delle corti. Accanto a questo Ebles sorge il famoso Bernardo di Ventadorn che, dal vile uffizio di scaldare il forno al suo signore, s'innalzò a celebrità di trovatore e di avventuriere. Fu questi anche, a notizia nostra, uno dei primi a venire in Italia, dove seguì l'imperatore Federico I, visitò Ferrara, ov'era una corte gioviale, e si acquistò anche da noi moltissima rinomanza. Nel Monferrato, intorno al 1195, poetava Pietro Vidal, altro provenzale, che dopo ogni sorta d'avventure, ebbe liberale ospitalità alla splendida corte del marchese Bonifazio, a Clavasio (Chivasso). Presso il qual Bonifazio troviamo un altro trovatore di molto ingegno, ardito cercatore di avventure anch'esso, Rambaldo Vaquieiras. Venuto di Provenza a Genova, s'innamorò d'una donna che non volle ascoltarlo, onde compose una tenzone in due lingue, nella quale egli cerca di persuadere la dama, e questa in un genovese provenzaleggiante risponde con rifiuti e dispregi.

(1) Una perfetta edizione critica delle poesie di questo trovatore procurò il valoroso U. A. CANELLO (Halle 1883), morto pochi anni sono nel fiore degli anni e delle opere.

Passato alla corte di Bonifacio, vi amò con miglior fortuna la marchesa Beatrice, e la cantò in molte poesie sotto il nom di Bel Cavaliere, perchè un giorno l'aveva vista esercitars nell'armi. È celebre sopra tutte quella del Carros (Carroccio << dove egli finge che tutte le donne muovano ad assalire i Bel Cavaliere, perch'ella è a tutte loro tanto superiore che vogliono contro di lei levare insegna, guerra, fuoco, fumo e polvere » (1). Nè solo il Monferrato era prodigo d'ospitalità e di favori a quei nomadi cavalieri della poesia, ma e ne troviamo presso i marchesi d'Este a Ferrara, presso i Malaspina in Lunigiana, e a Treviso ed a Verona. Sono ricordati i nomi di Gaucelmo Faidit, di Cadenet, di Augier de Vienne (0ggieri del viennese), di Aimerico di Pegulhan, di Guglielmo Figuieiras e d'altri parecchi. « Questi ultimi trovatori non << compariscono più come ospiti passeggieri in Italia, ma di<< ventano, per così dire, italiani, e prendono viva parte ai << destini della nazione ed alle battaglie che allora si batta« gliavano. Per lo più essi erano di parte ghibellina, ma non << mancavano però neppure rappresentanti delle simpatie guelfe. << Furono i trovatori quelli che resero in Italia popolari non << solo le cose trattate nelle loro canzoni, ma anche il ciclo << favoloso del re Artù e della sua Tavola Rotonda, di Tristano << e Lancillotto, ecc., e così venne a spiegarsi in Italia, nella << sua interezza, il tipo della vita cavalleresca co' suoi tornei << e colle sue feste, colle sue pompe, co' suoi giuochi e col << culto della donna; e non solo nelle corti feudali e nei ca<< stelli, ma anche nelle città fra i nobili e i popolani » (2).

IV. Ma la cavalleria, che alimentò la gaia scienza

(1) A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, vol. II, pag. 4. (2) F. DE MATTIO, Le lettere in Italia prima di Dante, pag. 29.

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