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(cosi fu poi chiamata l'arte dei trovatori) era un prodotto del feudalismo e non poteva fiorire in Italia dove il feudalismo, portatovi da Carlo Magno, non era penetrato nell'intimo delle istituzioni e della coscienza del popolo. Convenne pertanto che anch'essa vi fosse importata, e ciò fu col mezzo delle corti imperiali, e con l'una e con le altre venne anche tra noi la cortigiana e cavalleresca poesia provenzale.

I trovatori di là, soliti accorrere dove luccicavano armi e si davano feste, passarono in Italia al tempo delle calate di Federico Barbarossa (la prima volta sembra fosse nel 1162) e vi diffusero la loro poesia insieme allo spirito cavalleresco che l'informava. Talchè su lo scorcio del secolo XII e nei primi decennii del XIII tutte le corti e le città dell'Italia superiore brulicavano di trovatori, i quali venivano a trapiantarvi il fiore della poesia, che la strage degli Albigesi andava schiantando nel loro paese. E poichè quella poesia, anzichè una spontanea effusione d'affetti, non era che un artifiziato congegnamento di concetti sottili, di cerimonie affettate, di forme convenzionali, così ci voleva « una lingua, se non doviziosa, raffinatissima e nata insieme con i concetti tutti speciali a cui doveva adattarsi. Ora i dialetti dell'Italia superiore, ispidi di per sè nè politi dall'uso..... erano tutt'altro che acconci a ricevere la studiatissima forma trovadorica e a rendere le sottigliezze dell'amore cavalleresco. Il perchè parve ai nostri più agevol cosa l'usare a ciò la lingua stessa provenzale, che del resto era anche la lingua di moda, come più tardi fu la francese, del più bel fiore della cavalleria europea» (1).

Dei primi fra gl'italiani a trovare in provenzale fu Alberto

(1) G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale in Studi letterari. Livorno, Vigo, 1875.

Malaspina, che fiori nella seconda metà del secolo XII, e fu prode e liberal cavaliere, ospite nei suoi castelli in Lunigiana e nel Tortonese di parecchi fra i più valenti trovatori provenzali. Folchetto, genovese, che si chiamò di Marsiglia, perchè quivi dimorò finchè non si rese monaco, ebbe riputazione non piccola in Provenza, ma al presente la sua fama può dirsi raccomandata soltanto al ricordo che di lui hanno lasciato Dante nel IX del Paradiso, e il Petrarca nel capo IV del Trionfo dell'amore. - Sordello, mantovano, deve anche lui l'immortalità, più che altro, all'Alighieri; ma fu certamente uomo di grandi talenti, poeta versatile ed efficace sferzatore dei corrotti costumi e dell'ignavia dei grandi. Celebre è il suo sirventese in morte del prode guerriero Blacatz, del cui cuore egli imbandisce un cotal suo banchetto poetico, chiamandovi ad uno ad uno e per nome molti cavalieri e principi del suo tempo. Si ricordano eziandio con varia ma sempre minor fama il ferrarese Antonio Ferrari, i genovesi Lanfranco Cigala e Bonifacio Calvo, il veneziano Bartolomeo Zorzi, i piemontesi Nicoletto da Torino e Pier della Caravana, il bolognese Rambertino Buvalello, un Lanfranchi da Pistoia, Dante da Maiano e alcuni altri, ventiquattro o venticinque tra tutti.

V. Quando poi il centro della monarchia Sveva fu stabilito in Sicilia (1516-1550) la poesia provenzaleggiante seguitò la corte imperiale a Palermo, dove Federico II grandemente la favori, mosso dall'indole sua cavalleresca e dal suo amore alle arti gentili, non meno che dai vasti disegni della sua politica.

Rimasta illesa dalle invasioni barbariche, la Sicilia, attraverso la non immite dominazione degli Arabi, aveva ristorati gli avanzi della sua antica civiltà greca e latina; avanzi che

rigermogliarono vigorosi sotto il liberale e dolce governo dei principi normanni, la corte dei quali divenne splendido convegno di cavalieri, di dotti, di musici e di poeti. Così la poesia provenzale trovava in Sicilia una cultura meglio apparecchiata ad accoglierla e, ciò ch'è più, quell'elemento cavalleresco che era per essa il sangue, la vita. Ma mentre nell'Italia superiore per la diffusione e l'affinità della lingua provenzale (già adulta e che meglio si adattava agli artifizi della poesia d'allora, nata con lei e da lei) non si era curato d'esercitarvi i dialetti ancora informi ed incerti, in Sicilia invece si cominciò tosto a scrivere nel volgare dell'isola, che probabilmente era pervenuto ad un maggiore sviluppo, vuoi per la non mai spenta e varia cultura, vuoi per la poca diffusione del provenzale, più lontano e più differente.

Il gruppo dei poeti cortigiani, il cui centro fu la corte di Palermo, sembra essere stato assai numeroso, benchè solo di pochi si conoscano i nomi e si conservino, in parte, i componimenti. Sono tra i più degni di menzione: Federico II, Enzo suo figlio e Pier delle Vigne, suo segretario; Guido ed Oddo delle Colonne, Iacopo da Lentini, Mazzeo Ricco da Messina, Arrigo Testa, Rugieri Pugliese, Ruggerone da Palermo ed altri molti.

Il soggetto consacrato dei loro versi è l'amore cavalleresco, nel concetto dell'amore e nel culto della donna essi rifanno pallidamente le forme della poesia provenzale. Per gli antichi l'amore è un Dio; quindi influsso del nume il sentimento amoroso. Nella coscienza dei nuovi poeti cortigiani non c'è che la signoria feudale e la cavalleria; e però anche l'amore è per loro come un signore feudale, un cavaliere, e alla donna che lo personifica si deve la sommissione, l'omaggio, la servitù. Il perchè nella poesia cortigiana si cercherebbero invano alti concetti e sentimenti ingenui e profondi; aristocratica fred

dezza, cavalleresca affettazione e nulla più. Il poeta non tratta a tu per tu con l'amata, non le apre in nessun modo il suo cuore, non trasfonde nel verso il suo amore, che egli pensa e non sente. Tutto pieno di rispetto, egli innalza la donna innanzi a sè rimpiccinito e raumiliato; tutte le virtù, tutti i difetti, tutte le ragioni sono in lei: tutte le colpe, tutti i difetti, tutto il torto in lui; e, alla fin fine, s'egli ama troppo, suo danno; s'ella non gli då retta, è che non n'è degno. Immaginate un cavaliere del medio evo con gli sguardi avvallati, la cera dimessa, ai piedi d'una dama maestosa, sfolgorante di bellezza, di vesti e d'ornamenti, che invece di guardare all'amante guarda alteramente in alto od in parte, ed avrete l'uomo e la donna nella poesia cortigiana del secolo XIII.

VI. Però non è da credere che il primo impulso alla nuova poesia italiana sia venuto tutto dai trovatori della Provenza. Per quanto in basso fosse caduta la letteratura nel medio evo, una tenue vena di poesia il popolo la conservò sempre. Quando, trascorso il mille, gli italiani cominciarono a ritemprarsi nelle lotte per le libertà comunali, nelle industrie e nei commerci rifiorenti, ebbero anche la loro poesia, espressiva e gagliarda comechè rude e limacciosa. I documenti che ne rimangono di questa primitiva arte di popolo sono scarsi e frammentari, ma bastano a mostrarne l'indole e la forma; chè a provarne l'esistenza non fa davvero mestieri averne testimonianza. Come mai avrebbero potuto attecchire fra noi le ricercate forme della poesia provenzale se i germi dell'arte non vi avessero avuto un certo sviluppo? La pietà religiosa, la carità della patria e l'amore della donna erano i sentimenti che d'ordinario ispiravano quelle prime poesie tutte spontanee e nazionali.

D'argomento religioso se n'hanno in copia. Pietro da Be

scape (o Barsegapè) nel milanese, scrisse in rima, avanti il 1264, la storia del Vecchio e Nuovo testamento. Fra Giacomino da Verona ci lasciò la Gerusalemme celeste e la Babilonia infernale, descrizioni del paradiso e dell'inferno, goffe, ma qua e lå originali e vivaci. Altri, come Gherardo Pateclo, o Patecio, cremonese, Uguccione da Lodi, ecc., scrissero leggende e visioni che qui non mette conto ricordare. Di Fra Bonvesin da Riva, autore di molti canti religiosi, tra i quali una disputa tra la Vergine e Satana, abbiamo una curiosissima poesia De cortesie cinquanta che se den servar al desco (delle cinquanta cortesie da usarsi a tavola), un non impoetico dialogo tra la rosa e la viola ed altri singolarissimi componimenti.

Patriottici sarebbero i canti dell'Anonimo genovese, che celebrano le vittorie di Lajazzo (1294) e delle Curzolari (1298), ed altri fatti di quella repubblica; la strofe cantata da quei di Reggio quando nel 1243 v'andò podestà il fiorentino Lambertesco dei Lamberteschi:

Venuto è 'l lione

De terra florentina

Per tenire raxone

In la cità regina —;

il frammento d'un canto per l'assedio posto a Messina nel 1282 da Carlo d'Angiò:

Deb, com'egli è gran pietate
Delle donne di Messina,
Veggendole scapigliate

Portando pietre e calcina!
Dio gli dea briga e travaglio
Chi Messina vuol guastare.

D'argomento amoroso nacquero e corsero tra il popolo forse in maggior numero. Prima d'accennarne alcuno giova però ricordare certi componimenti grossolani e scurrili, scoperti

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